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come quelle del competitore; ma formale con piacevole proporzione. Non appariva in lui l'azione de' muscoli esternamente visibili, ma soltanto dubbiosamente adombrai. Spuntava lanugine delicata dalle guance, fresche come i fiori mattutini ed il colore di tutta la persona non potrebbe in altro modo esprimersi, che mescolando i gigli alle rose. Erano sospesi gli animi; ma però tutti concordi nella propensione, perchè vini dalla bellezza divina del giovane atleta, che desideravano ottenesse la corona, o almeno che uscisse illeso dal pericoloso cimento. Ed invero, considerando la mostruosa forza del di lui competitore a fronte di quelle membra così delicate, dovevano essere gli animi commossi da dubbio così pietoso.

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Mentre gli spettatori erano perplessi in questi pensieri, quelli, attentamente guardandosi l'un l'altro, da prima alquanto discosti, e poi con lento e cauto passo inoltrandosi, alla fine si slanciarono reciprocamente. Veniva il Cretese colle braccia aperte in atto non che di stringere, ma d'ingojare il garzone: il quale deviando l'incontro, destramente inchinandosi, passò sotto il di lui bracciò; e quindi rivolgendosi rapidamente, lo prese di dietro ai fianchi. Quegli però, scotendosi con impeto, si disciolse; perchè non ancora Faone aveva potuto adattare le mani, intrecciando le dita, per afferrarlo sicuramente. Stettero così alquanto di nuovo discosti ed il Cretese fremeva nel vedersi, al principio del cimento, quasi sul punto di essere superato; parendogli piuttosto audacia, che valore, la competenza di così delicato garzone. Che se la vergogna del vano colpo non l'avesse animato a sdegno, forse avrebbe sentita pietà di lui. Ma reso crudele dall'ira, abbassato il capo, si abbandonò contro di quello, siccome un toro che assalta il bifolco. Fu veramente maravigliosa l'agilità di Faone perchè, giunta la testa dell' avversario, chino e violento, quasi ad urtargli il petto, appoggiò su quella ambe le mani, ed allargando le gambe, spiccò un salto, per cui rimase di nuovo a tergo del suo deluso competitore. Questi, feroce anzichè artifizioso, essendosi slanciato qual nave spinta nell'acqué; poichè andò vano il violento impeto, privo di resistenza, cadde boccone, ed impresse nell'arena la propria immagine. Aspettò Faone che risorgesse l'avversario, secondo la giustizia delle leggi atletiche ed intanto gli spettatori, che taciti avevano trattenute le grida nel rimirare quel dubbioso incontro, prorup-` pero in applausi ed in smoderate risa, vedendo così sconciamente caduto il prepotente atleta, e rialzarsi poi col viso imbrattato di polvere. Ma quegli, oramai cieco, e per la rena entrata negli occhi, e per la brama di vendetta; mordendo le labbra, e con pupille ardenti; nondimeno cauto, e pronto alle sorprese, tornò alla tenzone: e accostandosi entrambi, alla fine di slancio strettamente si abbracciarono. Stettero da prima alquanto immobili, aspettando ciascun di loro qualche atto dell' avversario, da cui ritrarne vantaggio; e quasi si combaciavano le vicine sembianze, offrendo agli occhi una piacevole differenza il volto del giovine così leggiadro, a canto del satirico e polveroso del contrario atleta. Quando costui, impaziente della vittoria, incominciò a scuotere il garzoné, or da una parte or dall'altra agitandolo, per istenderlo al suolo. Ma egli, secondando agilmente gli urti violenti, reggeva sè stesso, come canna al vento, finchè gli si offerse l'opportunità d'introdurre la destra

gamba; e con essa il di lui sinistro piede a sè traendo, e nel tempo istesso spingendogli il petto, lo costrinse a vacillare, ed alla fine a cadere. Pure egli rimase in piedi: perchè il cadente avversario, colla speranza di sostenersi, lo abbandonò.

Tutti acclamarono Faone vincitore: che girò gli sguardi con nobile compiacenza della ottenuta gloria, vie più abbellendo le sembianze co' raggi dell' interno giubilo che vi trasparivano. Intanto l'umiliato Cretese si sollevò dall'arena, e ne partì fra le amare derisioni. Il vincitore, accompagnato dagli applausi delle fanciulle, che versavano su di lui copio samente i fiori estivi, tra i balli e gl' inni, animali dal suono festivo di cetere e di sistri; s' innoltrò a traverso dell' arena, passeggiando in attitudine trionfale, all' alto seggio del giudice atletico; che pose la corona su le di lui tempie; e aggiunse in premio un lucido elmo, da cui pendevano bianchissime chiome di destriero; e un ampio scudo, nel di cui centro era incisa la torva Medusa. VERRI, Avventure di Saffo, lib. 1.

