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quella storia in tal modo gli s' impresse nell' anima, che di continuo il dì e la notte la meditava, e in questo fisso pensiere il grazioso Dio gli toceò il cuore in modo che incominciò a disprezzare le cose di questo mondo, e non essere di quelle tanto sollecito, anzi a fare il contrario di quello che era usato. Imperocchè in prima era sì tenace che rare volte faceva limosina, nè voleva che in casa sua si facesse; e per cupidità, ne' suoi pagamenti s'ingegnava di levare qualche cosa dal patto fatto; ma dopo la detta salutifera lezione, per vendicarsi (292) della sua avarizia, dava spesso due cotanti (293) di elemosina che gli era addimandato; e a chi gli vendeva, pagava più danari che non dovea avere; e così incominciò a frequentare le chiese, digiunare spesso, a darsi all'orazione, e altre opere divote. BELCARI, Vita del B. Colombini

XII. Morte di Suembaldo re de' MoraviTM (294)

Suembaldo, nella grandissima selva Ercinia (295) divenuto fuggiasco e povero, e cibandosi di erbe e di pomi; dopo alcune giornate, si incontrò in tre eremiti: con i quali accompagnatosi egli per quarto, senza altrimenti manifestarsi, pacientissimamente (296) sostenne tutto lo insulto della

292) Per vendicarsi, per castigarsi, far vendetta di se, come vedemnio far giustizia di se nella narraz. VII, n. 254.

(293) Due cotanti, cioè due volte cotanto ossia il doppio. Così può dirsi tre cotanti, dieci cotanti, cento cotanti ec. Anche due tanti, tre tanti, cento tanti ec. cioè due volte tanto ec. sono buoni modi. Invece di cotanti e di tanti potrebbe dirsi anche cotanto e tanto indeclinabilmente. (Vedi il Cinonio col Lamberti eap. 69, 2. 7, e cap. 250, 8. 26). Ma perchè sono modi insoliti, non debbono già adoperarsi sempre a preferenza dei soliti, come da alcuni vediamo fare: che anzi ai contrario debbono i modi soliti per regola generale preferirsi agl' insoliti.

(294) Tra Arnolfo figlio di Carlemanno, dichiarato re di Germania l'anno 887, e Suembaldo re, o come altri lo dicono, duca della Moravia, fu guerra feroce, perchè questi si ricusò di pagare un censo che a quello si dovca; e la cosa terminò colla sconfitta di Suembaldo, che se ne fuggì sconosciuto e fece poi la fine descritta in questo passo. Al regno della Moravia fu da Arnolfo chiamato il figlio del vinto re, sotto il solito censo della corona. Altri invece di Suembaldo, scrivono Swentebaldo o Zwentebaldo: altri lo dicono Zwenteboldo o Zwendeboldo: altri Sinibaldo: altri altramente.

(295) Ercinia, grandissima foresta in Germania descritta da Cesare de B. G. lib. 6, num. 24. Ciò che oggi ne rimane, si chiama Selva nera. (296) Oggi dirai pazientissimamente. Anche la voce pacienza, rimasta in contado, fu de' classici. Le lettere cez si scambiarono spesso tra loro, onde

fortuna sino all' ultimo dì della morte. Alla quale sentendosi egli molto vicino, chiamati a se i compagni suoi, tutto giocondo, disse così: Voi non avete sin qui saputo, amici e fratelli miei, chi io mi sia, e donde venuto. Sappiate che io sono Suembaldo re de' Moravi: che in una battaglia grandissima rotto e vinto già da Arnolfo re di Germania, me ne venni alla solitudine. E avendo esperimentato in me lungamente la inquieta vita de' grandi, e la quietissima de pri vati, lieto e contento mubio al presente nella solinga e romita casa di questa santa selva dolcissima. Alla tranquillità della quale non si avvicina in maniera alcuna, qual si voglia real grandezza, o bonaccia della fortuna (297). Qui almeno il sonno sicuro fa parere saporite le radici strane delle erbe, e dolci l'acque delle fontane. Quivi (298) i pericoli sempre e le cure fanno amarissimo il vino el cibo. Quel tempo che tra voi sono vivuto, sono vivuto certo beato; e tutto quel che io vissi nel regno, fu più tosto morte che vita. Sepeliretemi in questo luogo; e andandovene al mio figliuolo, se per sorte e' fusse ancor vivo, gli direte tutto il successo. Perdonatemi, fratelli miei, e pregate per me il Signore, che non mi conti a peccato quel che io ho falto. Questo appena potette esprimere di maniera che e'fusse inteso; e andonne a quell'altra vita. I romiti, come e’vo

beneficio e benefizio, giudicio e giudizio con molte altre simili; specie e spezie; socio e sozio (voce di cui oggi molti abusano sino alla ridicolezza); prenze e prence; presentuzzo e presentuccio; mercè e merzè; dolciore e dolzore; pulcella e pulzella; francese e franzese ec.

