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convalescenza è molto migliore che la sanità. E coloro che hanno lodate grandemente il vitto pittagorico, lo fecero con questa buona intenzione. Perchè l'essere convalescente, si è appunto l'essere come la canna di Esopo: la quale cedendo al gran soffiare del vento, e piegandosi, stette salda; e la quercia ne fu sbarbata.

Fiualmente, per conchiudere ( com'io dissi nel principio ), a conforto de'corpi d'oggidì che hanno picciola solidità e sostanza, dico che appunto per questo natura è nella maggior sua perfezione; e che ella mostra di essere ottima a quei piccioli tremiti di muscoli e convulsioncelle, che scuotono maschi e femmine, senza diversità veruna; e che certi maluzzi usuali ad ogni persona, sono d'avergli cari; poichè essi ne certificano di una convalescenza universale. Gozzi, Osservatore, parte II.

XI. Discorso satirico intorno alla utilità degli oriuoli.

Io non so fra me medesimo immaginare quello che farebbe il mondo oggidì, se gli uomini avessero prestato fede alle dicerie degli antichi filosofi. Mi par di vedere che, a guisa di un larghissimo velo, malinconia si sarebbe stesa sopra tutta la faccia della terra; e che ogni uomo, prima di fare un passo, sarebbe rimaso col piede più volte in aria, a dire fra sè: fo io bene o male a metterlo in terra? lo debbo io mettere qui o colà ? è questo il tempo di posarlo, o no? che debbo io fare? In ogni cosa mettevano gli scrupoli, in tutto voleano il senno e l'antivedenza. Ma il cielo, pietoso dell'umana generazione, vedendo che il soverchio pensare alle cose anticipatamente, ci avrebbe consumati, mandò al mondo una setta novella di uomini, a far fronte a quella importuna genia, che con le sue rigorosità guastava la quiete de'viventi. Furono questi gli oriuolai; cotanto privilegiati dal cielo, ch'ebbero ingegno di chiudere ventiquattro ore in una cassettina di argento, di oro o di altro metallo; e dividerle anche in minuti, secondi, e quasi attimi; riducendo la cosa ad un modo, che ognuno può avere a posta sua nella tasca un giorno e una notte: cosa che quanti furono Zenoni, Crati e Crateti, non avrebbero indovinata giammai. Prima che al mondo fossero oriuoli, non sapendosi quanto durasse il tempo, ognuno si affannava a pensare in lungo, e volea comprendere con la mente un anno, due anni, dieci, venti, e più, e prevedere quello che potesse essere di là ad un secolo. Dappoichè si è introdotta questa benedizione, gli uomini non si rompono più il capo in tante antivedenze; ma, trovandosi minuzzato e squartato il tempo in molti squarci e pezzuoli, si sono avvezzi a non mandare i pensieri più là che mezza giornata e quale un'ora, qual mezza, o qual meno ancora, se così vogliono. Di qua nasce che non sono le genti più ripiene di mille inquietudini, nè cotanto affaccendate com'erano una volta: perchè minor faccenda e minor travaglio ha colui nel capo, il quale antivede mezz'ora o un minuto le cose, di un altro il quale avrà in testa quelle di uno o di più anni. Quando uno avea, per esempio, un figliuolo maschio, non sì tosto gli era nato, che pensava in qual forma dovesse allevarlo, qual condizione di vita gli dovesse eleggere; dubitava della riuscita che fosse per fargli; e mille altri pensieri: perchè, non vedendo il tempo a poco a poco, a. Da averli.

vea la vita del figliuol suo tutta ad un tratto nel cervello. Oggidì, che siamo beneficati dagli oriuoli, se il figliuolo dà mezz'ora di consolazione, il padre è contento; e, se gli dà altra mezz'ora di sconforto, quello tosto finisce; e comincia la terza ; la quale, sia a quel modo che vuole, darà in breve luogo alla quarta, e si muteranno le cose; e, quando anche non si mutassero, che fa ciò? non avendosi a sperare o a temere più che mezz'ora ?

