ORL. INNAM. CANTO XXXVII.
Lasciate Orlando in quel tempo malvagio; Non seguitate la sua mala sorte: Fuggir fi vuol la moleftia, e 'l disagio, E finalmente il mal fin a la morte. Benchè lo ftento a lui tornaffe in agio, (Perchè vince ogni cosa l'uom ch'è forte) Tiriamci dentro in riposo al coperto, Ch' altra volta il trarrem di quel deserto.
Fine del Canto trentefimofettimo.
Come Dio volse e la sua sorte buona, Volgendo il viso quella Fata al Conte, La prese per la treccia de la fronte.
DE l'effenzia e poflanza di costei
Che fugge innanzi al Conte disputare, E d'altri omeri soma, che da' miei, E per la barca mia troppo gran mare; Nel qual se pur entraffi, non potrei Se non con quelle ftelle e venti andare Ch' anno condotto tanti marinari, A cui non son garzon, non ch'io fia pari.
Fato fortuna predestinazione, Sorte caso ventura, son di quelle Cose che dan gran noja a le persone, E vi fi dicon su di gran novelle. Ma in fine Iddio d'ogni cosa è padrone: E chi è savio domina a le ftelle; Chi non è savio paziente e forte, Lamentifi di se, non de la sorte.
Onde ascoltate il mio ftolto configlio, Voi che di corte seguite la traccia : S'a la ventura non date di piglio, Ella fi sdegna, e volta in là la faccia. Convien tener alzato ben il ciglio, E non temer di viso che minaccia, E chiuder ben l'orecchie al dir d'altrui, Servendo sempre e non guardando a cui.
Perch'è la colpa a la fortuna data, Che, se pure ell'è sua, è noftro il danno? Il tempo buono vien una sol fiata, Poi la stagione è sempre del mal anno. Sendo dianzi Morgana addormentata, Onde poteva tofto uscir d'affanno, Non seppe darle il Senator di mano; Ed or la segue pel deserto invano
Con tanta pena, e con tanta fatica, Che va come pel mare un legno a l'orza. Fugge la Fata che par sua nimica ;
A le sue spalle il vento ognor rinforza ; E'l mal che fa non accade ch'io dica: L'erbe e gli arbori spianta, non pur scorza :* Fuggon le fiere sbigottite in caccia,
par ch'il cielo in pioggia fi disfaccia. VI.
Ne l'aspro monte fra valloni ombroft Condotto è'l Conte in perigliofi passi: Calan foffati groffi e rovinosi,
E menan giù le ripe, non che i saffi: Pe' boschi folti scuri e tenebrofi Sentonfi alti romori e gran fracaffi; Perchè il vento la rabbia e la tempesta Da la radice schianta la foresta .
Orlando segue, e poco se né cura: Pigliar la vuol, se n'andaffe la vita; Ma cresce sempremaí la sua sciagura. Ecco una donna d'una grotta uscita Pallida e magra più che la paura, E di color di terra era veftita. Con una disciplina fi frustava: Sempre la carne due dita s'alzava.
Piagnendo fi batteva, proprio come Se per giuftizia fuffe condennata Qualche trifta a portar le degne some Da un conoscitor de le peccata .
Turboffi Orlando, e domandò il suo nome: Penitenzia, diss' ella, io son chiamata, Nimica d'ogni bene; e per natura Seguo chi non conosce la ventura
E però vengo a farti compagnia, Perchè colei lasciafti in su quel prato : E quanto durerà la mala via, Da me sarai battuto e flagellato : Nè ardir ti varrà nè gagliardia, Se non sarai di pazienzia armato Rispose tofto il figliuol di Milone : La pazienzia è pafto da poltrone.
Non ti venga penfier di farmi oltraggio; Che per lo vero Dio ch'io ti deserto. Son pure affatigato d'avvantaggio: Ajutami piuttosto; e n'arai merto: Fammi la scorta per lo ftran viaggio, Dov'io cammino, e per quefto deserto. Così diceva Orlando; ma Morgana Da lui tuttavia fugge e s'allontana.
« IndietroContinua » |