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1. Francesco Petrarca al cardinal Giovanni Colonna.

(Volgarizzamento dal latino)

Orazio, volendo descrivere una gran tempestade, disse ch'era tempesta poetica: e mi pare che non potea più brevemente esprimere la grandezza d'essa. Perchè nè il cielo irato, nè il mare tempestoso, può fare cosa. che non l' agguagli e vinca lo stile de' poeti, descrivendola. E già voi vedete s'è vero nella tempesta di Cafarea descritta da Omero. Ma non si può pingere con pennello, nè scrivere con parole, quella ch'io vidi ieri; la qual vince ogni stile. Cosa unica ed inaudita in tutte l'età del mondo. Ch' Omero con la tempesta di Grecia, Virgilio con quella di Sicilia,e Lucano si stia con quella d'Epiro: chè, s'io avrò mai tempo, ques:a di Napoli sarà materia de' versi miei. Benchè non si può dire, di Napoli ; ma universale per tutto il mare Tirreno e per l'Adriatico. A me pare chiamarla napolitana, poichè, contra mia voglia, mi ha ritrovato in Napoli. Però, s' io per l'angustia del tempo, volendo partirsi il messo, non posso scriverla a pieno; persuadetevi questo, che la più orribil cosa non fu vista mai.

e

Questo flagello di Dio era stato predetto molti giorni avanti, dal Vescovo d' un'isoletta qui vicina, per ragione d'astrologia: ma come suol essere, che mai gli astrologi non penetrano in tutto il vero, avea predetto solo un terremoto grandissimo a' venticinque di novembre: per il quale avea da cadere tutta Napoli. Ed avea acquistata tanta fede, che la maggior parte del popolo, lasciato ogni altro pensiero, attendea solo a cercare a Dio misericordia de' peccati commessi; come certo d' avere da morire di prossimo. Dall' altra parte, molti si ridevano di questo vaticinio; dicendo la poca fede che si deve avere agli astrologi; e massime essendo stati alcuni dì avanti, certi terremoti. Io, mezzo tra paura, speranza, ma un poco più vicino alla paura, la sera del ventiquattro del mese mi ridussi, avanti che si colcasse il sole, nell' alloggiamento; avendo veduto quasi la più parte delle donne della città, ricordevoli più del pericolo che della vergogna, a piedi nudi, coi capelli sparsi, coi bambini in braccia, andare visitando le chiese, e piangendo chiedere a Dio misericordia. Venne poi la sera; e 'l cielo era più sereno del solito: e i servidori miei, dopo cena, andaro presto a dormire. A me parve bene d'aspettare, per vedere come si ponea la luna: la quale credo che fosse settima. Ed aperta la finestra che guarda verso occidente, la vidi, avanti mezza notte, ascondersi dietro il monte di San Martino con la faccia piea di tenebre e di nubi e serrata la finestra, mi posi sopra il letto.

E, dopo d' aver un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un rumore, ed un terremoto, il quale non solo aperse le finestre e spense il lume ch' io soglio tenere la notte, ma commosse dai fondamenti la camera dove io stava. Essendo dunqne, in cambio del sonno,assalito dal timore della morte vicina, uscii nel chiostro del monasterio ov' io abito: e mentre tra le tenebre, l' uno cercava l' altro, e non si potea vedere, se non per beneficio di qualche lampo; cominciammo a confortare l'un l'altro. I frati e 'l priore, persona santissima, ch'erano andati alla chiesa per cantare mattutino; sbigottiti da sì atroce tempesta, con le croci, e reliquie di Santi, e con devote orazioni, piangendo, vennero ove io era, con molte torce allumate. Io, pigliato un poco di spirito, andai con loro alla chiesa: e gittati tutti in terra, non facevamo altro che, con altissime voci, invocare la misericordia di Dio, ed aspettare ad ora ad ora, che ce ne cadesse la chiesa sopra.