Un altro vantaggio abbiamo ricevuto, che non è meno notabile. Tempo fu che le faccende di amore andavano con indicibile lentezza. Uomini e donne, avendo in animo tutti un lungo tempo, non si affrettavano punto. Stavano chiuse le femmine in casa, e poco erano vedute da' maschi. Incominciavano questi dimostrare l'affetto loro con mille lungherie, che non aveano mai fine. Serenate, cantate, giuochi, feste: le quali non erano subito gradite dalla femmina; che facea un atto di grandissimo favore, se in capo a tre anni lasciava vedere una guancia, o, il più, un risolino, dalla finestra. Cominciavano, per vie studiate e mirabili, a correr le lettere, e, prima che nascesse fra loro una conchiusione, io credo che si vedesse già qualche grinza nella pelle dell'uno o dell' altro. Dappoichè si guarda negli oriuoli, non si ha più quella sofferenza. Le feste e le serenate sono andate a spasso; non si usano più finestre, non lungagnole di polize; si accorcia tutto, tutto si abbrevia; un'occhiata, 0 il più due, spacciano tutto quello che appena era una volta spacciato da mille aggiramenti e invenzioni.

Un'altra contentezza abbiamo oggidì, che i nostri antichi non la poteano avere. Eglino doveano essere insaziabili dal possedere tesori; perchè non vedeano mai il termine del tempo loro, aveano in capo che, come suol dirsi, il terreno mancasse loro sotto i piedi. Quindi era che ciascheduno cercava di acquistare il più che potea, di arricchire la sua famiglia di rendite e fondi ; e in ogni cosa cercava di vantaggiarsi con la parsimonia, col pensare a' fatti suoi, e in tutti quei modi co' quali può l'umano cervello acquistare. Gli oriuoli ci hanno tolto dal cuore questo travaglio. Quando uno ha danari in tasca che gli bastino quattordici ore (non computandovi quelle del dormire, perchè in sogno non si spende ), che gli occorre di più? E se non vuole averne per quattordici ore, può anche dividere il tempo in più minute parti, e cercare di provvedersi per una o per due; che, in un giorno, saranno a sufficienza.

Non è dunque punto da maravigliarsi, se dopo questa benedetta invenzione degli oriuoli, gli uomini vivono più spensierati, più quieti; se non si vede gran movimento nelle genti; se non ci sono quelle antivedenze, che faceano un tempo disperare. Per la qual cosa, io stabilisco, che i veri filosofi che hanno illuminato il mondo sieno gli oriuoli.

Il medesimo, ivi, parte IV.

1. Lamento della madre di Eugenia vergine, per la partenza improvvisa di sua figliuola '.

3

La madre si racchiuse nella camera, e piagnendo, con grande lamento, diceva: Figliuola mia dolce Eugenia, dove se' tu, ch' io non ti truovo, com' io soleva, in camera? Chi così disavventuratamente l' ha tolta alla tua madre tapina? Che nuova generazione di perdita è questa? dove al mondo se' nascosa; e nulla mente lo puote immaginare e comprendere? Se mi t'avessero tolta, figliuola mia, i feroci Barbari e i crudeli Saracini, molto meno trista sarei imperocchè la tua risplendiente faccia, e chiara persona, l'averebbe fatto onore fra' principi, e nobili baroni; e saresti stata glorificata e magnificata da ogni grande signore. E se fussi stata menata nel capo 2 del mondo, nulla impossibile m'avrebbe tenuta ch' io non ti fussi venuta a vedere ; nè fatica veruna ci sarebbe di ricomperarti tanto oro, quanto tu pesassi. Se tu fussi morta nelle braccia mie, molto più contenta sarei; e, imbalsimando il tuo vergine corpo, serbata t'arei per mia consolazione; e, quasi come dormissi, t' arei contemplando veduta. Ma ora, figliuola mia, niuna consolazione ha la trista madre tua. Guardo per tutto il palagio, e non ti veggio: nel quale, figliuola mia, vestita di gloriose porpore, e coronata di corona splendidissima per le molte e lucenti pietre preziose, risplendevi come stella nel cielo; e ora ogni cosa mi pare scurata, perchè da noi ti se' partita, stella diana. Ma vie più scurata è l'anima mia; della quale, per la letizia ch'io per te ricevea, eri quasi mezza la vista mia. Quando io entro, e veggio le gioje tue; sempre mi si rinnuova il dolore; e piango amaramente sì te, diletta figliuola mia; e dico: Ecco la corona tua, Eugenia mia; la quale io soleva acconciare in sul tuo biondissimo capo: e tutta Alessandria faceva allegrezza quando ti mostravi ne' tuoi ornamenti; ora di te son vedova; e tutta la città contristata, per la tua nuova e inaudita partenza. Quando io era trista e maninconosa, e io ti vedea; subito, come caccia la luce del sole le tenebre scure, così la tua lieta faccia cacciava da me ogni nebbia di tristizia.

