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marii o nicchie, dove sono poste le statue de' falsi Dei. A questi si aggiungono laghi pieni di pesci, e giardini in palco. Nelle fabbriche usano la materia molto polita, e con certi loro argomenti le dànno colore e splendore d'oro. Le tegole ancora sono polite ugualmente, congiunte e commesse con calcina, per difendersi dalla pioggia: e i tetti durano i secoli interi : e gli ultimi embrici sono coperti di marmo, e lavorati con molta leggiadria. Innanzi le porte vi sono alberi alti e molto dritti, che colla lor verdura fanno ombra, e col gratissimo aspetto, quasi con certo pasto, ricreano gli occhi, quanto si vogli' stanchi.

Le città poi oltre a che la maggior parte, come s'è detto, sono bagnate da grossi fiumi, ve ne sono ancora di quelle che per la comodità di condurvi e di estrarne le robe, hanno canali dentro di esse, capaci di navi (come si vede ancora in molti luoghi della Fiandra, ed in alcune parti ancora d'Italia): e da ogni parte di questi canali sono le strade con argini, acciocchè vi si possa caminar per terra. V'ha ancora gran numero di ponti di pietra, fatti con bell' artificio, non solo nelle terre, ma ancora pel contado: ed in quei fiumi che, per la profondità dell' acqua, non vi si possono fare le pile e gli archi; in vece di ponte, vi mettono delle navi, legate insieme, e coperte di tavole; sopra le quali la gente passa comodamente. Quando i fiumi, per le soverchie piogge, ingrossano smisuratamente, si sciolgono gli ordini delle navi, ed intanto vi stanno le barche, a spese del re, che passano le genti senza pagamento. Oltre a questo, a spese del pubblico parimente, si provvede che le fitte e le apriture della terra, e le acque stagnanti, e l'altre cose che impediscono il cammino, non guastino le strade. Anzi che ne' luoghi asprissimi, e nelle balze de' monti, spezzando le pietre coi picconi, fanno le vie aperte e libere, con tale industria e spesa, che in quel genere pareggiano l' antica magnificenza romana. Vi sono ancora tempii bellissimi e grandissimi, di torri e di tetti ornati. Oltre al pomerio ( che è lo spazio intorno alla città, fuori e dentro le mura, dove non si può fabbricare), massimamente ne' luoghi marittimi, sono borghi, con strade fatte col medesimo ornamento e colla medesima larghezza; e vi sono spessi alberghi ed osterie, da ricevere i forestieri e i negozianti: nelle quali (oltre alle delicate bevande, secondo l'uso di quella nazione) tengouo cibi, e cotti e crudi, di ogni sorte, e vivande squisite. Il medesimo, ivi, libro XI.

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1. Come si abbiano a scriver gli apologhi.

La favoletta debbe esser semplice, per una semplicità congiunta sempre con un certo decoro, che la tenga rimota da ogni forma ignobile di favellare. E perchè la richiesta semplicità vuol esser somma, però essa, senza avvedersene, perviene talvolta ai confini della bassezza, entro a cui avvilirsi e siccome i confini spesso sono dubbii e litigiosi, così pure i giudizii del semplice e del basso pur sono incerti e varii. Allo stesso compositore, nella sera ne sembra a un modo, e nell' indomane a un altro.

La favoletta debbe essere ornata; ma per ornamenti assai modesti e biente ambiziosi. Dicesi che essa vuol esser adorna di sè medesima; e questo detto significa che la mondizia e la castità del suo stile vien riputato il suo primo e più acconcio adornamento. Per altro non ha a mostrarsi certo negletta e sparuta, senza i suoi fiori. La difficoltà è che tali fiori hanno a essere tanto spontanei come se fossero i vulgari nati in un prato, e insieme tanto scelti come se fossero i nobili accarezzati in un giardino. La favoletta debbe esser graziosa; cioè debbe ben parere entro i suoi poveri e schietti ornamenti, per un certo portamento, per una certa abitudine, per una certa aria, per una certa lusinga, in cui la grazia è riposta, che tocca l' animo, anzi per entro all'animo discende e s'insinua, e tutto lo ricerca soavissimamente. Ma chi può definire la grazia? Essa si sente meglio che non s' intende; e si sente eziandio allora che non si intende. A tutti piace conversar colla grazia, ma a essa non piace che il conversare con pochi. Le altre virtù dello scrivere, studiando acquistansi per qualche guisa; la grazia, molto studiandola, si perde; nè più si ritrova tosto che assai si ricerca: onde un savio dava a' giovani con voce alta questo consiglio: o giovani, non vogliate esser graziosi ; e pure era un uomo il quale eccellentemente amava gli autori graziosi.

La favoletta debbe essere naturale: alla quale naturalezza appartiene quella che i Francesi appellano leggerezza, e che i nostri Italiani potrebbero appellare agevolezza di stile. Onde essa, nè imparolata nè impedita, non mai vezzeggia sè stessa, non s'aggira intorno a sè stessa, non ritorna e non si ravvolge in sè stessa; ma, precisa e snella, corre come limpida acqua, e va alla sua fine. Tal nativa facilità modera e tempera le riflessioni ingegnose, onde sieno chiare e comode per modo che nulla si pensi per intenderle, e con diletto si pensi dopo averle intese. Pertanto questa ingenuissima composizioncella lascia agli acuti madrigali il frizzare acuto e il brillare scintillante.

