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ESAME DEI RACCONTI SUL PROPOSITO DI LUCIO

TARQUINIO E DI SERVIO TULLIO.

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Ciò che si narra rispetto a Demarato ha una sembianza storica molto fallace per la troppa esattezza con cui s'annoda a Cipselo, ciò che assegna in pari tempo una data ben certa al regno di suo figlio Tarquinio. Se si potesse inferire che cotesto racconto fosse trapassato dalle tradizioni indigene negl' annali, avrebbe tanto più peso in quanto che l'ignoranza degl' annalisti non eccettuati quelli del settimo secolo era stragrande in fatto di storia. greca; massime ch'è troppo aperta la loro poca attitudine quando si posero a voler concordare gl' annali dei Pontefici coll' istoria di Corinto. Non hanno tenuto Dionigi il tiranno come contemporaneo di Coriolano? E per un errore contrario non hanno fantasticato che le armate cartaginesi fossero venute in Sicilia per la prima volta nel 323? (125).

Ma quest' apparenza di concordanza cronologica sta o cade colle indicazioni del tempo in cui visse Tarquinio, e queste indicazioni non hanno altro fondamento che un giuoco di numeri. Poco monta che l'abbozzo del regno di questo re che porta tutti i segni dell' invenzione sia adornato d' una tal L'antica tradizione romana s'alienava intieramente da queste determinazioni di data nè io vi trovo modo di conciliazione. L'apparente accordo non è che una falsificazione.

apparenza.

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Facendo capo da Fabio, tutti gli annali romani, tranne quelli di quel falsator di Pisone, ed inoltre gl' annali Ciceroniani e T. Livio, recavano che l' ultimo re e suo fratello

Aronte erano figli di Tarquinio Prisco, orfanelli sin dall'infanzia. Fabio li nominava come figliuoli di Tanaquilla che sopravvisse ad Aronte. Ed è veramente concorde colle indicazioni che fanno Collatino e L. Bruto dell'età dei figli di Tarquinio il superbo, presentando il primo come nipote d'un fratello di Tarquinio Prisco, ed il secondo come nipote del re medesimo per parte di sua figlia. E questo è talmente dell' indole di questo racconto che le sottigliezze di Pisone e di Dionigi ne disfanno l'insieme, ed inducono a maggiori interpolazioni e falsamenti che non ne immaginarono essi stessi.

Niente di più agevole che mostrare al vecchio Fabio che Tarquinio venuto a Roma secondo gli annali al più tardi nell' anno ottavo del regno d'Anco, era costituito nel suo ottantesimo anno quando fu assassinato e Tanaquilla nel 75, e che perciò non potevano aver lasciati dei fanciulli in tenera età.

Era pure agevole del pari l'aggiungere che se Aronte mori nel quarantesimo anno nel regno di Servio, la madre di lui dovea almeno avere 115. La critica d'Alicarnasso che argomentò contro Fabio, presupponeva di pigliare le mosse dalla cronologia avuta per buona d' ambedue; ma se egli avesse avuto a fare col vecchio poeta, desso avrebbe risposto: chi gli disse ch' io contassi gli anni alla maniera dei pontefici? Se diedi ai regni di Tarquinio e di Servio uno spazio di 82 anni, se m' inquietai per ciò che riferiscono gli annali sul conto della venuta di Locumone e sulla morte d' Aronte, voi avreste ragione; ma che fanno per me questi nomi vuoti di senso? È forse necessario di porre un termine alla vita di questi regni ? È forse necessario che io mi giustifichi? Ebbene ponete 25, 30 anni e che so io (126), poco importa, ma non punto un

numero che guasti il poema e faccia indugiare almeno 20 anni a Tullia ed a Tarquinio la consumazione del loro delitto incominciando dall' istante in cui l'hanno concetto, oppure che faccia nascere il padre di Collatino più di 120 anni prima del momento in cui costui tenea coi figli del dei propositi a tavola, e la madre di Bruto 120 anni prima di colui che compagno dei figli del re, cacciò Tarquinio ?

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Ma dacchè la nascita di Tarquinio Prisco deve essere diferita almeno di mezzo secolo, Demarato non è più il contemporaneo di Cipselo onde si dilegua tutto ciò che vi può aver aggiunto un greco cronologo. Ora tutte queste invenzioni hanno potuto trapassare nel libro di Fabio, perchè questo padre degli storici romani scriveva dopo la morte di Eratostene.

