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vasi all'imperatore per chieder l'atto di formale investitura (1): quindi ripresero nuova forza le ragioni dell'Impero sulla Romagna, ove ricompariscono gli ufficiali imperiali sotto il nome di duces et comites Romandiola, a tener diete di nobili e di popolani, a farsi compositori tra le fazioni, ad amministrar giustizia tra i dinasti, a paralizzare, infine, per quanto era in essi, la potestà dei legati pontificii, che per difendere i diritti della Chiesa spedivansi dal papa nella stessa contrada (2). I conti della Romagna durarono fino al Concilio di Lione. Ma sebbene in quel Concilio fosser di comune accordo definiti i diritti delle due potestà, e fosser dall'imperatore riconosciute le ragioni sovrane della Chiesa sulle Marche, sulla Romagna e sulla Pentapoli, le vestigia dell'autorità imperiale duravano tuttora nel 1277, poichè in quest'anno soltanto il papa Niccolò III potè ottenere che il re Rodolfo prosciogliesse le città della Marca e della Romagna dal giuramento che gli avevan prestato come a supremo signore (3).

Se la sovranità temporale dei papi era stata fin qui contrastata in diritto dagli imperatori, non era nemmeno favorita universalmente dalla opinione dei popoli. Senza parlare, infatti, nè dei grandi dinasti, che, parteggiando or per l'impero ed ora per la Chiesa, ma più spesso per l'imperatore lontano, che per il papa vicino, ad altro non miravano che a vindicarsi in istato d'indipendenza; e, senza parlare nemmeno dei piccoli signori feudali sparsi per le campagne, i quali pure, riconoscendo come alto signore l'Impero, eran sempre molesti ai papi ed alle città (4), può asserirsi che neppure da queste fosse pacificamente riconosciuta la sovranità vera e propria del papa e della Chiesa. Sono notissimi ad ognuno i memorandi fatti della dieta di Roncaglia, della Lega Lombarda, della battaglia di Legnano e della pace di Constanza, pei quali ebbero esistenza legale i Comuni italiani: ed è noto egualmente come la Lega Lombarda e le altre confederazioni che, sotto nome di Leghe Guelfe, rinnovaronsi spesso in difesa della libertà dei municìpi, fossero promosse, favorite ed aiutate dai papi, che facevano allora con essi guerra comune di libertà e d'indipendenza.

(1) Muratori, Antichità estensi, tomo I, p. 392. (2) Fantuzzi, tomo iv, diplom. 95, diplom. 104.

(3) Il diploma dei principi dell' Impero in conferma della dichiarazione o donazione di Rodolfo è del 1279: esso è riportato dal Catalani nella prefazione al tomo VIII degli Annali del Muratori, § 20. L'atto col quale Rodolfo proscioglie i Comuni a præstiti juramenti religione, è riportato da Raynaldo, all'auno 1272, toino pag. 294.

(4) Muratori, dissert. XLVII.

S'ingannerebbe, per altro, e molto s'ingannerebbe colui che credesse riconosciuta pacificamente la sovranità dei papi dai Comuni stessi che ne inalberavano il vessillo, talchè, combattendo per la libertà contro ai Tedeschi, consentissero poi di esser sudditi del papa e della Chiesa. Bisogna conoscer ben poco la storia nostra per restare illusi sul valor critico di quei nomi infausti che costarono tanto sangue e tante sventure alle contrade saliane! Può dirsi che l'imperatore ed il papa non sieno stati mai così poveri di sudditi e così deboli di sovranità, quanto allora, che a nome del papa e dell'imperatore battagliavano insieme le forze intellettive e materiali di tutta Italia.

La sovranità dei papi incontrava doppia resistenza nell'ordine delle idee e nell'ordine degli affetti. Le résistevano le idee di Arnaldo, il quale predicava contro le pretese temporali del clero, e le ragioni dell'Impero sosteneva a beneficio dei popolani (1); idee che ebber numerosi settari anche nelle età successive (2), ed accrebbero nuova forza alle teorie astratte dei Ghibellini (3). Le resistevano poi gli affetti di libertà e d'indipendenza, i quali essendo comuni alle città tutte d'Italia, guelfe o ghibelline esse fossero, non consentivano nè agl'imperatori, nė ai papi, se non un fantasma di autorità, che ad ogni momento poteva essere annichilato e distrutto. Ciò che dicesi generalmente delle città guelfe, può dirsi anche per le stesse città sulle quali i papi pretendevano titoli più diretti e speciali di sovranità e di signoria. Queste non erano nè tutte guelfe, nè erano talmente guelfe, che non avesser qualche mistura di ghibellinismo, nè sempre si mantenevano invariabilmente guelfe. Tutte erano egualmente divise dalle fazioni: passar dà una fazione all'altra non era reputato viltà per gl'individui: passare dall'uno all'altro partito, non era per le città un macchiarsi di fellonia. Quindi molte città guelfe, col trasmutarsi delle fazioni, convertivansi in ghibelline: spessissimo, o guelfe o ghibelline che fossero, manomettevano egualmente i diritti dell'Impero e quelli della Chiesa. Bologna, per esempio, che fu più guelfa d'ogni altra, e figurò con Faenza nella Lega Lombarda, oscillò essa pure gran tempo fra gli opposti partiti, violò più volte le stesse immunità della Chiesa (4), più volte fu colpita di scomuniche e d'inter

(1) Gunterus Ligurinus, De gestis Federici. Ottone Frising., riportato per intero da Natale Alessandro, Hist. Eccles., scc. XI, XII.

