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seriva di sua testa. All' incontro, quando vedi ch' egli mi s'accosta malinconico, che pare che gli caschino le ginocchia, mal volentieri, e che prende la penna in mano, e guardando allo insù o mordendosi le dita, la intinge in me. è comincia lento lento a scrivere, sappi ch' egli allora non detta col suo cervello, ma col mio.

L. Io credeva ch'egli scherzasse; ma dovea dire da buon senno, quando lo sentii a proferire qualche volta: calamaio, scrivi tu, perch'io non saprei che dettare.

C. Lo diceva con tutto il cuore certamente. Anzi verrà un dì, ch' io voglio che fra lui e me facciamo la divisione di quanto ha scritto egli e di quanto ho scritto io, perchè ciascuno abbia la sua parte dell'onore ch'egli merita. L. Che! vuoi tu ancora stampare forse le cose tue? C. Chi sa?

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L. E credi tu che tocchino a te tanti componimenti della parte tua, che tu ne possa formare un libro?

C. Anzi cred' io che ne toccherà più a me, che a lui. Tutti miei e di mia ragione, senza che il suo cervello v'abbia punto parte, sono i sonetti e le canzoni ch'egli ha fatti, comandato, per monache, per nozze o per dottori novelli; chè se non era io che glieli avessi dettati, egli non sapeva dove s'avesse il capo. Sicchè eccomi in punto un canzoniere; nè di suo altro gli rimane, fuorchè certe carte di sonetti amorosi, ne' quali egli pose veramente tutto il suo cuore e l'ingegno.

L. E delle prose, come n' avrai tu buona quantità?

C. Poche, perchè nè egli nè io insino a qui ce ne siamo dilettati molto; quand' io non volessi far valere le mie ragioni sopra alcune lettere, ch' egli a suo dispetto scrisse, delle faccende di casa sua a qualche avvocato o a qualche fattore, delle quali, per verità, non si può dire ch'egli n'abbia mai dettata una riga, ma sempre m'ha lasciato fare a modo mio, perchè le corrispondenze con altrui, circa gl' interessi suoi, le ha sempre lasciate al calamaio. Oltre di questo, tu ci vedesti tempo fa a tradurre in prosa parecchie delle commedie di Plauto, e di queste n' ha volgarizzata egli una parte, e una parte è mia: sicchè s'egli non si risolverà a tradurle tutte da se, o a lasciarmi indietro la mia parte, non consentirò mai ch'egli le dia fuori, quando non iscrivesse nel proemio che le sono fatiche tan

to sue quanto mie; chè allora mi contenterei ch'egli le pubblicasse.

L. In questo ti do ragione: egli non ha da farsi bello delle tue fatiche.

C. Tu la intendi da vera amica; e s' egli credesse mai che fosse tempo da stamparle col nome suo, digli un poco da te, che sarebbe meglio che tu le ardessi: è se puoi, ardile. L. Basta ch' egli me le accosti.

C. Perchè più presto che non aver io quell' onore che mi si conviene, mi contento che vada a rovina ogni cosa. L. Tu saresti però il primo calamaio che avesse stampate le opere sue.

C. Eh tu non sai, e perciò parli in tal forma. Sappi che se mai fu un tempo, nel quale i calamaj stampassero, egli è oggidì. Che credi tu, perchè vedi tanti libri coi nomi degli autori, ch'essi gli abbiano veramente dettati? Sai tu quanti non sanno dove s'abbiano il capo, e scrivono perchè il calamaio detta? e poi mettono il proprio nome e stampano? Oh, non mi far dire....

L. Se t'ho mai servito, se tu credi ch' io ti possa mai giovare, dimmene qualche paio di que' libri che sono componimenti di calamaj e non di teste d' uomini.