II. Giuochi pastorali.

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Ergasto fe cominciare il terzo giuoco; il quale fu di tal sorte. Egli di sua mano con un de' nostri bastoni fe in terra una fossa piccola tanto, quanto solamente con un piè vi si potesse fermare un pastore, e l'altro tenere alzato, come vedemo spesse volte fare alla grue. Incontro al quale, un per uno, similmente con un piè solo, aveano da venire gli altri pastori, e far prova di levarlo da quella fossa, e porvisi lui. Il perdere, tanto dell' una parte quanto dell' altra, era toccare con quel piè che sospeso tenevano, per qualsivoglia accidente, in terra. Ove si videro di molti belli e ridicoli tratti, ora essendone cacciato uno, ed ora un altro. Finalmente toccando ad Ursacchio di guardare il luogo, e venendogli un pastore molto lungo davanti; sentendosi egli ancora scornato del ridere de' pastori, e cercando di emendare quel fallo che nel trarre del palo commesso avea; cominciò a servirsi delle astuzie; e bassando in un punto il capo, con grandissima prestezza il pose tra le cosce di colui che per attaccarsi con lui gli si era appressato; e senza fargli pigliar fiato sel gettò, con le gambe in aere, per dietro le spalle; e sì lungo come il distese in quella polvere. La maraviglia, le risa e i gridi de' pastori furono grandi. Di che Ursacchio prendendo animo, disse: Non possono tutti gli uomini tutte le cose sapere; se in una ho fallato, nell'altra mi basta avere ricovrato lo onore. A cui Ergasto ridendo, affermò che dicea bene e cavandosi dal lato una falce delicatissima, col manico di bosso, non ancora adoprata in alcuno esercizio, glie la diede. E subito ordinò i premii a coloro che lottare volessero; offrendo di dare al vincitore un bel vaso di legno di acero, ove per mano del padoano Mantegna, artefice sovra tutti gli altri accorto ed ingegnosissimo, eran dipinte molte cose; ma, tra l'altre, una ninfa ignuda, con tutti i membri bellissimi, dai piedi in fuori, che erano come quelli delle capre; la quale sovra un gonfiato otre sedendo, lattava un picciolo satirello; e con tanta tenerezzą il mirava, che parea che di amore e di carità, tutta si struggesse: e 'l fanciullo nell' una mammella poppava, nell' altra tenea distesa la tenera • Cioè veggiamo.

era,

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mano, e con l'occhio la si guardava, quasi temendo che tolta non gli fosse. Poco discosto da costoro, si vedean due fanciulli, pur nudi, i quali avendosi posti due volti orribili di maschere, cacciavano per le bocche di quelli le picciole mani, per porre spavento a due altri, che davanti loro stavano de' quali l' uno, fuggendo, si volgea in dietro, e per paura gridava ; l'altro, caduto già in terra, piangeva, e non possendosi 1 altrimeni aitare, stendeva la mano per graffiarlo. Ma di fuori del vaso, correva attorno attorno una vite carica di mature uve; e nell'un de' capi di quella un serpe si avvolgeva con la coda; e con la bocca aperia venendo a trovare il labbro del vaso formava un bellissimo e strano manico da tenerlo.