(2) Ciò risulta dai canoni dei diversi Concili successivi.

(3) Le teorie esposte da Dante nel libro De Monarchia, sono in gran parte le teorie di Arnaldo.

(4) Verso il 1252, avendo occupate i Bolognesi le capitanie di Medicina e di Argelate, furono scomunicati, ma non le vollero resti

detto, e solo nella seconda metà del secolo XIII dette alle altre città l'esempio di sottomettersi al papa (1).

Più singolare ancora è in questi tempi la storia interna di Roma. Quando rinacque negli Italiani l'affetto per la libertà, associandosi esso in Roma alle tradizioni della potenza antica e dell'antica sovranità del popolo romano, impresse al movimento comune una direzione diremmo quasi fantastica, ed un colorito tutto suo proprio. L'idea di Roma primeggiava sempre nelle fazioni, primeggiava nelle riforme, primeggiava negli atti popolari. Alla voce di Arnaldo risorsero più veemenți le tradizioni antiche, ed i Romani, che non aveano mai inteso di esser sudditi del papa, si valsero degli ordini municipali, conservati, e degli antichi nomi dei magistrati repubblicani, rimasti nel linguaggio comune, per ristabilire le forme della repubblica romana e vindicarne i diritti (2). Allora in luogo del prefetto ricomparve il patrizio, siccome capo della cittadinanza; allora un senato romano di cinquantasei membri, eletto per decisioni popolari, chiamò nuovamente il popolo in Campidoglio a prender parte alle deliberazioni comuni; allora tornò a rivivere nei pubblici atti il famoso tetragramma, non più spavento del mondo, ma grave cagione di molestia e di affanno pei papi (3); allora i Romani, che per la famosa constituzione di Niccolò II erano stati esclusi dall'elezione, concentrata nel collegio dei cardinali, non vedendo più nel papa un magistrato popolare (4), ricusarono

tuire. Il papa fu costretto ad accomodarsi, dandone ad essi stessi la investitura per un censo annuo...

(1) Ciò avvenne dopo l'anno 1270. Nel 1278, papa Niccolò III mandò in Romagna il fratello conte Bertoldo, ma sottomettendolo ́all'autorità del cardinal Latino.

(2) Secondo il Guadagnini, Arnaldo nacque circa l'anno 1105. Figurò in Roma sotto i pontiñcati di Lucio II, Eugenio III ed Anastasio IV.

(3) Leo, lib. iv, cap. 5, § 6. - Hurter, Storia d'Innocenzo III, lib. 2, dove narra che il popolo, diviso in tredici rioni, eleggeva in ciascuno due elettori, ai quali era affidata la nomina di cinquantasei senatori. Una giunta di undici membri formava il Consiglio ese

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(4) Pagi, ad Baronium, anno 1039, iv, riporta una parte di questa constituzione. « Cardinales episcopi diligentissime simul conside>> ratione tractantes, mox sibi clericos cardinales adhibeant, sicque >> reliquus clerus et populus ad consensum novæ electionis accedant »; e dopo prosegue: «< Eligant autem de ipsius ecclesiæ gremio, si re» pertus fuerit idoneus, et si de ipsa non invenitur, ex alia assumatur, » salvo debito honore et reverentia dilecti filii nostri Henrici, qui in » præsentiarum rex habetur, et futurus imperator, Deo concedente, » speratur, sicut jam sibi concessimus, et successorum illius, qui ab hac apostolica sede personaliter jus impetraverint ».

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al medesimo ogni intervento nelle cose della città (1), e-scrissero a Corrado imperatore che venisse a Roma a ricever la corona imperiale per autorità del senato; in Roma, dove meglio dei suoi predecessori avrebbe potuto imperare al regno teutonico ed all'Italia, senza temere le resistenze del clero (2).