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Io non mi schermisco di tentar di spiegare come nacque la versione che prevalse. Corre una vecchia tradizione greca in Italia ch'è di tutt' altra natura ed è quella che vuole che la scrittura e le arti siano venute dalla Grecia in Etruria. Essa personificava siffatte importazioni, e non si vorrà senza dubbio vedere in Euchiri ed in Eugrammo ( nomi che significano la bellezza delle forme data all' argilla, e la bellezza del disegno) dei personaggi storici da collocare negli annali dell' arte; però questi nomi sembrano appartenere a dei tempi antichi. Non è così di quello del pittore Cleofanto che potrebbe esservi stato aggiunto più tardi. Ma Demarato è inseparabile da' suoi compagni ; e vi ha poca buona fede a non voler conoscere o passar sotto silenzio, quegli che portò l'uso della scrittura. Ciò che accade non per altro, se non perchè non si può credere che non sia stata introdotta nella Tirennia che verso la trentesima Olimpiade.

Tutto quello che corre sul conto di lui non è che una vecchia tradizione del genere di quella che consente ad Evandro l'introduzione della scrittura latina. In sulle prime ella si faceva innanzi sprovvista d' ogni termine cronologico se non che si faceva discendere da tempi assai rimoti come l'uso della scrittura e i primi principii delle arti, perchè i colori di Cleofante non sono altro che un rosso di mattoni pestati. Si pensava adunque come per Evandro ad un'epoca che precedeva di molto le Olimpiadi. Se fu posta a Corinto la patria di Demarato, ciò forse si spiega per via delle somiglianze che corrono fra i vasi di questa città, e quelli di Tarquinia, somiglianze che consentono di supporre un commercio fra queste due città marittime. E può essere che un corinto di questo nome abbia abitato queste contrade ad un' epoca qualunque, e vi abbia avuto nome, il quale andò sempre vieppiù crescendo quando la finzione. non cognominò altrimenti l'istitutore della tirannia. S'egli era universalmente conosciuto come Pitagora, la tradizione romana l'avrà congiunto per qualche filo alla sua persona, come fece di Numa e degli Emili al proposito di Pitagora; dappoi si valsero della cronologia romana per inferirne che Cipselo e la razza dei Bacchiadi erano contemporanei. V' ha della perizia nell' invenzione del motivo che trasse Tarquinio a Roma, come pure nel racconto sul modo onde acquistossi il favore del popolo; poichè era pur forza di dare una qualche spiegazione all' elezione d'uno straniero.

Quando poi qualcuno pensasse che la tradizione può essere tradotta in istile storico, e si compiacesse di ravvisare in Tarquinio un Tirreno nato da una donna Etrusca in un impari maritaggio, potrebbe fortificarsi, oltre molti altri ragionevoli argomenti coll' introduzione della religion

greca e delle immagini degli Dei nei tempi di Roma. In quanto a me avventurerò una congettura che sotto questa sembianza è in qualche modo congiunta a quella quantun➡ que dissimile affatto, una congettura che più contraria che qualunque altra alle idee correnti, è fatta per isgomontare i meno timidi. Ma ella ha per me un non so che di vero che è più che sufficiente a convincermi affatto.

Io stimo che l'opinione che fa di Tarquinio un Etrusco non abbia altra origine che il suo nome tolto da una città etrusca, e che perciò non parve mal' atto a segnare l' epoca tusca di Roma. Ben alieno di fare inchiesta in questa città della origine della sua razza io la tengo come latina.

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Ciò che oppugna l'idea che i Tarquinii fossero una famiglia secondo il nostro significato di questa parola, si è che vi era in Roma tutta una Gens Tarquinia che fu bandita coll' ultimo re; noi lo comproveremo più oltre con delle testimonianze (127). Ben è vero che questi potrebbero essere dei forusciti di questa Gens; ma quando pure fosse così la tradizione recava che vi si erano rifugiati nello stesso modo che diceva che Collatino si era posto a Lavinio. Finchè prevalse questa tradizione Tarquinia non fu certamente tenuta come lor patria.

L'origine latina dei Tarquinii è pur così bene indicata nel sopranome del primo re che nei sopranomi degli altri patrizi (128), giacchè si vede chiaramente di qual nazione fossero. Priscus era per certo un nome di popolo come Cascus che assunse del pari un significato da cose vecchie e cadute in disuso. Prisci Latini è l'equivalente di Prisci e Latini. Non si può aver senza dubbio nella formola di dichiarazione di guerra recata da Tito Livio nel regno di Anco, un documento autentico di questo tempo, ma è cavato però nei libri del dritto sacerdotale che hanno una

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