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to. E se questa non fu la. medesima tavola, simigliantissima. er' ella almeno a quella che ci descrive il giovine Filostrato nelle Imagini (596). Scherzava nella culla il bambino Ercole, quasi che si burlasse del gran cimento; e avendo preso con ambe le mani l'uno e l'altro serpente da Giunone (597) mandati, non si alterava punto nè poco in veder quivi la madre spaventata e fuori di se. Già le serpi erano distese in terra, non più ravvolte in giro, e le teste loro infrante scoprivano gli acuti denti e velenosi. Le creste erano divenute cadenti e languide sul morire, gli occhi appannali, le squame non più vivaci per la porpora e per l'oro, nè più lucenti nel moto, ma scolorite e livide. Sembrava che Almena dal primo terrore si riavesse, ma che non si fidasse ancora degli occhi propri. Imperciocchè non avendo riguardo d'esser parturiente, appariva che per la paura gettatasi a traverso una veste, si fosse tolta di letto scapigliata, gridando a mani alzate. Le cameriere, stordite mirandosi, dicean non so che l'una all' altra. I Tebani con armi alla mano erano accorsi in aiuto d' Anfitruone, il quale al primo romore, col pugnale sguainato s'era quivi tratto per intendere e vendicar l'oltraggio. Nè ben si distingueva s'era ancora atterrito od allegro. Aveva egli pronta alla vendetta la mano: raffrenavala il non vedere di chi vendicarsi, e che nello stato presente più tosto abbisognava di chi spiegasse l'oracolo. Scorgevasi appunto Tiresia (598), che vaticinando presagiva il fato del gran fanciullo il qual giacea nella culla. Era egli figurato pieno di spirito divino, e agitato dal

altre parole, quando al dei Greci e al ph dei Latini viene sostituita la f(come in ninfa); e renduto l' V, con cui nel greco è scritta la parola, piuttosto coll'i che con l'u, a quella guisa che con l'i si rende l'y dei Latini. Alcuni ancora scrivono Alcmena, più vicinamente al greco, invece di Almena, che riesce più agevole alla pronuncia e più italiano, e che è fatto come l' Almeone di Dante, invece di Alcmeone. Vedi gli Esempi di Poesia, Deser. XIII, in corrispondenza alla nota 608.

(596) Le Imagini è il titolo d'un' opera, in cui si descrive buon numero di antiche pitture. Filostrato fu nome comune a tre greci scrittori del secolo terzo dopo G. C. il più giovane de' quali scrisse, almeno in parte, l'opera indicata. Si veda la prefazione a Le pitture dei Filostrati fatte in volgare la prima volta da Filippo Mercuri con le varianti lezioni tratte da MSS. vaticani. Roma, 1828.

(597) Giunone, sorella e moglie di Giove, odiava Ercole, e tentò più volte di perderlo, perchè nato da una donna amata dal detto Giove.

(598) Tiresia, insigne indovino di Tebe.

furor profetico. Tutto ciò si rappresentava di notte: illuminando la stanza una torcia, perchè non mancassero testimoni alla battaglia di quel bambino.

CARLO DATI, Vita di Zeusi

XVII. Quadro di Apelle rappresentante
la Calunnia

Dipinse egli nella destra banda a sedere un uomo con

orecchie lunghissime, simiglianti a quelle di Mida (599), in atto di porger la mano alla Calunnia, che di lontano s' inviava verso di lui. Stavangli attorno due donnicciuole, ed erano, s'io non erro, l'Ignoranza e la Sospezione. Dall'altra parte venía la Calunnia tutta adorna e lisciata, che nel fiero aspetto e nel portamento della persona, ben palesava lo sdegno e la rabbia ch'ella chiudeva nel cuore. Portava nella sinistra una fiaccola, e con l'altra mano strascinava per la zazzera un giovane, il quale elevando le mani al cielo, chiamava ad alta voce gli Dii per testimoni della propria innocenza. Facevale scorta una figura squallida e lorda, vivace ed acuta nel guardo, nel resto, simigliantissima ad un tisico marcio; e facilmente ravvisavasi per l'Invidia. Poco meno che al pari della Calunnia eranvi alcune femmine, quasi damigelle e compagne, il cui ufficio era incitare e metter su la signora, acconciarla, abbellirla; e s' interpretava che fossero la Doppiezza e le Insidie. Dopo a tutti veniva il Pentimento, colmo di dolore, rinvolto in lacero bruno, il quale addietro volgendosi, scorgea venir da lungi la Verità, non meno allegra che modesta, nè meno modesta che bella. Con questa tavola scherzò Apelle sopra le proprie sciagure (600), mostrandosi egualmente valoroso pittore e bizzarro poeta in esprimere favolosamente i veri effetti della calunnia.

CARLO DATI, Vita d' Apelle

(599) Mida avendo stimato Apollo men valoroso nel canto che Pane, fu da quel dio punito con orecchie asinine, simbolo di sua ignoranza. Ovid. Metam. lib. XI.

(600) Apelle falsamente accusato di complicità in una congiura contra Tolomeo re d'Egitto, avrebbe senza manco perduta la vita, se uno de' congiurati non palesava e provava l'innocenza di lui.

XVIII. L'orecchia dell' uomo

L'orecchia, altra è interiore, altra esteriore. L' esteriore

non fu fabbricata dalla natura nè d'osso, nè di pura carne; ma di una cartilagine (601), foderata, come tutte l' altre membra, di pelle. Non fu ella formata d'osso, perchè, sì dura, potea facilmente infragnersi, massimamente nel posarvisi su, quando l'uomo giace. E poi, qual incomodo non avrebbe ella arrecato al dormir di lui? Nè fu parimente formata di pura carne, perchè non avrebbe potuto ritener sempre la sua giusta figura, quale si ricercava e per la bellezza del volto, e per la bontà dell' udito, dove ogni alterazione è di grave sconcio.

