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In terzo luogo, il proposito mío è stato che questa Crestomazia, non solo giovasse, ma dilettasse; e che dilettasse e giovasse, non solo ai giovani, ma anche agli uomini fatti; e non solo agli studiosi dell'arte dello scrivere o della lingua, ma ad ogni sorte di lettori. Il quale intento non si poteva ottenere se non con una condizione: che nei passi, che si scegliessero, la bellezza del dire non fosse scompagnata dalla importanza dei pensieri e delle cose. E questa condizione non fu difficile a quei Francesi che presero a far libri di questo genere; non fu difficile agl' Inglesi e agli altri la cui letteratura, nata o fiorita di fresco, abbonda di materie che ancora importano. Ma la letteratura italiana, nata e fiorita già è grau tempo, consiste principalmente in libri tali, che quanto allo stile, alla maniera e alla lingua, sono tenuti ed usati dai moderni per esemplari; quanto alle materie, sono divenuti di poco o di nessun conto. Quello che, in dispetto di questa grandissima difficoltà, mi sia venuto fatto per conseguimento del proposito mio, si giudichi da quelli che leggeranno. E, per conchiudere, io ho voluto che questo libro dovesse potere esser letto da chicchessia con profitto e piacere, dall' un capo all' altro, e che il medesimo fosse di. tal qualità, che eziandio trasportato in un' altra lingua, non avesse a perdere ogni suo pregio, e dovesse poter essere un libro buono. Le quali cose è manifesto non aver luogo in alcuna delle Antologie italiane divulgate finora.

Mi restano da aggiungere tre brevi avvertenze. La prima, che io medesimo ho letto tutta intera, o per lo meno scorso accuratamente, ciascuna delle opere che sono citate in questa Crestomazia. L'altra, che dagli scritti di Daniele Bartoli, dai quali si sarebbe potuto trarre un gran nunero di passi bellissimi, in tanto io non ho tolto che un luogo solo, in quanto, vedendosi moltiplicare ogni giorno le raccolte di descrizioni e di narrazioni di quell'autore, ed ogni sorte di spogli delle sue opere, io non ho voluto fare il già fatto. La terza, che, se questa Crestomazia de' prosatori sarà bene accettata dal pubblico, forse si farà cogli stessi ordini, e nella stessa forma, una Crestomazia de' poeti, da essere contenuta in un volume della stessa mole.

1. Origine de' Guelfi e de' Ghibellini.

Dopo molti antichì mali ricevuti per le discordie de' suoi cittadini, una ne fu generata nella detta città, la quale divise tutti i suoi cittadini in tal modo, che le due parti nimiche s' appellarono per due nuovi nomi, cioè Guelfi e Ghibellini. E di ciò fu cagione in Firenze, che un nobile giovane cittadino, chiamato Buondelmonte de' Buondelmonti, avea promesso tôrre per sua donna una figliuola di messer Oderigo Giantrufetti. Passando di poi un giorno da casa i Donati, una gentil donna, chiamata madonna Aldruda, donna di messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando a' balconi del suo palagio, lo vide passare, e chiamollo, e mostrógli una delle dette figliuole, e dissegli: Chi hai tu tolta per moglie? io ti serbava questa. La quale guardando', molto gli piacque, e rispose: Non posso altro oramai. A cui madonna Aldruda disse: Sr, puoi: che la pena pagherò io per te. A cui Buondelmonte rispose: E io la voglio; e tolsela per moglie, lasciando quella che avea tolto e giurata. Onde messer Oderigo dolendosene co' parenti e amici suoi, deliberarono di vendicarsi, e di batterlo e fargli vergogna. Il che sentendo gli Uberti, nobilissima famiglia e potente, e i suoi parenti, dissero che voleano fosse morto: chè così fia grande l'odio della morte come delle ferite. Cosa falta capo ha. E ordinarono ucciderlo il dì che menasse la donna: e così fecero. Onde di tal morte i cittadini se ne divisero; e trassersi insieme i parentadi e le amistà d' ambedue le parti per modo che la detta divisione mai non finì. Onde nacquero molti scandali e omicidii e battaglie cittadinesche. DINO COMPAGNI, Cronaca.