Vita di santa Eugenia.

Non ostante la qualità dell'argomento, e certa rozzezza dello stile, questo passo, per l'affetto e la naturalezza grande, mi è paruto molto degno di considerazione.

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II. Torquato Tasso a Scipione Gonzaga, intorno ai proprii

infortunii e patimenti.

lo (per mia colpa, e parte per mia sciagura) come ribello contra il principe, mio signore per elezione; come ingiurioso contra gli amici e conoscenti, e come ingiusto contra me stesso (se contra sè medesimo si può commettere ingiustizia ), sono trattato : e sono scacciato dalla cittadinanza, non di Napoli o di Ferrara, ma del mondo tutto; sicchè a me solo non è lecito dire ciò che a tutti è lecito, cioè d'esser cittadin della terra; escluso, non solo dalle leggi civili, ma da quelle delle genti e della natura e d' Iddio; privo di tutte l'amicizie, di tutte le conversazioni, di tutti i commerci, della cognizion di tutte le cose, di tutti i trattenimenti, di tutti i conforti; rigettato da tutte le grazie; e in ogni tempo e in ogni luogo egualmente schernito e abbominato. La qual pena è così grande, che, s'ella d'alcuna speranza non fosse accompagnata, la morte senza alcun dubbio non parrebbe molto maggiore; e forse da uomo forte e magnanimo (qual io d'esser non mi conosco molto minore sarebbe giudicata. Ma, se questa speranza non è promission di bene ch'abbia a venire, ma inganno piuttosto o conforto, simile a quel che si dà agli infermi disperati della salute, non so ben risolvermi s'ella sia alleggiamento o aggravamento di pena; vedendomi d'ora in ora riuscir fallace quel che d'avere a conseguir in breve, aveva conceputo.

E certo i parricidi, che cuciti in un cuojo con una volpe e con un gallo, sono gettati nel mare; in guisa che mentre spirano, non possono a sè trar l'aria; e mentre sono da' flutti agitati, non si purgano nell'onde; e mentre sono esposti sul lido, non si riposano nella terra; i parricidi, dico, poco hanno che invidiare alle mie pene. Ed io, se la speranza non fosse, lascerei in modo la mia ragione trasportar dal dolore (il quale forse i gastighi mi dipinge molto più gravi di quel che in effetto sono ), che ardirei d' affermare che la mia pena fosse eguale alla loro: falsamente certo; perchè ogni gastigo che mi si dia, è in alcun modo addolcito, non solo dalla speranza, ma dal modo del darlo. Ma pure, se non la grandezza del tormento, almeno la novità e la stravaganza, farebbe questa falsità tollerabile nella lingua d'uno addolorato. Perchè, se di coloro che il padre hanno cciso, si dice: che cosa è così comune agli ondeggianti, come l'onde ? o a' gettati sul lido, come l' arena ? e agli spiranti, come l'aria? e pur mentre ondeggiano, non si lavano nell'onde; e mentre spirano, non godono dell'aria; e mentre son gettati sul lido, non son degni di toccar l'arena; ed io direi: che cosa è così comune agli uomini, come il significare i concetti suoi con parole? a' poveri, come il guadagnarsi il vitto colle fatiche e col sudore? agli studiosi, come sperare onore e utile dagli studii loro ? ed io parlo e ascolto in maniera, che son sicuro che le parole non son significatrici de' concetti; m'affatico per arricchire altri co' miei stenti; e studio senza fine di comodo, o di riputazione, o di gloria.