C. Tu mi stuzzichi, e io n' ho voglia. Accostati. Vedi qua questo: esaminiamolo. Ma tu ti vai molto oscurando. L. Oimè!

C. Oh tu rabbuj molto!

L. Oimè!

C. Che hai tu? io non ti posso veder dentro.

L. La troppa voglia ch' io avea di ragionar teco, non mi lasciava vedere che mi vien manco l'olio affatto. Vedi ch'io mi spengo

C. Sorella, buona notte: a domanisera, chè sarai rifornita d'olio e ti tornerà la vita in corpo.

L. Addio.

C. Addio.

Io ebbi quasi soddisfazione che la lucerna si spegnesse, perch'essi andavano avanti col ragionamento troppo arditamente, e avrebbero forse dette di quelle cose che non le dicono gli speziali, e chi sa sopra a qual libro sarebbe caduto il giudizio loro. Basta; chè quando ebbero finito di cinguettare, m' addormentai; e stamattina levatomi, ritrovai

la lettera, e raccapezzai fra me e il calamaio il dialogo ch'egli ebbe con la Lucerna la notte, e l'una e l'altra cosa vi mando acciocchè veggiate che il mio calamaio non è un'oca. Amatemi, e state sano (765).

GASPARO GOZZI

(765) Dirò qui, poichè la voce calamaio me l'ha fatto venire in mente, che alcuni in questa ed altre simili voci pongono l'i lungo, ossia j, scrivendo, calamajo, Troja ec. perchè in simiglianti parole l'i ha della consonante. Ma della consonante ha pure in fiducia, astuzia e simili (anzi alcuni dicono tal i consonante, come lo Zanotti, quale ne' suoi Elementi di Gramatica Volgare dà per esempio già, giù, giusto) e nondimeno da niuno viene sustituito 'j. Ne pare che possa dirsi utilmente che in fiducia, astuzia, già ec. l'i si sente meno che in calamaio, Troia ec. poichè se ciò avviene, è perchè in quelle parole il suono dell' i si accompagna e si mescola con quello della precedente consonante, cioè del c in fiducia, della z in astuzia, del g in già ec. Così in prato, platano ec. il suono della r e della si unisce al suono del p; e per questo vorremo scriverle diversamente da quando hanno il semplice loro suono, come in rota, leggere ec.? E se in latino, dove fiducia differiva assai più da Troia (quella parola terminando in un dattilo, e questa no) distinzione di lettere non si facea; perchè farla nell' italiano? E poi calamaio, Troia e simili, se si mandino fuori come fiducia, astuzia ec. vale a dire, appoggiando l'i, come si deve, sulla seguente vocale) che vantaggio acquistano dall' j, che già non l'abbiamo coll' i? Finalmente per tacer d'altro, l'j non è nel nostro alfabeto lettera molto antica. Molti pertanto lo sbandiscono affatto. Altri lo vogliono sempre, perchè ormai è si comune, che alcuni, forse di quelli che gli son nemici, dovranno per iscrivere Iacopo, iattanza, Troia, rifletter bene anch' essi, e non ostante verrà loro forse messo talvolta l'j invece dell' i. Altri ammettono l'j in fine di parola, nei plurali di alcuni di que' nomi che nel singolare hanno avanti alla vocale finale un i non accentuato, come in principj, plurale di principio. E taluni sono si accaniti a volere che si scriva così, che tempo fa udii uno di cotestoro dare con larga bocca del somaro a chi invece avea scritto principii. S' intende che l'ortografia debba essere diligente; ma perchè, anche per queste minuzie, debban nascere le fazioni, non s' intende. Del resto principii è scritto da moltissimi anche dei più diligenti; ed è naturalmente il plurale di principio, mutato l'o in i, come si fa negli altri nomi che in o hanno il singolare; e quel dabben uomo non dovea sapere che l'j propriamente non è che una doppia i, e che però quel principii valea per l'appunto quanto il suo principj. Quando per altro l'i che precede l'o finale, è accentuato, ossia fa sillaba da se; i grammatici, che io mi sappia, sono tutti d'accordo (rara cosa!) nel volere che si mettano due i; e in fatti l'j non inchiude l'accento. V' ha poi di quelli che nel plurale non vogliono si scriva nè avversarii o avversarj, nè varii o varj, nè sazii o sazj ec. ma avversari, vari, sazi, ec. tolto via il secondo i o espresso o implicito, perchè nella pronunzia non si sente. E quando può fare equivoco, come in principi, martiri, che possono essere il plurale si di principe e martire e sì di principio e martirio; scrivono il plurale di principio e martirio così: principi o principi o principî; martiri o martiri o martiri. Scrivono desidèri o desidéri o desideri, per distinguerlo

