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GIUSEPPE GIGLI

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Canti popolari greci in Terra d'Otranto

HI da Lecce muove verso la punta del Tallone d'Italia, non può fare a meno di notare una curiosa particolarità etnografica che presenta questa estrema provincia. Circoscritto a occidente dal territorio della stessa Lecce, a oriente e a nord da quello di Otranto e dal mar Adriatico, a mezzogiorno da quello di Gallipoli e dal mar Ionio, un gruppo di nove paeselli che si chiamano Soleto, Corigliano, Sternatia, Zollino, Melpignano, Martano, Calimera, Martignano e Castrignano de' Greci, forma una vera isola greca in terra italiana, con usanze e costumi propri, con proprio dialetto.

In tutta la penisola Salentina, fino ai primi anni del secolo XIV, fu diffuso il rito greco; a poco a poco però esso fu sostituito da quello latino: i pontefici e i re di Napoli ne furono i più accaniti trasformatori. Nella relazione mandata al papa Giovanni XXIII (1410-1415) da Giovanni degli Epifani sulla diocesi di Nardò, sono menzionati quattordici paesi, ad essa sottoposti, nei quali si celebrava nelle chiese il rito greco: Galatone, Casarano, Casaranello, Alliste, Felline, Secli, Neviano, Aradeo, Noha, Fulcignano, Tabella, Puzzovivo, S. Niccolò di Cigliano e Lucugnano, questi due ultimi oggi distrutti.

In Otranto, città già fiorente e considerata come una delle porte d'Italia verso l'Oriente, il rito greco fu abolito per ordine di Celestino III (1191-1198); in Galatina nel 1507, in Gallipoli nel 1513, in Soleto nel 1598, in Sternatia nel 1614, in Corigliano nel 1615, in Martignano nel 1662, in Calimera nel 1663 e in Zollino nel 1688.

Se però l'ellenismo, in generale, fu soffocato nella terra che prima accolse, con la Sicilia e la Calabria, le colonie della Grecia orientale e del Peloponneso, non ne fu del tutto estirpato il linguaggio. A dire il vero, anche questo ha subito molte restrizioni, giacchè un tempo era comune a molti altri centri abitati di Terra d'Otranto; ma limitato ai nove paeselli de' quali s'è fatto cenno, esso pare come rientrato in casa propria, e resiste vittoriosamente agli assalti che necessariamente gli danno le continue fraterne comunicazioni con le terre limitrofe.

Chi voglia studiarne il popolo e il suo linguaggio deve riguardare la sua letteratura, che comprende canti religiosi e canti d'amore, racconti e fiabe, nenie e canti funebri, indovinelli e proverbi. Se però non mancarono, specialmente in questi ultimi anni, valorosi raccoglitori e accurati illustratori e descrittori del luogo, non abbiamo certo lo storico, nel significato più ampio della parola, della Grecia Salentina.

Limitandoci all'esame di alcuni canti d'amore e rimandando il lettore desideroso di maggiori notizie all'opera del compianto prof. Giuseppe Monnosi: Studi sui dialetti greci della Terra d'Otranto), ci piace rilevare anzitutto come la letteratura popolare greca di questa provincia abbia una fisonomia tutta propria, che la distingue nettamente da quella popolare italiana. La solennità biblica di alcuni canti religiosi di Martano e di Corigliano, la freschezza de' rispetti

(1) Lecce, tip. ed. Salentina, 1870.

amorosi di Martano stessa e di Calimera, la tragica semplicità di alcune nenie e canti funebri di Zollino e di Sternatia, sono espressioni di anime non comuni, nella voce delle quali par d'intendere come un'eco della gran voce del popolo ellenico di Atene e di Sparta.

Nè solamente dal lato affettivo e sentimentale sono essi notevoli; spesso hanno accenti cosi tragici d'ira e d'invettiva, che davvero c'è da domandarsi se per caso non sia in essi un ricordo di Omero.

Si legga questo canto, per esempio, e si dica poi se esso non paia dettato piuttosto da un poeta letterato ed esperto di tutte le finezze stilistiche, anzichè da un poeta popolare, quasi analfabeta, un povero contadino stremato dal lavoro e dalla miseria:

Storia contro i cantinieri di Calimera.

Pu ine is Calimèras e palei

Na ertu na dune i bizzarria pu e(h)i!
(A)ttos butegaro stècume (ce) milùme,
Pu panta trone, pinnu ce jelune:

E jinégheto endinnutte sa signure
Cannonta, secondo e 'mere, ole tes vule:

Dio foré plèutte 's tin emèra,
'S tinò dionta t'ammài, 's tinò ti hera:

Dove sono di Calimera gli antichi

Perchè vengano a vedere la bizzarria che ci è!

De' bottegai (cantinieri) stiamo parlando,

Che sempre mangiano, bevono e ridono:

Le loro donne si vestono come signore
Facendo, secondo i giorni, tutte le (loro) voglie:

Due volte si pettinano nella giornata,
A chi danno l'occhiata, a chi la mano:

Ce ma t'orio milisi, ma to simài
Sirnune olo to jeno (ce) ma t'ammai:

O andras estéi e mmian agra butega,
C'e jinega ti canni ma olu i lega;

Ce to metro gomonnonta crasi
I heran ebbucchèi na begliasti:

O maros àntrepo o pianni c'e chitèi
Ce cini o canonònta on ancantei.

Ciuri pu éhete pleo pedia
Nifsetèto t'ammàdia ce t'aftia:

'Ci pu cùune buteghe ce cantine
Panta na pane fèonta sa fuine.

E col bel parlare e col (fare) segno
Tirano tutta la gente e collo sguardo:

L'uomo (avventore) sta a un angolo della bottega,

E la donna l'amicizia la fa con tutti:

E la misura empiendo di vino

La mano piega perchè (il vino) si versi;

Il pover' uomo lo piglia e non si cura:

E quella guardandolo l'incanta.

O padri che avete più figli

Aprite loro gli occhi e gli orecchi,

Acciocchè là ove sentono bettole e cantine
Sempre le vadano fuggendo come faine.

A sera, quando con il tramonto del sole si sospendono i lavori agricoli, e la popolazione rientra nelle povere case, sogliono riunirsi numerose brigate di uomini e di donne, e, d'inverno al lume delle lucerne, d'estate a quello della luna o delle stelle, raccontar fiabe o dir versi. Spesso sono fiabe e versi conosciuti e tramandati da generazione a generazione, spesso sono vere improvvisazioni in prosa o in rima.

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