2. Del Veglio della Montagna; e come fece il Paradiso e gli

Assassini.

Milice è una contrada dove il Veglio della Montagna soleva dimorare anticamente. Or vi conteremo l'affare, secondo che messer Marco intese da più uomini. Lo Veglio è chiamato in lor lingua Aloodin. Egli avea fatto fare fra due montagne in una valle lo più bello giardino e 'l più grande del mondo. Quivi avea tutti frutti 3, e li più belli palagi del mondo, tutti dipinti ad oro e a bestie e a uccelli: quivi era condotti; per tale veniva acqua,e per tale mele, e per tale vino. Quivi era donzelli e donzelle gli più belli del mondo e che meglio sapevano cantare e sonare e ballare: e face1 Cioè quegli. 2 Erano. 3 Cioè tutti i frutti.

va lo Veglio credere a costoro che quello era lo paradiso. E gli Saracini
di quella contrada credevano veramente che quello fosse lo paradiso; e
in questo giardino non entrava se non colui, cui egli voleva fare assassino.
All'entrata del giardino avea un castello sì forte, che non temeva niuno
uomo del mondo. Lo Veglio teneva in sua corte tutti giovani di dodici an-
ni, li quali gli paressono da diventare prodi uomini. Quando lo Veglio ne
faceva mettere nel giardino, a quattro, a dieci, a venti, egli faceva loro
dare bere oppio; e quegli dormivano bene tre dì; e facevagli portare nel
giardino, e al tempo gli faceva ispogliare. Quando gli giovani si svegliava-
no, e egli si trovavano là entro,e vedevano tutte queste cose, veramente si
credevano essere in paradiso. E queste donzelle sempre istavano con loro
in canti e in grandi sollazzi: donde egli aveano sì quello che volevano,
che mai per loro volere non si sarebbono partiti di quello giardino. Il Ve-
glio tiene bella corte e ricca, e fa credere a quegli di quella montagna
che così sia, com' io v'ho detto; e quando egli ne vuole mandare niuno
di quelli giovani in niuno luogo, fa loro dare beveraggio che dormano,
e fagli recare fuori del giardino in sul suo palagio. Quando coloro si sve-
gliano, trovansi quivi, molto si maravigliano, e sono molto tristi che si tro-
vano fuori del paradiso. Egli se ne vanno incontanente dinanzi al Veglio,
credendo che sia un gran profeta, e inginocchiansi. Egli li domanda: On-
de venite? Rispondono: Dal paradiso. E contangli quello che v' hanno ve-
duto entro; e hanno gran voglia di tornarvi. E quando il Veglio vuole fare
uccidere alcuna persona, egli fa tôrre quello lo quale sia più vigoroso, e
fagli uccidere quello cui egli vuole; e coloro lo fanno volentieri per ritor-
nare nel paradiso. Se scampano, ritornano al loro signore; se è preso,
vuole morire, credendo ritornare al paradiso. E quando lo Veglio vuole
fare uccidere niuno uomo, egli lo prende e dice: Va', fa' tal cosa; e que-
sto ti fo, perchè ti voglio fare ritornare al paradiso. E gli assassini vanno
e fannolo molto volentieri. E in questa maniera non campa niuno uomo
dinanzi al Veglio della Montagna, a cui egli lo vuole fare; e sì vi dico,
che più re gli fanno tributo per quella paura. Egli è vero che negli anni
1277 Alau, signore dei Tartari del Levante, che sapeva tutte queste mal-
vagità, pensò tra sè medesimo di volerlo distruggere ; e mandò de' suoi
baroni a questo giardino, e isteltonyi tre anni attorno al castello prima
che l'avessono; nè mai non lo avrebbono avuto, se non per fame. Allora
per fame fu preso, e fu morto lo Veglio e sua gente tutta; e d'allora in
qua non vi fu più Veglio niuno..
MARCO POLO.

