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vità e austerità singolare; ma però nella conversazione era piacevole ed ameno, quantunque non fosse gran parlatore. Era oltremodo compassionevole e aborriva il rigore, tutto pieghevole alla misericordia e indulgenza. Tutto dedito agli studi, consumò tutta la sua gioventù su i libri, senza prendersi mai alcun divertimento; ma nell'età più matura, pel grande affaticamento di testa, non isfuggiva quei divertimenti che vedeva necessari per ristorare la mente dalle continue fatiche. Fisso l'avresti veduto, e quasi sempre pensoso e ruminante (669) col cervello; e quando era solo, se non leggeva, pensava fissamente e discorreva seco stesso; e spesso sì fattamente si profondava nel pensiero, che nè osservava nè vedeva le cose esterne. E perchè molte volte i medici nelle sue indisposizioni l'avvertivano che s'astenesse dai libri, egli rispondeva, che s'affaticava la testa assai meno a leggere, che a star solo senza leggere. ANTON MARIA SALVINI, vita di Benedetto Averani

XII. Eustachio Manfredi (670)

Fu generalmente d'animo quieto e tranquillo, non tanto

perchè naturalmente il fosse, quanto perchè si ostinava a voler esserlo (671). I dolori della pietra sostenne con una generosità da non credersi. Così ne ragionava, come se d'altrui fossero, non suoi. Ed in quel tempo che ne sentiva l'atrocità, non lasciava di entrare in ragionamenti allegri, da' quali soltanto soprasedea, quanto il dolore lo premea più crudelmente; e come questo rimetteva (non fosse ciò stato che per quattro o cinque minuti) così tornava egli tosto al discorso incominciato, e talvolta anche alle facezie. Quando i dolori poi rallentandosi a poco a poco mostravano voler concedergli un intervallo più lungo, restituivasi

(669) Ruminare propriamente dicesi del bue e degli altri animali che dal primo stomaco (detto dai latini rumen o ruma) richiamano alla bocca il cibo già inghiottito, per masticarlo di nuovo. Metaforicamente usasi per pensare seco stesso una cosa, richiamarsela ed aggirarsela nella mente.

(670) Eustachio Manfredi bolognese, fu uomo valentissimo nella scienza degli astri e delle acque, e nella poesia. Nacque il 1674, morì il 1759.

(674) Quell' il avanti a fosse e quel lo in fine di esserlo (che secondo alcuni val tale, secondo me val ciò, come presso a poco negli Esempi di Poesia, n. 175) è da alcuni valen tuomini disapprovato. Vedi il Vannetti, Osservaz. ad Orazio, t. 2, n. 73, facc. 266, ediz. 1792.

immantinente alle fatiche intraprese. Così valendosi di queste pause, mise all'ordine molte opere.

Essendo ancor giovane amò di bere e mangiar con gli amici, che erano per lo più suoi eguali, dotti e costumati. Liberale e splendido, quanto le sue sostanze il permettevano; rettissimo in ogni contratto ed azion sua per così fatto modo, che per esser sicuro di non dar meno di quel che dovea, dava spesso assai più. Cortese ed affabile oltre ogni credere. Sè stesso e le cose sue stimò sempre pochissimo; all' incontrario non fu mai persona nè così giovane, nè così inesperta, il cui giudicio egli non mostrasse di apprezzar molto. Nimicissimo del contradire, sostenea più volentieri la noia di udire gli errori altrui, che di contrastargli. Però era compiacentissimo, nè si trovò persona che avendo ragionato seco pur una volta, non lo amasse grandemente. Avendo in sommo aborrimento le cerimonie e que'minuti convenevoli che oggidì si usano con tanta superstizione, non fu però chi gli osservasse più di lui: volendo anzi far forza a se medesimo, che mettersi a pericolo di far dispiacere ad altri. Però non può credersi quanta molestia gli dessero le visite illustri che sovente gli erano fatte, da forestieri massimamente, che andavano a lui sol per conoscerlo. Fu compassionevole oltre modo, nè gli sofferiva l'animo di render male a chi che fosse; intanto (672) che essendo egli aggregato al numero di quelli che per ufficio di carità confortano i rei condotti al supplicio, ed essendo per ogni altra ragione attissimo a ciò, appena però (673) che potesse farlo poche volte, nè senza fastidio: laonde s'avea già fermato nell'animo di non più avventurarvisi. Ne' doveri del cristiano cattolico fu esattissimo, ed avendo congiunta sempre alle lettere una certa umiltà ch'è poco comune ai dotti, parve essere in ciò più che dotto; siccome l'intrepidezza con cui sostenne l'ultima sua malattia, parve esser maggiore, che da filosofo. Fu ben disposto della persona, di statura traente al piccolo, grasso, di color vermiglio, di occhi vivi, di volto allegro, benchè talvolta pensoso e dimostrante altezza d'ingegno.