Il gastigo dee esser, senza alcun dubbio, proporzionato al fallo: ma s' io sia stato sin ora gastigato a bastanza o no, il rimetto alla pietosa considerazione di que' principi a' quali appartiene il giudicar di me. E se

stato non sono appieno punito; i confini, i bandi, l'esclusioni dalle camere de' principi, sono forse pene bastevoli; date massimamente dopo le prime, che m' han percosso così aspramente nella vita, neli' onore e ne' comodi. E se queste lor dispiacciono, perchè sono pene ordinarie; e pur della novità son vaghi; l' esser costretto ad intender a cenno, a guisa di muto o di bestia; l'esser privo della cognizion delle cose del mondo, e privo d'ogni azione, e privo de' secreti trattenimenti, e de' secreti ragionamenti, e della fede vicendevole dell' amicizia; e privo di tutti quegli oggetti che possono dilettare il gusto e la vista o l'udito; dovrebbon parer pene convenevoli, senza che a tante sciagure s'aggiungesse l'infermità, la mendicità, l' indegnità, e la privazion dello scrivere.

A me pare che i miei errori fossero degni di perdono; e d'averne nondimeno sin ora ricevuto il gastigo: e mi pare anche che, se nuovi gastighi mi voglion dare, potrebbono contentarsi che non fossero nè tanti in numero, nè sì gravi in peso e che si potrebbe anche, per lo perdono ch'a' miei nemici s'è conceduto, i miei errori con maggior clemenza riguardare. Ma forse non gastigarmi, ma vendicarsi di me, vogliono i serenissimi principi. Tolga Iddio che mai questo affetto nell'animo loro, o questo pensiero nella mia mente possa cadere. Perchè, siccome l'affetto è indegno della lor grandezza, così non debbo io pensare ch'essi sian per fare ciò che alla lor grandezza non si richiede. Qual vendetta può desiderar un principe contra un privato ? un possente contra un debole? un temuto contra un supplichevole ? un venerato contro uno che 'l riverisce? Il desiderio della vendetta è desiderio che può nascer tra gli eguali, o tra coloro tra' quali è poca differenza ina ove nou è egualità, ove non è similitudine, ove non è vicinanza, ove non proporzione, ove è tanta distanza quanta è dall'oriente all'occidente, quanta è dal cielo all' inferno ; come può nascer sì fatto desiderio ?

Nè io parlo con esso loro come farei co' giudici: non mi scuso, ma m'accuso; non diminuisco più i miei falli, ma gli accresco; non dimando giustizia più, no, ma perdono e grazia ; non mi vaglio de' torti che da’ loro soggetti a me sono stati fatti, ma tutto il fondamento de' preghi e delle speranze mie è sovra l'offese che io ho fatte all'Altezze loro. Nuovo e strano fondamento; ma pur sodo e stabile, nè punto sofistico. Se l'offesa fu inconsiderata, l'emenda sarà considerata; se l'offesa fu leggiera, l'emenda sarà tanto grande, quanto più da me si può aspettare. Passo più oltre: al forte è caro che gli sia data occasione di mostrar la fortezza; al prudente è grato che gli sia porta materia da operar prudentemente: ed essi, che sono clementi e magnanimi, debbono aver caro che i miei errori siano quasi occasione o materia della lor magnanimità, e ch'io sia mostrato a dito per esempio della lor clemenza; e si potranno compiacer in me, come in soggetto in cui riluca la grandezza della loro virtù.

Or rivolgo, cortesissimo mio signore, a vostra signoria illustrissima il mio ragionamento; e vi prego, per l'amor che dal vostro, e per la riverenza che dal mio lato cominciò col cominciar della nostra giovinezza; per li testimoni che sempre avete fatti di qualche mio picciol merito, e per quelli che sempre ho fatto io del vostro valor singolare e maraviglioso; per li favori che ho ricevuti da voi, e per li servizii che ho desiderati di farvi; per tutti i segni e per tutte le dimostrazioni di scambievole

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