Sarebbe troppo lunga istoria s'io volessi contare l'orrore di quella notte infernale; e benchè la verità sia molto maggiore di quello che si potesse dire, io dubito che le parole mie pareranno vane. Che gruppi d'acqua! che venti! che tuoni! che orribile bombire del cielo ! che orrendo terremoto! che strepito spaventevole di mare! e che voci di tutto un sì gran popolo! Parea, che per arte maga, fosse raddoppiato lo spazio della notte. Ma al fine pur venne l' aurora: la quale, per l'oscurità del cielo, si conoscea, più che per indizio di luce alcuna, per congettura. Allora i sacerdoti si vestiro a celebrare la messa: e noi, che non avevamo ardire ancora d' alzare la faccia in cielo, buttati in terra, perseveravamo nel pianto e nell' orazioni.

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Ma, poichè venne il dì (benchè fosse tanto oscuro che parea simile alla notte), cominciò a cessar il fremito delle genti dalle parti più alte della città, e crescere un rumore maggiore verso la marina. E già si sentivano cavalli per la strada: nè si potea sapere che cosa si fosse. Al fine, voltando la disperazione in audacia, montai a cavallo ancor io, per vedere quel ch'era, o morire. Dio grande ! quando fu mai udito tal cosa? i marinari decrepiti dicono che mai fu nè udita nè vista. In mezzo del porto si vedeano sparsi per lo mare infiniti poveri, che mentre si sforzavano d'arrivar in terra, la violenzia del mare gli avea con tanta furia battuti nel porto, che pareano tante ova' che tutte si rompessero. Era pieno tutto quello spazio, di persone affogate, o che stavano per affogarsi : chi con la testa, chi con le braccia rotte; ed altri che loro uscivano le viscere. Nè il grido degli uomini e delle donne che abitano nelle case vicino al mare, era meno spaventoso del fremito del mare. Si vedea, dov' il dì avante s' era andato passeggiando su la polvere, diventato mare più pericoloso del Faro di Messina.

Mille cavalieri napolitani, anzi più di mille, erano venuti a cavallo là; come per trovarsi all'essequie della patria. Ed io, messo in frotta con essi, cominciai a stare di meglio animo; avendo da morire in compagnia loro. Ma subito si levò un rumore grandissimo, che 'l terreno che ne stava sotto i piedi, cominciava ad inabissarsi, essendogli penetrato sotto il mare. Noi, fuggendo, ne ritirammo più all'alto. E certo era cosa oltre

' Uova.

modo orrenda ad occhio mortale, vedere il cielo in quel modo irato, e 'l mare così fieramente implacabile. Mille monti d'onde, non nere nè azzurre, come sogliono essere nell' altre tempestadi, ma bianchissime, si vedeano venire dall' isola di Capri a Napoli. La regina giovane, scalza, con infinito numero di donne appresso, andava visitando le chiese dedicate alla Vergine madre di Dio.

Nel porto non fu nave che potesse resistere: e tre galee, ch'erano venute di Cipri, ed aveano passati tanti mari, e voleano partire la mattina, si videro, con grandissima pietà, annegare, senza che si salvasse pur un uomo. Similmente l'altre navi grandi ch'aveano buttate l'ancore al porto, percotendosi fra loro, si fracassaro, con morte di tutt'i marinari. Sol una di tutte, dov' erano quattrocento malfattori, per sentenzia condannati alle galee che si lavoravano per la guerra di Sicilia, si salvò; avendo sopportato fin al tardo l'impeto del mare, per lo grande sforzo de' ladroni che v'erano dentro. I quali prolungaro tanto la morte, ch' avvicinandosi la notte (contra la speranza loro, e l'opinione di tutti) venne a serenarsi il cielo, ed a placarsi l'ira del mare, a tempo che già erano stanchi. E così, d'un tanto numero, si salvarono i più cattivi: o che sia vero quel che dice Lucano, che la fortuna aita li ribaldi; o che così piacque a Dio; o che quelli siano più securi nei pericoli, che tengano più la vita a vile.