3 Di Eulogio, che prese a servire un lebbroso molto orribile;
e d'una visione di sant' Antonio.

Un buon uoino d'Alessandria, lo quale avea nome Eulogio, ed era molto savio di Scrittura 3, acceso di desiderio della vita immortale, dispregiò questa vita mortale e misera, e ritenne alcuna pecunia per avere onde vivere; perocchè non sapeva lavorare, nè fare altro, onde vivesse. E dopo alcun tempo, considerando egli ch'e' non era sì perfetto, che fosse per lui istare solitario; nè anche era acconcio a stare a obbedienza, sì per la lunga usanza di stare in sua libertà, e sì perchè era già antico, e 1 Dare a bere. 2 Eglino. 3 Dotto nelle cose della Scrittura.

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non sapeva nè credeva potere imparare alcun'arte; incominciò molto ad immalinconire, e non sapeva egli stesso quel che si fare. E stando così, avvenne che, passando un giorno per Alessandria, trovò nella piazza giacere un lebbroso sì pieno di lebbra elefantina, che avea già quasi perdute le mani e i piedi, e non gli era rimaso sano altro che la lingua, acciocchè potesse dimandare ajuto da chi passava. Lo quale Eulogio considerando, e avendogli compassione, imaginossi di menarlosi a casa, e d'averne cura; acciocchè, poichè nè solitario nè in congregazione gli diceva il cuore di patire, almeno per questo modo servisse a Dio. E incontanente fece quasi un patto con Dio, e orò, e disse: Signor mio Iddio, per lo tuo nome voglio ricevere questo così grave e orribile infermo, e servirgli insino al dì della sua morte, acciocchè per lui io trovi misericordia appo te. Piacciati, dunque, Messere, di darmi forza e pazienza in questo servigio. E fatta quest' orazione, sì s' accostò a quel lebbroso, e dissegli: Vuogli', fratel mio, che io te ne meni a casa mia? e servirotti com'io potrò. La qual cosa egli ricevendo per grande grazia, andò Eulogio per un asino, e puoselvi 2 suso, e menollosi a casa; e con gran sollecitudine lo serviva, procurandogli medici e medicine e bagni e cibi utili, e servendogli con le sue mani: e quegli con gran pazienza si confortava, e Dio e Eulogio ringraziava. Ma dopo quindici anni lo predetto infermo, per operazione di demonio, incominciò a diventare molto impaziente; e, quasi non si ricordasse di tanti servigi e beneficii li quali aveva ricevuti da Eulogio, incominciossi a lamentare di lui, e dire che si voleva partire, e dirgli molta villania. Ed Eulogio ad ogni cosa gli rispondeva dolcemente, e dicevagli: Non dire così, fratel mio, ma dimmi in che io ti ho contristato o fatto difetto, e ammenderommi, e farò meglio. Al quale lo lebbroso rispondeva: Va' via, non voglio queste tue lusinghe; riponmi quivi, dove tu mi trovasti; non voglio più tuo servigio. Al quale Eulogio pur rispondendo mansuetamente e lusingandolo, si profferiva a fargli ciò che addimandasse, purchè egli non si partisse. E quei gli rispose: Non posso più patire queste tue lusinghe, e questa vita aspra e arida; io voglio della carne. E diègliene. E, avuta che ebbe la carne, anche incominciò a gridare in furia, e dirgli: Per tutto questo non mi puoi satisfare; non mi contento di stare qui solo con teco, ma voglio star fra la gente. E rispondendo Eulogio, che gli menerebbe molti frati che 'l visiterebbero spesso, incominciò quegli più a turbarsi, e a dire : Oimè misero, io non posso patire di vedere la tua faccia, e tu mi vuogli menare alquanti altri simili a te. E percotendosi come poteva, gridava: Non voglio! non voglio! io voglio pur uscir fuori, e andare fra la gente! E diceva: Oimè! che violenza è questa che tu mi fai? or vuômi3 tenere per forza? Va', ponmi ove tu mi trovasti. E, brevemente, sì l'occupò lo nemico, e in tanta impazienza venne, che si sarebbe impiccato egli stesso, se avesse potuto. La qual cosa vedendo Eulogio, e non sapendo che si fare, andò per consiglio a certi santi frati suoi dimestichi e compagni. E, consigliandolo quegli, che, poichè santo Antonio era vivo (lo quale aveva lume e spirito di Dio), gliel dovesse menare e dirgli per ordine tutto il fatto; Eulogio ricevette il consiglio. E mise questo lebbroso in una barchetta, e andossene con lui al diserto; e, giunto al luogo dove stavano li discepoli di santo I Vuoi. 2 Ve lo pose. 3 Vuoimi. Mi vuoi.