In mezzo ell' ha un piccolo foro, il cui uso men nobile è ripurgare il celabro (602) dalla bile. E pure questo medesimo fu grand' arte; perchè quell' umore amaro ed appiccaticcio che colà piove, vaglia a trattenere ogni piccolo animaletto che per quel foro s'insinui dentro l'orecchio, o vaglia a scacciarlo.

Tortuosa, oltre a questo, è la via di entrarvi; e ciò perchè l'aria, commossa da qualche suono troppo impetuoso.. non offenda l'orecchia interna, percotendola tutta di primo colpo. E si termina detta via a quel che chiamano timpano dell'udito, che è una membrana gentilissima ed asciuttissima, soda, e tesa a un circolo d'osso, come appunto la pelle sta sul tamburo. È gentilissima affinchè sia sensibile ad ogni piccola vibrazione di aria che porti suono. È asciuttissima affinchè sia sonora: altrimenti, come sarebbe sonora essendo umidiccia? Ed è soda e tesa, affinchè si risenta a qualunque tremore, ma non s'infranga.

Nella superficie esteriore di questo timpano v'è un nervettino tirato come una corda; e nell'interiore, tre ossetti, chiamati stapede (603), ancudine e maglio, dalla figura che hanno, e insieme dall'uso. Il quale è, che il timpano, mosso da quel tremore che, in propagarsi nell'aria, produce il suo

(604) Diconsi cartilagini quelle parti del corpo umano che tengono una qualità di mezzo tra la durezza delle ossa e la mollezza delle carni.

(602) Oggi cerebro da cui derivò l'altra parola, mutata la r in 7 (vedi Deser. XI, n. 575) e l'e in a (vedi Narr. II, n. 200). (605) Stapede, più italianamente staffa.

no; comunichi un tal tremore a quegli ossicelli, e per essi lo renda sensibile ai nervi attaccati, e pei nervi al celabro.

Quindi è che di tali ossicelli fu con mistero il numero parimente e la qualità. La qualità, perchè se non fossero stati ossi, ma nervi; o lenti, non avrebbono riportato il suono a ragione; o tesi, l'avrebbono, con le loro ondazioni, raddoppiato a un tratto e confuso. Il numero, perchè se non erano più ossi ma uno; questo, per la sua lunghezza e sottilità, si saria di leggieri potuto rompere. Che però fra mille osservazioni stupende che di vantaggio potrebbono da noi farsi in sì bella fabbrica, basti questa; ed è, che essendo nei bambinelli di latte, poc' anzi nati, tutte le ossa tenere e tutte le membrane tenere e molli; quelle membrane e quegli ossetti che servono all'udito, son, per contrario, non meno duri ed asciutti che negli adulti. Altrimenti tutti nascerebbono sordi.

SEGNERI, Incredulo senza scusa, P. I, cap. XVI, §. II.

NATURE E RITRATTI

DI UOMINI ILLUSTRI (604)

1. Dante All i g h i er i

Nell' anno 1321, del (605) mese di luglio, si morì Dante

nella città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d'ambasceria da Vinegia (606) in servigio dei signori di Polenta (607) con cui dimorava; e in Ravenna dinanzi alla porta della chiesa maggiore fu seppellito a grande onore (608) in abito di poeta e di gran filosofo. Morío (609) in esilio

(604) Usano gli storici descrivere l' indole, o come oggi con greca voce suol dirsi, il carattere delle principali persone di cui parlano, o nel prendere a esporre i loro fatti, o dopo aver dato la loro morte, o altrove che meglio lor torni. Danno anche talvolta una breve contezza della vita di qualche va lentuomo che loro avvenga di nominare. Il che si usa eziandio in altre scritture, quando si stimi bene di far conoscere coloro, dei quali abbiamo occasione di far parola. Massimamente poi gli scrittori di vite, o come oggi alcuni, pur grecizzando, amano dire, i biografi, e gli scrittori di elogi, ti danno, per lo più sulla fine, come un ritratto dei costumi, e spesso ancora delle fattezze di quelli, onde ragionano. Verità, sustanziosa brevità, consonanza alle narrate azioni (delle quali dee la descrizion dei costumi esser quasi uno stillato) sono le principali doti di questo scrivere. Ne vedemmo due brevi esempi anche in fine alle Narrazioni XX e XXVI.

(603) Del mese di luglio. Nota il tempo in genitivo. Del mese d'agosto, del mese di ottobre, ha il Crescenzio in due luoghi allegati nelle giunte al Cinonio, cap. 85, 3. 18. Potea omettersi ancora la voce mese, dicendo semplicemente di luglio, di agosto, di ottobre, come ivi si vede, cap. 82, 8. 25. Il Casa disse: de' suoi di, secondo che vedemmo nella Narr. XIX, facc. 99, linea 44.

(606) Vinegia, oggi in prosa più comunemente Venezia. Circa lo scambio dell' e per i, vedi Fav. XV, n. 452. Anche fra lo z e il gè parentela, come si vede qui; e nelle parole servizio e servigio, prezzo e pregio, carezzare e careggiare, e in altre, alcune delle quali indica il Salviati (Avvert. t. 2. facc. 264, ediz. Cl. Mil.).

(607) Guido Novello da Polenta signor di Ravenna. Vedi le Notizie in fine agli Esempi di Poesia.

(608) A grande onore. Qui l'a indica modo, ed equivale a con. Vedi il Cinonio, cap. 1, 3. 7.

(609) Morio, cioè, morì. Vedi Narr. I, nota 181. Vedi anche il Bartoli, Ortogr. cap. VII, §. 4.

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