Questa è l'istoria della giornata d'ieri. Voglio ben pregarvi che non mi comandiate mai più a commettere la vita mia al mare ed ai venti perchè nè a voi, nè al papa, nè a mio padre se fosse vivo, potrò essere in questo ubbidiente. Lasciamo l'aria agli uccelli, il mare ai pesci; ch' io, come animale terrestre, voglio andare per terra e mandatemi pur in Mauritania, in Sarmazia ed in India. Altramente, io mi protesto, che mi servirò della mia libertà. E se mai potrete dire: io ti farò avere una buona nave, guidata da esperti marinari; e potrai ridurti avanti notte al porto; o potrai andare terra terra; io dirò che non ho letto, nè udito da altri, ma ho veduto, dentro al porto, perire navi gagliardissime, con famosi marinari. E per questo la modestia vostra deve perdonare al timor mio: e sarà meglio se mi lasciarà ' morire in terra, poi che son nato in terra. Ch'io, che nel mar Mediterraneo ho corso più volte fortuna, voglio che mi si possa dire quel proverbio: ch'a torto si lamenta del mare chi, essendo stato una volta per annegarsi, si pone la seconda volta a navigare. State sano.

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DI COSTANZO, Istoria del Regno di Napoli, libro VI.

II. Giovanni Boccaccio a Cino da Pistojn, dottor di leggi e scrittore di versi; il quale lo aveva esortato a lasciare lo studio delle lettere amene e seguir quello delle leggi.

Avrei con animo più quieto ascoltato assai meglio, o precettore e padre mio amalissimo, la gravità dell'amorevole ed in un medesimo tempo severo consiglio che vi è piaciuto darmi, se io m' avessi dato a credere che il suono della parole vostre si fosse conformato col maturo discorso del cuore. Il quale troppo ben so io, e voi ne fate fede altrui, ch' egli 'Lascerà.

non forma gli accenti della bocca vostra coll'intrinseco de' pensieri. Anzi se vi fosse lecito e per l'età e per la professione, non dubito che tale si mostrerebbe in palese, quale voi stesso, con grandissimo vostro contento, lo spiegate nei dolci parti di poesia. Potrete voi dunque consigliarmi ad amar cosa che avete in odio? e d'altra parte vi darà in animo di persuadermi a lasciare quei piacevoli studii che voi hanno fatto chiarissimo al mondo, ed a me promettono altra vita, e più lunga e più onorata che questa non è ? lo non credo che siate per farlo lungamente e, se pure lo stimolo di coloro che mostrano amar più l'util proprio che l'onor mio, vi spingesse a far ciò; io porto fermissima opinione che, non pure non vi dorrete meco del non avervi ubbidito, ma ritiratovi in voi stesso, qualora vi sovverrà del mio proponimento, tanto mi giudicherete degno di commendazione.

Io, siccome piacque a colei che dispensa le cose di quaggiù secondo il suo volere, nacqui di padre povero, e tanto di me tenero, che, vedutomi porre da parte la viltà della mercatura, quando con persuasioni e quando con esempii s' ha sforzato guidarmi ond' io tuttavia cerco di fuggire, cioè allo studio delle leggi; strada spinosa, monte aspro, e poggio difficite. Ma (poichè è pur piaciuto a chi governa il tutto) tolto lui da' pericoli di questo mondo e, siccome mi giova di credere, collocato a parle del suo regno, ritrovandomi io padrone di me stesso, ed in età di venticinque anni, voglio ritrarmi a quelle lettere, dalle quali più gloria e contento, che ricchezze e noja, spero di ritrarre. Piacciavi dunque lasciarmi in ciò quieto vivere: e poichè la benignità del Cielo dell'una e l'altra scienza vi ha arricchito, non vogliate che io, disperando di asseguirne l'una, fugga, quando che sia, di guadagnarmi l' altra. La qual cosa siccome vi sarebbe d' infinito affanno cagione, così credo che vedendomi riposato e contento, non consumare oziosamente il tempo, vi rallegrerete della deliberazion mia. Colui che d'ogni felicità è datore larghissimo, voi prosperi, e lungo tempo felicissimo conservi. Di Pisa, alli 19 di aprile, 1338. VOLGARIZZAMENTO antico dal latino.

III. Lorenzo de' Medici, detto il Magnifico, al figliuolo Giovanni de' Medici, cardinale, che di poi fu papa Leone decimo.

