ENRICO CARUSI Quattro sonetti inediti di Annibal Caro S CRITTORE facile ed elegante Annibal Caro seguì nella lirica il gusto del suo tempo, ricalcando le orme del Petrarca. Sicchè le sue poesie, scritte anche per occasione e a richiesta dei numerosi amici e ammiratori, non brillano per originalità e restano inferiori alla felice per quanto infedele traduzione dell' Eneide, e, più ancora, alla stupenda imitazione del Tirsi di Teocrito. Questi quattro sonetti, che pubblico per la prima volta, rivelano una passione sconosciuta del poeta, e saranno bene accetti agli studiosi, ora specialmente che in patria non è spenta l'eco per le sue feste centenarie. A me poi offrono la gradita occasione di partecipare alla tua festa, mio caro amico. Che altro manifestarti in questo giorno, se non pensieri di amore? E io lascio volentieri al Caro tale còmpito, con l'augurio sincero del più lieto avvenire. Chi sia la donna cui furono dirette le poesie non mi è stato possibile accertare; romana fu senza dubbio, come farebbe supporre il nome: Tullia della Valle, e come esplicitamente dice il poeta nell' ultimo verso del terzo sonetto. Per la verità dell' attribuzione dei quattro componimenti, oltre i criteri stilistici, che a me sembrano corrispondenti alle altre opere poetiche del Caro, è necessario dare poche notizie intorno al codice che li contiene: il Vat. latino 9948 (1). È una miscellanea di rime volgari e latine di autori diversi, alcuni dei quali viventi ancora quando il codice fu scritto. Chi le copiò per la maggior parte fu un tal Pietro Antonio Rosi che spiega in un sonetto al Melchiori, ignoto rimatore del sec. XVI, le ragioni della raccolta (2). Nei mar (1) Una descrizione particolareggiata del codice sarà pubblicata fra breve nel secondo volume dell'opera: Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti. I sonetti si leggono nei ff. 206-207 B. (2) Il sonetto molto pedestre si legge nel f. 2, ed è il seguente: Mentre Bologna in alti studi havea E Amor in cari et affannati ardori Et suo così però che trar dovesse Di me un essempio et così fece in questo Libro, che leggerai, vago lettore. Dunque scrivendo vita mi concesse Pietr'Antonio de' Rosi, che suo amore Ha donato a un Galluccio ardito et presto. Il Signore di cui il Rosi parla nel v. 3 fu, probabilmente, Brunoro Zampeschi, di cui ricorre parecchie volte il nome nei ff. 291 sgg. Del Melchiori, a cui sembra indirizzata la poesia, nessuna notizia nei manuali di storia letteraria. Fu probabilmente cittadino di Oderzo, come fanno supporre alcune lettere firmate col suo nome nei ff. 248255 B; ma visse anche a Bologna (cf. ff. 260 sgg.). Celio Magno ne ricercò l'amicizia con una poesia, a cui il Melchiori si affrettò a rispondere (cf. ff. 151 B-156). Molti altri componimenti poetici del Melchiori si ritrovano pure nel cod.; ma di poco valore, sebbene rivelino nell'autore un gusto e una cultura letteraria non disprezzabili. Il cod. posseduto dal Rosi, come dimostra la nota di possesso nel margine superiore del f. 1, dove si legge cancellato: « Di Pietro] << A[ntonio] de Rosi detto il Nepote », era destinato al Melchiori. Di costui infatti è il primo sonetto trascritto nel f. 3, dopo quello del gini uno studioso del secolo scorso aggiunse per molte poesie le edizioni, oppure semplicemente l'indicazione: «< inedito »>, « stampato » (1). Il testo dei quattro sonetti e la didascalia del primo sono di mano del Rosi (2); ma l'attribuzione al Caro è d'altra mano contemporanea, forse del Melchiori, la medesima, ad ogni modo, che identificò giustamente altre poesie di quel codice, e al f. 283 trascrisse il noto sonetto del Caro: «Egro già d'anni e più di colpe grave » (3). È difficile Rosi, che ho riportato di sopra. Segue al sonetto, nel margine inferiore del f. 3, la seguente nota di mano del Rosi: «A Te principium <«< tibi desinet », e l'ultimo componimento del cod., nel f. 357 B, è appunto del Melchiori. Per l'età del ms., oltre ai criteri paleografici che lo fanno porre certamente alla seconda metà del sec. XVI, nei ff. 153 B, 156 e 216B si leggono le seguenti date, dalle quali poco si allontana la trascrizione del cod.: « 26 sett. 1553 »; «29 sett. 1553»; « 18 maggio 1554 » e «14 maggio 1554 ». (1) Questi scrisse accanto ai quattro sonetti del Caro la parola << inedito», mentre