Antonio, aspettava che Antonio venisse, secondochè era suo usato di venire alcun dì della settimana. E venendo Antonio a i suoi discepoli, e trovandovi molti Corestieri, fece consolazione con loro, e chiamò ciascuno per sè, e a ciascuno rispondeva secondo il suo dimando. E ayvegnachè da nullo avesse udito chi fosse Eulogio, e non vedendolo, perchè era di notte, conoscendo per ispirito la sua venuta, chiamollo tre volte per nome. Al quale Eulogio non rispondendo (imaginandosi che alcuno di quelli suoi discepoli avesse così nome e che lui non chiamasse), Antonio disse: Te chiamo, Eulogio, lo quale se' venuto d'Alessandria. Al quale Eulogio andando, santo Antonio lo dimandò, perchè era venuto. Ed Eulogio rispose: Quegli che ti ha rivelato il nome mio, credo che ti abbia rivelata la cagione della mia venuta. E Antonio disse: Ben so perchè se' venuto; ma tuttavia voglio che 'l dichi qui innanzi a questi frati. Allora Eulogio disse innanzi a tutti per ordine tutto lo fatto, come s' avea menato a casa quel lebbroso e servitogli, e come egli ora per operazione del nimico era venuto in tanta impazienza, che tutto dì gli diceva villania, e volevasi pur partire: onde egli, non sapendo che si fare, aveasi proposto di gittarlo via com' egli voleva; ma, dall'altro lato, temendo di farlo, era venuto per consiglio a lui, e pregavalo che gli piacesse di consigliarlo. Al quale Antonio, mostrandosi molto turbato, rispose: Di' che hai pensato di gittarlo via? Sappi, che colui che 'l fece, non l'abbandonerà; e, se tu il getti, Iddio lo farà ricevere ad uno che fia migliore di te. Dalle quali parole Eulogio impaurito taceva, e non sapeva più che si dire. E allora Antonio si rivolse contr' a quello infermo, e mostrandosi molto turbato con gran voce gridando gli disse: Lebbroso vilissimo e orribile, che non se' degno nè del cielo nè della terra, come non fai se non lamentarti in ingiuria di Dio? Or non sai tu che questi che ti serve, è in luogo di Cristo? Come se' stato ardito contra Cristo tanto mormorare, e dire tanta villania a costui, lo quale per Cristo è diventato tuo servo? E poi volgendosi agli altri frati che vi erano venuti, a ciascuno rispose secondochè avea bisogno, e a quello per che venuti erano; e poi anche volgendosi ad Eulogio e a quell' infermo, ammonígli, che non si partissero l'uno dall'altro, e tornassero a casa, e con gran pazienza e umiltade si portassero insieme ; dicendo loro come erano presso alla morte, e però Iddio aveva permesso che venisse loro quella tentazione per provarli, e dare loro la corona. Onde disse: Fate dunque come io v'ho detto, e perseverate in pace, acciocchè non perdiate la corona che v'è apparecchiata. E tornati che furono a casa in pace, Eulogio lo quadragesimo dì passò di questa vita in santa pace, e da ivi a tre giorni morì lo predetto infermo con gran pazienza. CAVALCA, Vite de' SS. Padri.

4. Chi fu il poeta Dante Alighieri.

Nell' anno 1321, del mese di luglio, morì Dante nella città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d'ambasceria di Vinegia in servigio de' signori da Polenta, con cui dimorava; e in Ravenna dinanzi alla poria della chiesa maggiore fu sepellito a grande onore in abito di poeta e di gran filosofo. Morì in esiglio del comune di Firenze, in età circa cinquantasei anni. Questo Dante fu onorevole e antico citttadino di Firenze, di

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