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Messer Giovanni, voi siete molto obbligato a Dio, nostro signore, tutti noi per rispetto vostro: perchè, oltre a molti benefizii ed onori che ha ricevuti la casa nostra da lui, ha fatto che nella persona vostra veggiamo la maggior dignità che fosse mai in casa. Ed ancorchè la cosa sia per sè grande, le circostanze la fanno assai maggiore; massimamente per l'età vostra, e condizione nostra. E però il primo mio ricordo è, che vi sforziate essere grato a Dio; ricordandovi ad ognora che non i meriti vostri, prudenza o sollecitudine, ma mirabilmente sua divina maestà vi ha fatto cardinale; e da lei lo riconosciate; comprobando questa condizione con la vita vostra santa, esemplare ed onesta. A che siete tanto più obbligato, per aver voi già dato qualche opinione nell'adolescenza vostra, da poterne sperare tali frutti. E saria cosa molto vituperosa, e fuor del debito vostro e aspettazione mia, quando nel tempo che gli altri sogliono acquistar più ragione, e miglior forma di vita, voi vi dimenticaste il

vostro buono instituto. Bisogna adunque che vi sforziate alleggerire il peso della dignità che portate vivendo costumatamente, e perseverando negli studii convenienti alla professione vostra. L'anno passato io presi grandissima consolazione intendendo che, senza che alcuno vel ricordasse, da voi medesimo vi confessaste più volte e vi comunicaste. Nè credo che ci sia miglior via a conservarsi nella grazia di Dio, che l'abituarsi in simili modi, e perseverarvi. Questo mi pare il più utile e conveniente ricordo che per lo primo vi posso dare.

Conosco che andando voi a Roma, che è sentina di tutt'i mali, entrate in maggior difficoltà di fare quanto vi dico di sopra: perchè, non solainente gli esempii muovono, ma non vi mancheranno particolari incitatori e corruttori. Perchè, come voi potete intendere, la promozione vostra al cardinalato, per l'età vostra, e per l'altre condizioni sopraddette, arreca seco grande invidia: e quei che non hanno potuto impedire la perfezione di questa vostra dignità, s'ingegneranno sottilmente diminuirla, con denigrare l'opinione della vita vostra, e farvi sdrucciolare in quella fossa dove essi sono caduti; confidandosi molto che debba loro riuscire, per l'età vostra. Voi dovete tanto più opporvi a queste difficoltà, quanto nel Collegio' ora si vede men virtù: ed io mi ricordo pur avervi veduto buon numero d' uomini dotti e buoni e di santa vita. Però è meglio seguir questi esempii: perchè, facendolo, sarete tanto più conosciuto e stimato, quanto l'altrui condizioni vi distingueranno dagli altri. É necessario che fuggiate come Scilla e Cariddi il nome dell' ipocrisia, e come la mala fama; e che usiate mediocrità, sforzandovi in fatto fuggire tutte le cose che offendono in dimostrazione; e in conversazione non mostrando austerità o troppa severità: che sono cose le quali col tempo intenderete e farete meglio, a mia opinione, che io non le posso esprimere. Voi intenderete di quanta importanza ed esempio sia la persona d'un cardinale; e che tutto il mondo starebbe bene, se i cardinali fossero come dovrebbono essere perciocchè farebbono sempre un buon papa; onde nasce quasi il riposo di tutt'i cristiani. Sforzate vi dunque d'esser tale voi, che quando gli altri fossero così fatti, se ne polesse aspettare questo bene universale.

E perchè non è maggior fatica che conversar bene con diversi uomini, in questa parte vi posso mal dar ricordo, se non che v'ingegniate che la conversazion vostra co' cardinali, ed altri uomini di condizione, sia caritativa, e senza offensione: dico, misurando ragionevolmente, e non secondo l'altrui passione ; perchè molti, volendo quello che non si dee, fanno della ragione ingiuria. Giustificate adunque la coscienza vostra in questo, che la conversazion vostra con ciascuno sia senza offensione. E questa mi par la regola generale, molto a proposito vostro: perchè quando la passione pur fa qualche nemico, come si partono questi tali senza ragione dell'amicizia, così qualche volta tornano facilmente. Credo, per questa prima andata vostra a Roma, sia bene adoperare più gli orecchi che la lingua.

Oggimai io vi ho dalo del tutto a Dio e a santa Chiesa: ond'è necessario che diventiate un buon ecclesiastico, e facciate ben capace ciascuno che amate l'onore e stato di santa Chiesa e della sede apostolica innanzi Nel Collegio dei cardinali.

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