FR. M. ZANOTTI, Elogio di Eustachio Manfredi

(672) Intanto che. Vedi la nota 650.

(675) Appena che vale, appena è che. È modo anche dal Corticelli notato, lib. 2, cap. 47, dove parla dell' Ellissi. Dà esempi anche il Cinonio capitolo XXIX, 2. 5.

I. Marco Antonio Flaminio a Monsignor Galeazzo
Florimonte Vescovo d' Aquino (675)

Ghi dimostra che una sua epistola in versi latini non può dirsi
mancar di bellezza e di spirito poetico, perchè la materia
di quella sia trita, e comuni siano i concetti

L'invettiva fatta da V. S. contra de' miei versi, non è bastante di farmi fare contra di lei lo scazzonte (676) ch'ella desidera; perchè io non sono tanto innamorato delle mie composizioni, che m'adiri contro di coloro che non le approvino. E meritamente; perchè se a me non piacciono alcune composizioni di poeti famosissimi, come sarebbe a dir d'Orazio, di Catullo e di Properzio: perchè mi dovería (677) parer strano che le mie dispiacessero altrui? E certamente son stato in dubbio, se dovessi rispondere alle obiezioni che mi fate; e volentieri mi sarei taciuto, se non avessi sospicato (678) ciò nascer da una superbia occulta, la

(674) Vuoi tu scriver lettere? Fingi che colui, al quale vuoi scrivere, sia presente, e che tu a voce gli dia quella notizia, gli raccomandi quella persona, gli chieda quella grazia, gli faccia quella riprensione; in somma, gli parli di quell' affare, di che scrivere gli vuoi; e così come gli parleresti, gli scrivi. Scherzeresti tu? E tu gli scrivi scherzando. Gli useresti rispettose parole? E tu rispettosamente gli scrivi. Gli parleresti col cuor sulle labbra? Ela tua scrittura sia calda di quell'affetto. Tanto più la lettera è da pregiare, quanto più è imagine del familiare discorso salvo (già s'intende) quella maggior nettezza di modi che a chi scrive è dato meglio di conseguire, che a chi parla. Brevi, giusti e sustanziosi precetti di scriver lettere ha dato Gianfrancesco Rambelli in un libretto di poche pagine, ma di non poco pregio.

(675) Sebbene alquanto lunghetta, ho voluto qui collocare questa lettera, sì perchè di giudiziose e utili avvertenze è ripiena, sì perchè ci dà un bell'esempio di ben distribuire e condurre una trattazione. La raccomando caldamente a' miei giovani leggitori.

(676) Scazzonte, componimento scritto in versi scazzonti. Di questa specie di versi parla il Porretti, prosod. tratt. III.

(677) Doveria, o dovria, cioè dovrebbe. Queste forme in ia dell' imperfetto del soggiuntivo, oggi in prosa sono usate meno che in antico; ma bene e con parsimonia adoperate possono tuttavia piacere.

(678) 'Sospicato, oggi più comunemente, sospettato.