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Incitò molto gli animi de' circostanti a dovere lottare la bellezza di questo vaso ma pure stettero a vedere quello che i maggiori e più reputati facessero. Per la qual cosa Uranio, veggendo che nessuno ancora si movea, si levò subito in piedi ; e spogliatosi il manto, cominciò a mostrare le late spalle. Incontro al quale animosamente uscì Selvaggio, pastore nouissimo e molto stimato fra le selve. La espettazione de' circostanti era grande, vedendo duo tali pastori uscire nel campo. Finalmente l'un verso l'altro approssimatosi, poi che per buono spazio riguardati si ebbero dal capo insino ai piedi in un impeto, furiosamente si ristrinsero con le forti braccia; e ciascuno deliberato di non cedere, parevano, a vedere, duo rabbiosi orsi o duo forti tori, che in quel piano combattessero. E già per ogni membro ad ambiduo correva il sudore, e le vene delle braccia e delle gambe si mostravano maggiori e rubiconde per molto sangue tanto ciascuno per la vittoria si affaticava. Ma non possendosi in ultimo nè gittare nè dal luogo movere; e dubitando Uranio che a coloro i quali intorno stavano, non rincrescesse lo aspettare, disse: Fortissimo ed animosissimo Selvaggio, il tardare, come tu vedi, è nojoso: o tu alza me di terra, o 10 alzerò le; e del resto lasciamo la cura agli Dii. E così dicendo, il sospese da terra. Ma Selvaggio, non dimenticato delle sue astuzie, gli diede col tallone dietro alla giuntura delle ginocchia una gran botta, per modo che facendogli per forza piegare le gambe, il fe cadere supino, ed egli, senza potere aitarsi, gli cadde di sopra. Allora tutti i pastori maravigliati gridarono. Dopo questo toccando la sua vicenda a Selvaggio di dover alzare Uranio, il prese con ambedue le braccia per mezzo; ma per lo gran peso, e per la fatica avuta, non possendolo sostenere, fu bisogno, quantunque molto vi si sforzasse, che ambiduo, così giunti, cadessero in quella polvere. All'ultimo alzatisi, con malo animo, si apparecchiavano alla terza lotta. Ma Ergasto non volle che le ire più avanti procedessero; ed amichevolmente chiamatili, disse loro: Le vostre forze non son ora da consumarsi qui per sì piccolo guiderdone eguale è di ambiduo la vittoria, ed eguali doni prenderete. E così dicendo, all' uno diede il bel vaso; all' altro una cetera nova, parimente di sotto e di sopra lavorata, e di dolcissimo suono; la quale egli molto cara tenea per mitigamento e conforto del suo dolore. SANNAZZARO, Areadia.

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'Potendosi.

III. Uccellagioni.

Ma come che di ogni caccia prendessimo sommamente piacere, quella delli semplici ed innocenti uccelli oltre a tutte ne dilettava; perocche con più sollazzo e con assai meno fatica che nessuna dell' altre, si polea continuare. Noi alcuna volta, in sul fare del giorno, quando, appena sparite le stelle, per lo vicino sole vedevamo l'oriente tra vermigli nuvoletti rosseggiare, n'andavamo in qualche valle lontana dal conversare delle genti; e quivi fra duo altissimi e dritti alberi tendevamo la ampia rete; la quale, sottilissima tanto, che appena tra le frondi scernere si potea, aragne per nome chiamavamo. E questa ben maestrevolmente, come si bisogna, ordinata, ne moveamo' dalle remote parti del bosco, facendo con le mani romori spaventevoli; e con bastoni e con pietre di passo in passo battendo le macchie verso quella parte ove la rete stava, i tordi, le merule e gli altri uccelli sgridavamo. Li quali dinanzi a noi paurosi fuggendo, disavvedutamente davano il petto negli tesi inganni; ed in quelli inviluppati, quasi in più sacculi 2, diversamente pendevano. Ma al fine veggendo la preda essere bastevole, allentavamo appoco appoco i capi delle maestre funi, quelli calando: ove quali trovati piangere, quali semivivi giacere, in tanta copia ne abbondavamo, che molte volte, fastiditi di ucciderli, e non avendo luogo ove tanti ne porre, confusamente con le mal piegate reti ne li portavamo insino agli usati alberghi.

Altra fiala, quando nel fruttifero autunno le folte caterve di storni, volando in drappello raccolte, si mostrano a' riguardanti quasi una palla nell'aria, ne ingegnavamo di avere due o tre di quelli; la qual cosa di leggiero si potea trovare. Ai piedi de' quali un capo di spaghetto sottilissimo, unto d'indissolubile visco, legavamo, lungo tanto, quanto ciascuno il suo potea portare; e quindi, come la volante schiera verso noi si approssimava, così li lasciavamo in loro libertà andare. Li quali subitamente a' compagni fuggendo, e fra quelli, siccome è lor natura, mescolandosi, conveniva che a forza, con lo inviscato canape, una gran parte della ristretta moltitudine ne tirassero seco. Per la qual cosa i miseri sentendosi a basso tirare, ed ignorando la cagione che il volare loro impediva, gridavano fortissimamente, empiendo l' aria di dolorose voci: e di passo in passo per le late campagne ne gli vedeamo dinanzi a' piedi cadere onde rara era quella volta che con li sacchi colmi di caccia non ne tornassimo alle nostre case.