per gli altri componimenti dello stesso autore indicò l'edizione. (2) Nel primo dei quattro sonetti, infatti, è scritto di mano del Melchiori (v. nota seguente): «Di M. Hannibal Charo », e di mano del Rosi: « Sopra la Sra Tullia da la Valle »; negli altri sonetti è ripetuto, di mano del Melchiori: « Del Medesimo sopra la Medesima ». (3) Come ho avvertito, il cod. fu scritto per la maggior parte dal Rosi; ma altri amanuensi vi collaborarono. Di questi il primo trascrisse i ff. 283-290 e forse il f. 157 B, e aggiunse i nomi degli autori a molte poesie, a molte altre invece soltanto la parola: «Incerti ». Io inclino a credere che questo amanuense fu il Melchiori stesso, perchè il Melchiori fu il possessore del codice, e, solo nei suoi componimenti, si ritrovano parecchie correzioni o varianti da questo amanuense introdotte nel testo già scritto dal Rosi. Cf. ad es. il f. 271 B, dove il v. 7 che prima era il seguente: «Occhi per voi forz'è che si con«<sume », fu ricorretto: «È pur forza per voi che si consume ». Chi modifica così il pensiero e la forma non può essere un semplice copista! Cf. anche i ff. 249, 251, 252 B, 253, 280. Da questo amanuense furono identificati, tra gli altri componimenti, anche quelli del Caro che nel codice erano tutti adespoti e anepigrafi, meno l'ultimo. Tali supporre un si grossolano errore di attribuzione, quando era vivo ancora il Caro, noto certamente al Melchiori, che, se non altro, ebbe fra mano il codice. E, d'altra parte, si sa che il Caro scrisse le liriche negli anni giovanili, e solo tardi si decise a correggerle, per non farle andare in giro così malmenate e guaste nelle copie e nelle stampe, da non riconoscerle per sue (1). Non potè il poeta vederle pubblicate dal Manuzio a cui pure l'aveva promesse, e le sue Rime uscirono postume nel 1568, a cura del nipote Giovanni Battista (2). Se la raccolta pubblicata fu quella stabilita definitivamente dal Caro stesso, questi avrà avuto le sue buone ragioni per escludere i quattro sonetti del cod. Vaticano; i quali, certo, non accrescono la fama poetica dell'autore. Per l'edizione, manterrò il testo del cod. Vaticano, correggerò solo gli errori materiali, adattando la grafia e l'interpunzione all'uso moderno (3), sono i sonetti che cominciano: 1(f. 30) «Questo dal grande Henrico «< amato fiore »>, cf. Opere di A. CARO, ed. Le Monnier, 1864, p. 451; 2(f. 30 B) « Real donna cortese, i vostri onori », cf. Delle lettere familiari del comm. A. CARO... colla vita dell'autore scritta dal signor A. F. SEGHEZZI, Padova, Comino, 1763, I, Lv; 3(f. 85) «Se d'esto lasso mi<«<crocosmo e frale », ibid.; 4(f. 103) «Ben ho del caro oggetto i sensi «privi », CARO, Opere, ed. cit. p. 391; 5(f. 135) « Pellegrina Fenice in << mezzo un foco », CARO, Opere, ed. cit. p. 399; 6(f. 283) «Egro già «< d'anni e più di colpe grave », CARO, Opere, ed. cit. p. 461, questo sonetto, come ho avvertito, fu trascritto tutto dal Melchiori. Nel f. 290 B si legge i sonetto: «Giunta o vicina è l'ora (humana vita)», ibid., attribuito al Caro dal Rosi. Un altro amanuense della stessa età trascrisse i ff. 291–336, 358. Un ultimo il f. 336 B. (1) Cf. Lettere di A. CARO, ed. cit. II, 189 sg., 296, 299, 316. (2) A correggere le Rime il CARO si pose dopo la stampa dell'Apologia uscita in luce nel 1558; cf. SEGHEZZI, Vita di A. Caro, premessa alle Lettere, ed. cit. p. xXXVI. (3) Così metto gli accenti e gli apostrofi dove c'è bisogno, distinguo l'u consonante, sopprimo la consonante h dove è inutile, e trascrivo e o ed, secondo le necessità metriche, la congiunzione et del codice. Sopra la Signora Tullia della Valle. I. L'erbetta verde e le vermiglie rose Di questa amena Valle, e l'ombre e i venti E il suon de l'acque fra' bei fiori ascose, E le piante felici e rugiadose, E i pomi d'oro e più che 'l sol lucenti Ma non già un draco, anzi leggiadra ed alma Qual novo invitto Alcide avrà la palma Di tanta preda e di si dubbia guerra? Poca speme ha chi a si alto acquisto () attende. II. Ninfa vaga, leggiadra ed amorosa, Che in questa Valle sola ora soggiorni, E ne' tuoi giovinili e dolci giorni Come viola o matutina rosa Vien men così il bel viso, e i crini adorni (a) rinnovan] cod. rinovan dalla stessa mano su aquisto (b) Esperidi] cod. Hesperide (c) acquisto] ricorretto (d) Tieni] cod. Tien |