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SONETTO XXXIV.

In morte della stessa.

Era venuta nella mente mia

La gentil donna, che per suo valore
Fu posta dall' altissimo Signore
Nel ciel dell' umiltade ov'è Maria.

Amor, che nella mente la sentia,
S'era svegliato nel distrutto core;
E diceva a' sospiri : Andate fore,
Perchè ciascun dolente sen partia.

Piangendo uscivan fuori del mio petto
Con una voce che sovente mena

Le lacrime dogliose agli occhi tristi.

Ma quelli che n'uscian con maggior pena, Venian dicendo: O nobile intelletto,

Oggi fa l'anno che nel ciel salisti.

DANTE.

SONETTO XXXV.

La provvidenza di Dio.

Qual madre i figli con pietoso affetto

Mira e d'amor si strugge a lor davante,
E un bacia in fronte ed un si stringe al petto,
Uno tien sui ginocchi, un sulle piante :

E mentre agli atti, al gemito, all'aspetto
Lor voglie intende sì diverse e tante,
A questi un guardo, a quei dispensa un detto
E se ride o s' adira, è sempre amante;

Tal per noi Provvidenza, alta, infinita
Veglia e questi conforta e quei provvede
E tutti ascolta e porge a tutti aita!

E se niega talor grazia o mercede,
O niega sol perchè a pregar ne invita,
O negar finge e nel negar concede.

FILICAJA.

SONETTO XXXVI.

All' Italia.

Italia, Italia o tu cui feo la sorte
Dono infelice di bellezza, ond' hai
Funesta dote d'infiniti guai,

Che in fronte scritti per gran doglia porte;

Deh, fossi tu men bella o almen più forte,
Onde assai più ti paventasse, o assai
T'amasse men chi del tuo bello a' rai
Par che si strugga e pur ti sfida a morte !

Chè giù dall' Alpi non vedrei torrenti
Scender d'armati, nè di sangue tinta
Bever l'onda del Po gallici armenti;

Nè te vedrei del non tuo ferro cinta
Pugnar col braccio di straniere genti;
Per servir sempre o vincitrice o vinta.

FILICAJA.

SONETTO XXXVII.

Per sentenza contro la lingua latina.

Te nutrice alle muse, ospite e dea,
Le barbariche genti che ti han doma,
Nomavan tutte; e questo a noi pur fea
Lieve la varia, antiqua, infame soma :

Che se i tuoi vizi e gli anni a sorte rea
Ti han morto il senno ed il valor di Roma,
In te vivea il gran dir che avvolgea
Regali allori alla servil tua chioma.

Or ardi, Italia, al tuo genio ancor queste
Reliquie estreme di cotanto impero ;
Anzi il toscano tuo parlar celeste,

Ognor più stempra nel sermon straniero;
Onde, più che di tua divisa veste,
Sia il vincitor di tua barbarie altero.

FOSCOLO.

SONETTO XXXVIII.

Sogno di Bruto.

Alla notturna visïon si scosse

Di Porcia il cittadin sposo guerriero,
A cui larva feral nunzia del vero
Lo stoico petto di terror commosse.

Ma poi che d' ira lampeggianti e rosse

Fuor del sembiante orribilmente nero Volse a Bruto le luci e in atto altero Contro a lui l'allungata ombra si mosse ;

Ti ravviso, ei gridò: tu altrove un giorno Già mel dicesti che temer dovrei

Qui nei campi d' Emazia il tuo ritorno.

Non m' erge nel vederti orror la chioma
Se a me del mio morir nunzia tu sei;
Pavento sol se porti stragi a Roma.

FOSSATI.

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