La favoletta, talora almeno, debbe esser faceta. Ma la facezia vuol esser fina e liberale. Non bisogna credersi posseditore di tutta la urbana piacevolezza del ridicolo, come si sia scritto il maestro corvo, il compare lupo, la comare volpe, sua maestà il leone. L'arte di rallegrare altrui fu sempre rara e recondita; e molti restano derisi, che vogliono far ri

dere. Certamente, se un apologo ottiene il riso, non ha a presumere di udirlo, ma si contenti di vederlo, anzi pur di vedere la sua prima mossa serena, accennata più dalla fronte che dalle labbra del leggitore.

La favoletta finalmente debbe esser breve; non tanto perchè lo dice Quintiliano, quanto perchè la indole di sì fatte narrazioncelle esige brevità; come quella che piglia in prestito le sole idee necessarie da applicarsi a subbietti che non ne hanno niuna. Tuttavia la lor brevità deb be aver principio e mezzo e fine, e la sua proporzione, la sua progressione, qualche volta la sua digressione, sempre la sua sospensione, il suo intrigo, il suo scioglimento, la sua sorpresa, colla sua morale.

ROBERTI, Discorso didascalico premesso alle Favole esopiane.

II. Sopra lo stesso argomento.

L'anacreontica canzonetta poi rendesi grata per varii modi; perchè ammette, oltre ai trasporti che la passionano, le descrizioni che la rallegrano. La favoletta è più austera. Versi essa, per cagion d' esempio, tra i fiori; e fosse pur l'autor suo valoroso a descriverli, quanto era Pausia greco a dipingerli, e quel laico gesuita di Anversa, Daniel Seghers, riputato il primo fiorista del mondo: potrà sibbene delineare un garofano o un giacinto, ma non giammai tesserne una ghirlanda, come quella che Pausia dedicò a Glicera, e Seghers al principe di Oranges. Se sapesse rappresentare, come il Savery e il Castiglione, gli uccelli e i pesci e i paesaggi; dopo due o tre pennellate dovrebbe levar la penna, e sempre schifare il bizzarro, il vistoso, il morbido, il leccato. Vorrei spiegarmi su tale affare abbastanza. Se una favola tocca le orecchie di una lepre, non ha a misurarne i mustacchi; se parla de' tralci di una vite, non ha ad assaporarne i grappoli; se accenna una rosa, non ha, per far la sua descrizione ridente e compiuta, a vagheggiare nè una mosca dorata che le posa sul seno, nè una farfalla colorata che le scherza all' intorno. Il medesimo, ivi.

III. Le galline e il gatto.

Una donnicciuola di contado teneva in sua casipola due galline ed un gatto ma, come quella ch'amava i denari senza misura, più conto di quelle faceva che d'altro mai; perchè sperava, quando fossero ingrassate, di buscare de' buoni soldi vendendoie al mercato. Per la qual cosa era lor attorno sera e matiina; e prendendosi or l'una or l'altra nel grembiale, facendo a tutte e due carezze, lor dava a mangiare quando grano quando crusca, tratto tratio esclamando: oh le mie care bestiuole! oh le mie carni! che se fossero state due sue figliuolette, non avrebbe potuto fare o dire di più. Del gatto poi non le teneva. Perchè 2 montate in superbia, gli dissero un giorno: Guata, caro che se': la padrona nemmen ti guarda. Noi almeno siamo vedute da lei di buon occhio; ci vuole un ben matto; noi carezzate; noi pasciute: felici noi! Il gatto ridendo soggiunse: Oh le meschine che siete! voi credete amor l'interesse. V'ama a se, non a voi la donna nostra. Nè mal s'appose: chè il giorno addietro la villana, vedendo a sofficiente ingrassamento venute le care sue visce'Cioè non le premeva. 2 Per la qual cosa. 3 Per sè, non per voi.

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re, presele, e tirato il collo, ne l'uccise; poi le condusse alla città per cavarne denari. MANZONI, Favole.

IV. Il mele e le mosche.

Essendo un grandissimo vaso di mele scoperchiato, tutto di intorno gli ronzavano mosche. Il mele considerando per una parte quanta fosse la sua dolcezza, stava di buona gana; ma poi cadeva in profondissima malinconia, pensando alla noja ch' ei riceveva da quegli insetti, che mai non si rimanevano di punzecchiarlo. Finalmente un giorno, insolentendo essi oltr'al modo usato, disse: E perchè, sozze di mosche, non vi ristate di tormentarmi? Pronto rispose un vecchio moscone: Perchè sei dolce. Chi gode i comodi, deve ancora patire i disagi. Ei non v' ha stalo in questa vita felice, che non sia da incomodo amareggiato.

V. Le lenzuola e il carbone.

Il medesimo, ivi.