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Ricordami avere ancora non poche volte riso de' casi della male augurata cornice ed udite come. Ogni fiata che tra le mani, siccome spesso addiviene, alcuna di quelle ne capitava, noi subitamente n' andavamo in qualche aperta pianura, e quivi per le estreme punte delle ali la legavamo resupina in terra, nè più nè meno come se i corsi delle stelle avesse avuto a contemplare. La quale non prima si sentiva così legala, che con stridenti voci gridava, e palpitava sì forte, che tutte le convicine cornici faceva intorno a sè ragunare. Delle quali alcuna, forse più de' mali della compagna pietosa, che de' suoi avveduta, si lasciava alle volte Cioè movevamo, 2 Sacchetti. 3 Vedevamo.

LEOPARDI, Crestomazia. I.

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di botto in quella parte calare per ajutarla: e spesso per ben fare ricevea mal guiderdone. Conciossiacosachè non si tosto vi era giunta, che da quella che 'l soccorso aspettava, siccome da desiderosa di scampare, subito con le uncinute unghie abbracciata e ristretta non fosse; per maniera che forse volentieri avrebbe voluto, se potu o avesse, svilupparsi da' suoi artigli; ma ciò era niente; perocchè quella la si stringeva e riteneva sì forte, che non la lasciava punto da sè partire. Onde avresti in quel punto veduto nascere una nuova I pugna questa cercando di fuggire, quella di ajutarsi; l'una e l'altra, egualmente più della propria che dell'altrui salute sollicita, procacciarsi il suo scampo. Per la qual cosa noi, che in occulta parte dimoravamo, dopo lunga festa sovra di ciò presa, vi andavamo a spiccarie: e, racquetato alquanto il romore, ne riponevamo all' usato luogo, da capo attendendo che alcuna altra venisse, con simile atto, a raddoppiarne lo avuto piacere. Il medesimo, ivi.

IV. Spettro di un parricida

Come la calma del pelago si muta in repentina procella, così ondeggiavano perturbate le ombre per gli avelli, per le ossa, per gli umidi senfieri. Fremea l'aere per confusi e dolenti sospiri, d'infiniti formandone un solo tristissimo Veniva dalla estrema cavità degli antri uno spettro ; il quale parea, allargando le braccia, implorare la comune pietà. Gli era però negata; anzi, quasi fosse la sua presenza esecrabile, alcuni gettavano il lembo delle toghe sul capo, altri coprivano gli occhi con ambe le mani, chinavano altri le palpebre e la fronte, e tutti lo evitarono fuggendo. Si scosse anco la terra, tremarono le tombe, scrosciarono in'suc no secco le cose dentro quelle, e rombava un vento foriero di qualche prodigio imminente. Restò il luogo deserto: solo quello spettro s' innolTrava, il quale tutti avea posti in fuga. Era l'aspetto suo giovanile; dolente oltre modo: gli occhi spiravano terrore, la fronte era oscurata dalle angosce mortali, i capelli scomposti ed irti, le fauci anelanti, le guance lagrimose, la persona squallida, e consunta dalla tristezza. Parea ch'egli ardentemente bramasse di avvicinarsi alla calca fuggente, e con gemiti procurasse rattenerla. Ahi dolorosa vista, la quale dovea muovere pietà! Pur niuna larva rimase; ed un tristo silenzio alla fine ingombrava quelle vie di morte.

lo abbandonato, come in deserto spaventevole innanzi un mostro, sentiva languire nel petto la consueta baldanza. Mi arretrava, senza volgere gli oneri, anzi con gli occhi intenti a quella ombra; la quale tanto spazio verso me procedeva, quanto io ne abbandonava partendo.Quegli intarto avea sempre in me fise le ardenti pupille come se contemplasse un oggetto maraviglioso. Vidi, quando fu prossimo, che le sue niani stillavano sangue; il quale benchè egli continuamente si studiasse di tergere con le vesti, pur di nuovo sempre ne grondava, quasi fonte. Era il suo petto circondato da un serpe nemico, il quale con velenosa lingua gli pungea il cuore. Questo era visibile, per un' ampia ferita, aperta da quei morsi continui, nella quale apparivano i palpiti frequenti. Camminava lento; perchè impediti i pie dalle catene; le quali sonavano con funesto 'Strana.

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