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liberi e le città dipendenti non furono che una compage inseparabilmente congiunta alla capitale, di modo che le case danno forma ad una parte dello stato, e che gli uomini liberi spettanti al comune fanno corpo cogli abitanti della campagna.

Inoltre la differenza che corre fra il comune delle città con quello delle campagne non muta per nulla il paralello consegnato alla storia delle costituzioni libere delle due età d'oro delle città o cittadinanze. Nell' una e nell' altra epoca questa storia non è che la gara fra le case e il comune. Quest' ultimo sentendosi più poderoso e maturo per l'esercizio del potere, riclatha una costituzione e l' egualità dei diritti; le case all' incontro vorrebbero tenerlo nell' oppressione e nel servaggio. Ma la tenżone non era pari: da un lato una potenza che s'allarga e cresce senza posa; dall' altra una potenza che ha gli ordini chiusi, e che si consuma da sè. Così quando il comune sottostette ciò non fu che l'effetto di un vantaggio fortuito accompagnato da violenza, per non dire che fu l'effetto di qualche grande infortunio da cui si seppe trarre abilmente profitto. Una siffatta vittoria per parte delle case era tutto ciò che poteva intervenire di peggio perchè d'allora degenerarono sempre e sotto la lor potenza senza fine la cosa pubblica rovinava moralmente e politicamente come toccò a Norimberga. Nei luoghi ove la querela si ventilò con dolcezza, ove delle transazioni condussero l'equilibrio si videro nascere dei tempi felici, che sarebbero durati più lungamente, se l'aristocrazia rigenerandosi avesse voluto assicurarsi la vita. Ma invece ella degenerò in oligarchia, onde le sue forze si dileguarono a petto dei comuni così pieni di vita. Bene spesso la lotta fu accompagnata da una grande ferocia quando un inflessibile orgoglio s' ostinava a non voler conoscere i diritti d'un ordine di cose che sta

vano per aver effetto (176), per non dire che l'avevano di già; orgoglio che si nutriva sempre più di quelle vane pretese che avrebbe dovuto restringere se non deporre. Talvolta però le case cessero quasi senza resistenza, ed è così che nel XIII e nel XIV secolo le costituzioni di molte città d'Italia e d'Alemagna, cangiarono in grazia d'un buon volere reciproco e per l'esempio delle grandi città.

La dominazione delle famiglie ancor numerose fino che costituiscono realmente la parte più forte, più pura, più nobile di tutti, è il primo pensiero dell' aristocrazia ; la preminenza del comune è ciò che in appresso si designò col nome di democrazia. Il significato semplice ed antico di queste parole fu obbliato in progresso e si cercarono delle definizioni nelle proprietà contingenti. Onde a fatica nell'età di Aristotile si sarebbe potuto rinvenire ancora qualche aristocrazia nel suo primo significato: perchè quelle poche che non erano degenerate in democrazia, ristrette a picciol numero perchè si andavano estinguendo, si erano da lungo tempo scambiate in oligarchia. Il potere era dunque nelle mani d' uomini molto meno numerosi che i loro antenati, e l'usavano sopra un comune molto più esteso e molto più degno di considerazione, il quale quanto più avea il sentimento de' suoi diritti e della sua dignità, più la sproporzione era visibile, e l'aristocrazia si faceva mal fidente riottosa oppressiva a disegno. Quando i legislatori desideravano scansarsi da una democrazia come si concepiva in quei tempi, essi non sapevano come ai giorni nostri trovare altro sutterfugio che di prendere per regola la somma delle fortune; cosa che i sapienti tennero sempre come non buona ed oligarchica affatto. Pensavano che la costituzione la più giusta e la più sana dilucidasse la cogni

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zione del comune colla viva aristocrazia ; ciò cho essi chiamarono politia, e popolo gli italiani del medio evo.

Ma ciò che vi ha di più difficile nelle umane istituzioni, si è d'impedire che non rovinino e non anneghitiscano. D' ordinario là dove vigevano le politie e bene spesso anche le democrazie compite, si chiudevano al punto che accanto a loro nuovi elementi ingeneravano una comunità d' uomini liberi, legati insieme costituendo un comune, al pari di quella che era arrivata alla egualità dei diritti senza averne però il titolo. Erauo membri arretrati uella vita politica, e se le loro forze erano notabili, la loro esclusione così ingiusta come quella dei loro predecessori, tornava in detrimento di tutti. Questo è ciò di cui Roma negli ultimi tempi della repubblica diede il più grande e il più memorabile esempio. Ella peri perchè quei procedimenti che aveano fatto l'eccellenza dello stato per l'ammissione e l'innalzamento del comune s' arrestarono perchè gli alleati d'Italia non furono città per città fatti sorgere al grado di cittadini romani. I piccioli esempj si mostrano dappertutto dove lo stato si accrebbe d'un territorio novellamente acquistato. I distretti della Beozia che si erano sottomessi ad Atene godevano dei vantaggi del diritto comune; ma i loro cittadini non erano cittadini d' Atene. I distretti rurali delle città svizzere aveano nello stato i medesimi diritti delle tribù molti secoli prima, e nel nostro paese di Dittmarsen i Strandmana di cui il capitolo di Brema avea investito la repubblica, furono un comune senza suffragi nell'assemblea e senza famiglie politiche, quando l'aristocrazia delle famiglie ebbe cessato d'esistere.