quale non si curasse che i miei versi fossero biasimati da voi, essendo stati lodati da uomini, i quali ragionevolmente sono più atti a giudicar di così fatte cose, che non siete voi. Le obiezioni son queste : che la materia è trita, e senza invenzione, e detta senza spirito poetico. Quanto alla prima parte rispondo, che parimente dovete biasimare i poemi d' Omero, di Sofocle e d'Euripide, perchè la guerra troiana e le fabule trattate da questi tragici, erano tutte materie vulgatissime e notissime agli uomini de'tempi loro. Ma, per dar qualche esempio di poemi brevi e più conformi al mio; che direte voi della prima ode d' Orazio, la quale da ognuno è tenuta bellissima? Non vi pare che quella materia sia molto trita e commune? Chi è tanto grosso e materiale che non abbia impresso nel suo animo e non sappia per la cotidiana esperienza, che nella vita umana sono diverse professioni? attendendo altri agli onori della republica, altri alla mercanzia, altri all' agricoltura, ec. In quell'altra ode tanto bella, fatta per la morte di Quintilio, che cosa trovate voi, quanto alla materia ed all' invenzione, che non abbia del trito e del commune? Lodando Quintilio, dice che egli era modesto, fedele, giusto e verace. Confortando Virgilio alla pazienza, dice che, quantunque egli fosse un altro Orfeo, non potría ritornare il morto in vita. E conclude, la pazienza esser il rimedio delle tribolazioni. A me pareno tutte queste cose molto communi e trite, e così credo che parranno ancora a voi. Ma se volessi addurre tutti gli esempi de' poeti eccellentissimi greci e latini che mi sovvengono a questo proposito, empirei parecchi fogli.

Or vengo alla seconda parte; perchè potreste dire che un poema può essere eccellente, tuttochè la materia sia trita e commune: ma non sarà già eccellente, se quella materia non sarà ornata di concetti rari, arguti, esquisiti, e lontani dalla commune intelligenza. A questo rispondo, che quando ciò fosse vero, Ovidio, Stazio, Marziale, Claudiano e molti altri simili, sariano poeti più eccellenti d' Omero, d' Esiodo, di Teocrito, di Virgilio, di Catullo, di Tibullo e degli altri simili. E per venire al particolare; Omero ne' suoi poemi, ed Ovidio nelle Metamorfosi, fanno parlar molte persone. Or fate per vostra fede il paragone, e vedrete che Omero non fa loro dir quasi mai concetti che non siano tolti dall'uso commune; di maniera ch' ogni mediocre ingegno non

teme d'affermare, che anco esso in quelle materie sapría senza difficultà trovar così fatte sentenze. Per contrario in Ovidio trovarete materie trattate con invenzioni tanto ingegnose, sottili e lontane dalla capacità commune, che eziandio un bello ingegno è costretto di confessare che egli con grandissima fatica potría in quelle materie trovar così fatti concetti. Paragonate l'elegie del medesimo Ovidio con quelle di Tibullo, e se vorrete dar la sentenza in favor di colui che usa concetti più rari e men communi, sarete sforzato a preporre tanto Ovidio a Tibullo, quanto Tibullo è preposto a Ovidio da tutti coloro che s'intendono di poesia. Nè credo io che Omero e gli altri poeti principali siano caminati per questa via diversa dagli altri poeti inferiori, per difetto d'ingegno e d'invenzione, ma piuttosto per abbondanza di giudicio; come quei che sapevano, il poema tanto più dilettare, quanto ha più del dolce e del vago, e quanto più imita la natura; di che fa professione il poeta: ed insieme conoscevano, queste virtù poetiche dilettarsi più di concetti conformi all'uso commune, che di sensi arguti e straordinari. E che ciò sia vero, ditemi per vostra fede, quando leggete in Catullo quello endacasillabo: Lugete, o Veneres, Cupidinesque, o quell'altro: Acmen Septimius suos amores, o quell'altro: Miser Catulle, desinas ineptire; non vi sentite voi liquefare il core di dolcezza? nondimeno non trovate in questi versi, sensi reconditi e sottili; anzi sono tutti simplicissimi e naturali. Se io volessi distendermi in questa materia, potrei fare un giusto volume; e forse lo farei, se non avessi la mente occupata in pensieri diversissimi: ma per ora quello ch' io ho detto, vi potrà bastare. Aggiungendo, che quantunque il modo di trattar le materie, come le tratta communemente Omero e gli altri poeti principali, parrà più facile di quello che usano i poeti inferiori, i quali affettano d'ostentare il loro ingegno, e di dir concetti rari ed inauditi, nondimeno è tutto il contrario. E. si verifica in questo proposito maravigliosamente quella sentenza d'Orazio:

Ex noto fictum carmen sequar: ut sibi quivis
Speret idem; sudet multum, frustraque laboret

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