(297) Alla tranquillità della quale non si avvicina ec. Vuol dire che il più gran re, che l'uomo più fortunato di questo mondo (bonaccia della fortuna) non se ne sta così bene, come chi mena la tranquilla vita di quel romitaggio. Non si avvicina. Bada bene: vuol dire non è da paragonarsi; minore. Il più gran re, l'uomo più fortunato del mondo, non istà eosì bene, come il tranquillo abitatore di quel romitaggio.

(298) Quivi, cioè nella real grandezza o bonaccia della fortuna. Al qui anche il Boccaccio contrapose il quivi, significando col primo il luogo dove è chi parla, e col secondo il luogo, dove egli non è. Si veda il primo esempio dato dal Cinonio in Quivi. Perciò non solo arbitrariamente, ma eziandio inopportunamente le edizioni moderne in questo luogo del Giambullari mutarono il Quivi della prima edizione (Venezia, 1566) in laddove. Ancora di detta prima edizione è di poi il sepeliretemi (col p la scempi) invece del seppelliretemi (con quelle lettere addoppiate) delle moderne stampe: di che vedi gli Esempi di Poesia, nota 97 bis, Narr. III.

leva, manifestando tutto al figliuolo, fecero chiara la morle sua (298 bis).

Stellero

GIAMBULLARI, Istoria dell' Europa, lib. I.

XIII. Combattimento fra Ubaldo e un
Bavaro (299)

tettero gli eserciti a riscontro l'uno dell' altro circa a tre settimane o meglio (300), senza mai venire alle mani, salvo che in piccole scaramucce. Con le quali tentandosi pure qualche volta, accadde che un cavaliero Bavaro dello esercito di Suembaldo (301), assuefattosi a chiamare ogni giorno gli Italiani, poltroni, e dappochi (302) nel maneggiare i cavalli da guerra; per non avere trovato chi sino a quivi gli rispondesse, si aveva preso molto più animo che le sue forze non comportavano. Per il che (303) presumendo molto di se medesimo, fece impeto un dì negli Spule

(298) bis) Osserva la nobile semplicità di questo scrivere, la sua, dirò cosi, pastosità, la nascosta eleganza. Quanta quiete nelle parole di Suembalde, imagine viva della quiete del suo animo.!

(299) Berengario figlio di Eberardo duca del Friuli, e Guido duca di Spoleti e di Camerino si contrastavano il regno d'Italia. L'anno 893 il primo, fatto forte d'un poderoso esercito dal re Arnolfo (nominato nella precedente narrazione) si era condotto alla volta di Pavia, dov'era l'altro; ma o fosse per i provedimenti presi da questo o per altra ragione, non si venne tosto a combattere.

(500) O meglio, cioè o più. Oggi in questo significato, se non sia usato con senno, può dar luogo a dubbiezza.

(504) Suembaldo non è il re nominato nella narrazione precedente, ma un figlio di Arnolfo che, per averlo tenuto al battesimo (secondo che dice il nostro storico) lo scacciato re de' Moravi, si chiamava egli ancora Suembaldo. Esso era alla testa dell' esercito venuto in soccorso di Berengario.

(502) Dappochi, cioè di poco pregio, di poco valore. Non è che il mode da poco o dappoco, declinato a guisa d' aggettivo: di che altro esempio hai alla Descr. XH, n. 482. Riferito a femina si disse da poca o dappoca. Ma si usa ancora indeclinabilmente da poco o dappoco: anzi questo è il modo primitivo. Di qui anche doppocamente e dappochissimo (notati dal Lamberti nelle giunte al Cinonio) dappocaggine, dappocaccio ec.

(303) Per il che e per lo che in significato di per la qual cosa, non sono (checchè altri dica) modi da riprendere, come dimostrai nel mio prime discorso Del soverchio rigor de' grammatici: anzi oggi possono alcuna volta meglio convenire di perchè, o il perchè, usati in questo senso dagli antichi. E con ciò non voglio dire che anche questi due ultimi modi, adoperati a tempo e a luogo, non possano star bene anch' oggi. Aggiungerò che alcuni invece di perchè, congiunzione illativa, scrivono per che, a fine di far differenza da perchè, congiunzione causale.

tini del re Guido, e tolto l'asta (304) di mano a uno, si tornò salvo alla banda sua. Di questo atto gloriandosi i Bavari sopra modo, e con essi tutto lo esercito di Suembaldo, e dispregiandone gli Italiani, non potè sopportarlo Ubaldo, padre di quel Bonifazio, che negli anni seguenti fu fatto marchese di Camerino. Anzi per recuperare lo onore della Italia, imbracciato lo scudo, e sospinto il cavallo nel fiume (305), chiamò il Bavaro ad alte voci, e drizzossi alla volta sua. Il Bavaro dall' altra banda, superbo dello onore acquistato, lo ricevette in sulla riva, e correndoli subito incontro, quando fu vicino al colpirlo, volse le redini al suo cavallo; non per paura già che egli avesse, nè per altro sinistro (306) sopravvenutogli, ma perchè, tenendosi buon maestro di questo giuoco, voleva ferire lo avversario senza pericolo di se medesimo, pensandosi che nel maneggiare il cavallo a più bande (307), e nello scherzargli quasi d'intorno con infinite ruote e ritrosi (308), gli venisse fatto una volta di potergli colpire le spalle. Ma Ubaldo, che deliberatamente correva per combattere da cavaliero, e non per gioco di armeggería, sollicitando il suo con gli sproni, anzi cacciandolo con maggior fretta che quell' altro non si pensava, gli fu così tosto a dosso con la punta della sua lancia, che avanti che e' si volgesse, gli passò per le reni il cuore; e racquistato (309) il cavallo di quello, e pigliatolo per le redini, se lo tirò dietro nella fiumara (310) dove lasciando il cavaliere morto, ritornò lieto con la vittoria, e

(304) Tolto l'asta. Vedi Fav. XXV, nota 171.