Il demos dell' Attica così fatto come lo trovò Solone era un comune di campagnuoli di già scompartiti in demi o giurisdizioni (177) per opposizione alle gentes. Le fa

zioni che la dividevano per effetto delle querele a cui si lasciavano trarre, gli eupatrides (i nobili) rispondevano alla disposizione locale del paese. I membri di questi demi erano i discendenti rimasi liberi degli antichi abitatori dell' Attica che non furono fatti inchinare fino alla condizione di thetes (operai mercenarj), nè per la forza dell'immigrazione jonica, nè in seguito per necessità e per alienazione volontaria delle loro persone. Nell' ordinamento di Clistene, questo demos era di già preponderante nella

nazione.

Il comune romano la plebs, sorse pure da elementi di diversa natura, come pure si mantenne e s'allargò immensamente agevolandone sempre più l'ammissione. Si ingenerò pure un comune nelle tre prime città per. l'accoglienza degli isopolites e di clienti così di libera che di franca origine, i quali avevano adempito ad ogni loro do◄ vere, sia che si fossero redenti per patto, sia che la gens dei loro patroni avesse cessato d' esistere. Se questo comune fosse rimasto solo si sarebbe cosi poco tratto dall' oscurità che il destino delle quattro tribù urbane che dove vano accogliere i cittadini d' un' origine offesa da servitù parrebbe potersi decifrare con questo umile principio. La vera nobile e grande plebs nacque dalla fondazione d'un territorio composto di città latine. Nelle conquiste dei primi re, ci si para dinanzi di modo, che molte città sono colonie, altre disfatte, e i cittadini condotti in Roma dove sono privilegiati insieme agli altri col titolo di borghesi romani (178). Ma si può intendere la formazione della plebs del re Anco, in questo senso, se non perchè dopo la distruzione d'Alba, una parte dei latini fu ceduta a Roma per convenzione e su questo piede (179). I nomi di queste città conquistate non sono corroborati da autorità sufficien

ti, e non altro che il caso ha potuto fare che fossero tutte latine; ma da qualunque ceppo uscissero questi nuovi membri dello stato, la loro universalità costituiva un comune. Il loro essere di borghesi era ciò che fu in progresso quello di cittadini senza suffragi (perchè non si poteva votare che nelle curie); ma la loro condizione era più bassa; poichè erano privati del diritto di matrimonio, e tutti i loro vincoli coi patrizi erano stretti a loro pregiudizio. Del resto questi nuovi cittadini che erano stati dotati con tanta parsimonia erano così alieni come lo furono più tardi di costituire un minuto popolo. Fra loro si trovava la nobiltà delle città conquistate e cadute come in appresso i Mamilj, i Papj, i Cilni, i Cecina furono tutti plebei.

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Ciò che più persuade che il comune plebeo uscisse da uomini liberi accolti come si disse si è il caso riferito dalla tradizione che il re Anco assegnasse ai latini delle città diventate romane oltre la stanza sull' Aventino ove fu dopo la vera città plebea. A vero dire non è storico l'asserire che vi furono condotti, poi che sarebbe stato impossibile d'accumulare in Roma un' immensa popolazione incapace di coltivare i suoi campi lontani. Si assegnò questo monte a quelli che vollero stanziarvisi per fondarvi un sobborgo, e vivervi appartati retti da un diritto particolare; i più dimorarono nella loro patria, ma le città finirono d'essere dei corpi. Il loro territorio quando la spada l' avea conquistato o s'era reso a discrezione, era, secondo il diritto dei popoli italici, convertito in pubblico dominio. Una parte restava bene del comune, o i patrizi ne fruivano per essi e pei loro vassalli; una parte spettava alla corona, e i re assegnavano la terza agl' antichi proprietari fra cui era divisa come fra i nuovi Romani. Può essere che la confisca non cadesse per lo più che suf dominj pubblici.

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