dal verbo; e così va discorrendo. Questo modo non è da molti approvato; ma io dirò ciò che il Bartoli, Ortogr. cap. II, 2. 4, n. 3 dice ad altro proposito: faccial chi vuole, e non perciò lascerà d'esser buono scrittore. Quanto al resto, siccome ciascun modo ha buoni scrittori dalla sua; potremo tener quello che più ci attalenta. Il suddetto Bartoli, op. cit. cap. XI, 2. 2. nel mentre che agli altri lascia una discreta libertà, indica il modo ch' egli soleva tenere; e parmi, come in pressochè tutte le altre sue cose, aggiustatissimo.

1. Si dimostra falsa l'opinione di coloro che affermano esser l'arte in poesia del tutto vana (767)

I。 vorrei che quelli i quali negano essere in poesia arte veruna, pensasser prima bene a quello che intender voglian per arte. Nel che parmi che la maggior parte di loro s' ingannino; perchè molti si credono, che qualora si dice arte, non altro possa o debba intendersi, se non che una dottrina composta di regole e precetti determinati e certi, i quali messi in opera, venga ad essere il lavoro compitissimo, nè più si cerchi alla sua somma perfezione; a guisa che veggiamo essere l'aritmetica, la quale consiste in precetti di sommare e sottrar numeri, e dividergli, e moltiplicargli; e son que' precetti così stabiliti e così certi, che può ognuno intendergli et (768) osservargli, sicuro che osser

(766) Didascalico, è una voce greca, derivante dal verbo didάonw, insegno; e perciò stile didascalico importa stile precettivo, o instrultivo, o insegnativo: la quale ultima parola usarono il Giambullari, Carlo Dati e il Pallavicino. Alcuni dicono ancora didattico, voce pur greea; ma ignoro se scrittore approvato mai l' adoperasse. Questa forma di stile è di uso, direi quasi, più generale e ordinario d'ogni altra. Chiunque voglia scrivere in una scienza, o dar pareri nella sua professione, o far relazioni in un impiego, di questo stile abbisogna. La stessa eloquenza forense (particolarmente nelle materie civili) deve oggi per ordinario avere più di questa maniera, che dell' oratoria. Anco la religione (eecettochè quando parla solennemente dai pergami) conversa co' suoi fedeli per lo più in questo stile. E pure in molte scuole di rettorica è il meno che si coltivi, e i giovani per lo più vengono in tal guisa istruiti, come se tutti dovessero un giorno essere predicatori. Ho procurato che la più parte degli esempi che io darò di questa maniera, trattino del bello scrivere; perchè i giovinetti (oltre che avranno cose alla loro intelligenza proporzionate) trovino in uno stesso pezzo e buoni esempi di scrivere e buoni precetti. Chiarezza somma: per lo più semplicità: netta favella, e (chi sappia farlo} occulta eleganza; ecco le principali doti dello stile didascalico.

(767) Considerino bene i giovani le belle e savie avvertenze in questo capitoletto contenute, le quali, non per la poesia sola, ma per la prosa e per le arti belle possono assai giovare. E nelle poche parole che qui se ne dice, non s' intende meglio la natura e la importanza dei così detti luoghi oratorii, che da quanto ne dicono le rettoriche?

(768) Circa l' et invece di ed, vedi Narr. VII, nota 244.

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