Quindi durante il periodo delle fazioni, Roma fu più spesso ghibellina che guelfa; ghibellini furono per la più parte i suoi magistrati; i Guelfi vi furono di frequente maltrattati, gli imperatori vi ebber sempre favore e partigiani (3), e la venerazione dovuta al pontefice fu spesso nei popolari tumulti dimenticata. Lucio II credesi morisse in conseguenza di una sassata ricevuta nelle agitazioni della plebe (4); Clemente III, se volle partecipare ai diritti sovrani, dovette comporsi e patteggiare colla repubblica romana (5); Innocenzo III dovè rifugiarsi ad Anagni, se volle evitar l'odio popolare per la pace di Viterbo (6); a Gregorio IX furono negate le regalie (7); in Orvieto fu consacrato Martino IV, non essendogli stato concesso di entrare in Roma. Questi pochi fatti, raccolti tra i moltissimi che rammentan le istorie, bastano a comprovare che, se la sovra nità dei papi era contrastata in diritto dagl'imperatori, non era meglio accolta e favorita dalla opinione popolare..

S II.

Sovranità dei papi considerata nel suo esercizio.

Riconoscere in diritto la sovranità eminente dello imperatore o del papa, non era, d'altronde, per le città ghibelline o guelfe

(1) Il Guadagnini, nell'Apologia di Arnaldo, narra che il popolo romano prestò obbedienza ad Eugenio III come papa, ma intimandogli al tempo stesso di non mescolarsi del governo temporale.

(2) La lettera del senato e popolo romano a Corrado ci è stata conservata da Ottone di Frisinga, lib. 11, cap. 21: essa spiega l'intero sistema degli Arnaldisti; termina colle seguenti parole: « Et ut bre>>viter et succincte loquamur, potentes in urbe quæ caput mundi est, » ut optamus, habitare, toti Italiæ, ac regno teutonico, omni clerico>> rum remoto obstaculo, liberius et melius quam fere omnes ante»cessores vestri, dominari valebitis ».

(3) Leo, lib. iv, cap. 8, § 2, narra che Federigo fece dono ai Romani del Carroccio preso ai Milanesi nella battaglia di Bertinoro. (4) Niccolini, alla nota della pag. 66 del suo Arnaldo, riporta i documenti del fatto.

(5) Leo, lib. iv, cap. 7, § 1.

(6) Muratori, Rer. Italic., tomo 1, parte 1, p. 563. (7) Savioli, Annali Bolognesi, p. 137, diplom. 598.

una completa abdicazione della sovranità propria, nè una rinunzia di libertà. «Non ancora a quei tempi era ammessa la mas» sima, non potersi possedere diritti se non colà dove tutti fos»sero distrutti, e veruna sovranità non poter sussistere senza >> assorbire tutte le altre sovranità (1) ».

E malé si rappresenterebbe la città italiana dei secoli XII e XIII chi giudicarla volesse colle idee amministrative del secolo XIX, o se la figurasşe al pensiero come una società d'individui collegati tra loro per il solo rapporto di una legge comune. Essa era, al contrario, un'agglomerazione di private società di famiglie e di volontarie associazioni, con diritti propri, tutte in perpetua lotta colle due idee dominanti nel popolo, quella, cioè, di ridurre i nobili ad abitare in città, e l'altra di constituire il voler del comune superiore a tutte le altre volontà private, talchè una legge comune dominasse e fosse da tutti obbeditą.

Tale stato di cose, se poteva spesso esser cagione di offesa o di violenza alle regole della giustizia, era altresì grandissimo eccitamento allo sviluppo delle forze individuali, e ciò appunto operava l'effetto che la sovranità dell'imperatore e del papa, anche quando eran meno soggette a contestazione, si risolvessero in un diritto astratto cui non potrebbero convenire le attribuzioni che noi moderni siamo soliti di associarvi.

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Debole era, d'altronde, in quei tempi il potere di fatto: non eserciti permanenti erano in pronto per presidiare le fortezze, per reprimere i moti popolari, per eseguire i capricci del dispotismo; non fisse, nè certe le rendite finanziere; non arbitrarie le imposte; non facili i mezzi di corrompere e di sedurre, perchè i principi potessero tutto osare o sapessero i popoli tutto soffrire. Definiti eran per patto i diritti e i doveri di tutti: definiti i rapporti del sovrano coi feudatari, e dei feudatari coi vassalli: definiti i rapporti del poter sovrano coi Comuni e colle consorterie: volontario più che in altri tempi l' ossequio, libero l'esercizio dell'attività umana per promuovere gli interessi e per difendere i diritti comuni. Sovranità e governo erano due cose separate e distinte. Consisteva la prima nel diritto di esigere certe prestazioni di uomini e di danaro, nel diritto di confermare gli statuti o di comporre i litigi che fossero volontariamente sottoposti alla decisione del principe, come a superiore arbitraggio. Il governo vero e proprio, la direzione, cioè, economica e politica degli affari pubblici, congiunta col diritto di guerra e pace, era presso il Comune, e ciò bastava, perchè libera potesse dirsi la città e repubblicano il di lei ordinamento. Il governo libero di loro stesse, spettante alle città, constituiva una specie di sovranità mediata, quasi identica a quella dei grandi

(1) Hurter, Storia citata, lib. iv, in principio.

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