Fece cotal lavandaja bucato, ed in una sua corticella sciorinò parecchie lenzuola ancor molli, sopra alcune corde tese per questo. Quando in esse un venticello soffiando, tratto tratto spingevale su certi monti di nero carbone, loro vicini. Vien ivi a molto la donna, per vedere come fossero asciutte; e le trova quinci e quindi picchiettate di nero. Immaginate voi la disperazion di costei, e se quelle le sieno state coltella al cuore. Egli è certo che di bel nuovo dovette nel rigagnolo della strada lavarnele.

Lo stare presso i cattivi compagni guasta l'animo ancora de' buoni. Il medesimo, ivi.

VI. Il fanciullo e la farfalla.

Insolentaccio di fanciullo, collo spilletto, punzecchiava farfalletta innocente. Perch' ella, sentendo grave dolore, a lui si volse, e disse: Non faresti mica sì mal governo di me, quando vedessi la gran macchina che io mi sono. Oh, gli disse il fanciullo, sei forse un bue? Ancora più, ripigliò l'insetto. Come ? tu sei più piccola del mio dito mignolo le mille volte. È ben più fina l'architettura del mio corpicciuolo, soggiunse. Ma, a dartene sicuro argomento, t'accosta quel microscopio agli occhi, e mira ben addentro le più minute viscere della compagna che, poco fa, crudele hai straziato. Volonteroso il fanciullo di certificarsene, sparò la morta; ed appressato agli occhi il vetro, come vide fibrette sì fine, viscerette sì minute, membrolini sì bene armonizzati, diede libertà alla viva di cui strazio faceva, e propose di non offendere insetto.

Impariamo da questo fanciullo a non disprezzare le più picciole creaturine dell'universo: chè senza mirabile magistero non ne fu pur una creata. Chi ha sperta notizia della storia naturale, il sa a prova; e tanto stima un minutissimo vermicello, quanto un grandissimo rinoceronte.

Il medesimo, ivi.

VII. La paglia e le legna.

Fu appiccato fuoco a due mucchi, l'uno di legna, e l'altro di paglia. Questo arse in un attimo; l' altro a poco a poco menava vampa. Di che alle legna dice la paglia: Che pigre siete voi altre ! e' ci vogliono anni perchè v'accendiate. Almen io ardo subito che mi s' accosti favilla. Sì, risposero quelle; ma anco subito ti consumi. Tardi noi ci accendiamo; ma è pur tardi il nostro fuoco spento e consumato. In fatti ecco fatto cenere il gran monte di paglia, che allora s'erano ben accese le legna: e quasi l'intiero giorno durarono ardendo.

La favola mostra che gli amici leggieri presto s'accendono dell' amore d'altrui; ma presto pure il fuoco loro s'estingue: al contrario i sodi e veri son lenti ad amare; pertanto non sono facili a rimanersene.

Il medesimo, ivi.

VIII. I garofani, le rose, e le viole.

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Grandeggiavano in un giardino sopra tutti gli altri fiori i garofani e certe rose incarnatine: e schernivano certe mammolette viole, che stavansi sotto all'erba, sicchè a pena erano vedute. Noi siamo, dicevano i primi, di così lieto e vario colore, che ogni uomo e ogni donna, venendo in questo luogo a passeggiare, ci pongono gli occhi addosso e pare che non sieno mai sazii di rimirarci. E noi, dicevano le seconde, non solamente siamo ammirate, e colte con grandissima affezione, dalle giovani, le quali se ne adornano il seno; ma le nostre foglie spicciolate gittano fuori un'acqua che col suo gratissimo odore riempie tutta l'aria d' intorno. Io non so di che si possa vantare la viola, che a pena ha tanta grazia di odore, che si senta al fiuto; e non ha colore nè vistoso nè vivo come il nostro. O nobilissimi fiori, rispose la violetta gentile, ognuno ba sua qualità da natura. Voi siete fatti per essere ornamento più manifesto e più mirabile agli occhi delle genti; e io per fornire quest'umile e minuta erbetta che ho qui d'intorno, e per dar grazia e varietà a questo verde che da ogni lato mi circonda. Ogni cosa in natura è buona. Alcuna è più mirabile; ma non perciò le picciole debbono essere disprezzate.

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La morale che si può trarre da questa favola, vorrei che fosse intorno alle virtù. Alcune ve ne ha grandi e nobili, quali sono la magnanimità, la clemenza, e altre sì fatte principali che sono la maraviglia del mondo e lodate da ciascheduno. Ma queste non si possono sempre esercitare; nè ogni uomo ha opportunità di metterle in opera. All'incontro, mansuetudine, umiltà, affabilità, le può avere ognuno: e, comechè le non sieno vistose nè grandi quanto le prime, possono tuttavia essere ornamento della nostra vita cotidiana e comune; e fanno forse più bello il mondo delle altre, perchè entrano quasi in tutte le cose che vengono operate da noi. Le prime sono degne di essere allegate nell' istoria, quest' ultime di essere ben volute da tutti. Gozzi, Osservatore, parte III.

1 Cioè elle.

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