(305) Tra i due eserciti era il fiume Tesino, o Ticino.

(306) Sinistro, disgrazia, accidente infausto: voce, secondo alcuni, derivata da questo, che le cose fatte colla mano sinistra, mal riescono; secondo altri, presa da quegli augurii che da sinistra erano stimati malavventurosi. Vedi il Forcellini in sinister 2. 6, ed in laevus 2. 9.

(507) Maneggiare il cavallo a più bande, pare che voglia dire, farlo girare in modo da combattere ora da una banda del cavallo, ora dall' altra, ossia ora da un lato, ora dall' altro.

(308) Ritrosi, dal latino retro, rigiramenti, rivolte. Qui è sustantivo. Si usa anche aggettivamente, per opposto, contrario, e di qui l'avverbio a ritroso. Il Muratori negli Annali d'Italia, narrando questo fatto, si serve qui del verbo caracollare che significa appunto, volteggiar col cavallo; e dicesi anche far caracolli.

(309) Bacquistato, raggiunto.

(310) Nella fumara, nell' acqua del fiume, forse più grossa del solito per le palizzate fatte da Guido a sua difesa. Ma vedi lo Stile Orat. nota 850.

con gran festa fu ricevuto. Questa battaglia, se bene ella fu di duoi (311) solamente, accrebbe tanto lo ardire e l'audacia nello esercito del re Guido, e ne tolse tanto a'nimici, che i Germani consigliatisi tra loro medesimi, accettate non so che paghe, se ne tornarono di là dall' Alpi, e Berengario con esso loro, sì (312) per non rimanere in preda allo emolo suo, come per commovere nuovamente lo imperadore (313) alla abbandonata impresa d'Italia.

GIAMBULLARI, Ist. cit. lib. I.

XIV. Romano Lacapeno uccide un leone

Romano Lacapeno era nato in Armenia d'una stirpe si bassa e vile, e oltre a questo, cotanto povera, che nessuno arebbe (314) creduto nai, non solamente che e' dovesse un di venire a lo (315) imperio, ma nè avere ancora luogo alcuno nella corte, se non forse a'servigi vili e convenienti ad un contadino. Ma la fortuna che il più delle vol

(511) Duoi, due. A torto il Caro (Lettere, t. 2, facc. 152, edizione d'Aldo) ebbe duoi per voce non buona. Oggi per altro non è più in uso. Vedi la nota 243, Narrazione IV.

re..

(312) Osserva questo si con la corrispondenza di come, alla maniera che i Latini usavano cum corrisposto da tum, o tum corrisposto da un altro tum. Si poteva ancora, invece di come, ripetere il sì, dicendo: si per non rimanesi per commovere; ed anche porre dinanzi a questo secondo si, ur e, dicendo e si per commovere (Cinonio cap. 240, 8.9). Ma porre invece di quel come un che, secondo che oggi comunemente si usa, vuolsi per alcuni che sia errore. La lettera XVI di s. Antonino, pubblicata dal Biscioni fra le Lettere di Santi e Beati Fiorentini, avrebbe, secondo le stampe, verso il principio: provvedere ai bisogni nostri si spirituali che temporali. Ma fatto da me riscontrare nella pubblica libreria di Siena il manoscritto da cui quella lettera fu tratta, dice veramente: provedere a' bisogni vostri, e più spirituali che temporali. E così pare è in altro codice della medesima Biblioteca.

(313) Lo imperadore, cioè Arnolfo.

(314) Arebbe, cioè avrebbe. Dei modi arò, arai ec. arei, aresti ec. per avrò, avrai ec. avrei, avresti ec. sono pieni i classici. Non vo' dire per questo che tu debba oggi averli in delizie.

(515) A lo. È il segnacaso separato dall' articolo. Ciò usarono gli antichi. Nella Storia de' Santi Barlaam e Giosaffatte si ha di l'altro, invece di dell'altro. Il segnacaso di fu poi (per la parentela fra l'i e l'e di cui Fav. XV. nota 152) cambiato in de avanti all' articolo: onde nel più antico testo del Decamerone (g. 4, n. 2) si legge de il mio corpo invece di del mio corpo. Più spesso trovasi de lo, a lo, da lo ec. che pure alcuni recenti poeti hanno usato. Ma la prosa oggi adopera dello, allo ec. avendo più riguardo alla pronunzia che alla origine di queste voci. V. Repertorio alla voce ARTICOLI.

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