Immagini della pagina
PDF
ePub

,

parte dei libri del destino; cioè che si conservavano coi libri greci sul Campidoglio e sotto la sorveglianza dei Duumviri, al pari delle predizioni etrusche della Ninfa Bigoe e delle predizioni indigene dei Marsi (339) come pur quelle d'Albuna o d' Albunea di Tiburi (340) e non so che molte altre del medesimo genere. Tutti questi erano libri del destino e pare che tutte le città greche ne avessero. Diffatti ci si parla di quelli di Veja perchè facevano dipendere la sorte di Roma e di Veja dal corso del lago d' Alba. Se fu quel1 Albunea, annoverata fra le sibille, che consigliò d' ingannare il destino rispetto la promessa fatta ai Greci ed ai Galli, della possessione del suolo romano, se fu Albunea che disse di usare come s'era fatto a Brindisi rispetto i deputati d' Arpi (341), lo sbaglio di Plutarco può trovar qualche scusa.

Forse nei primi tempi della Grecia tutte le città aveano cotali predizioni sia che venissero da una Sibilla, da an Baci o da altri profeti; e si custodivano nell' Acropoli nella parte più sacra del tempio come usarono i Pisistrati, e dopo loro i popoli Ateniesi. In questo pure si scorge una coincidenza originale fra le istituzioni romane e quelle di Grecia. Coincidenza che fu oscurata quando ognuna delle due nazioni, ma molto più prima la greca cominciò a svolgere con forza le particolarità del carattere nazionale. Niun popolo italico aveva di quei vivi oracoli come quelli dei Greci in cui la divinità si appalesa a quelli che l' interrogano per la bocca d'un inspirato; perciò questi popoli si rimettevano a Delfo. Presso gli Apuli sul Gargano si frova un uso greco che se ne accosta, traendo le rivelazioni dall' addormentarsi nel tempio dopo il sacrificio.

Le profezie romane erano chiuse ai particolari; quelli

che intercedevano l'aiuto delle potenze superiori andavano

a

Preneste nel tempio della Fortuna, Dea che presiede alla direzione che danno gli Dei agli accidenti della vita, e che si faceva derivare dalla strada tracciata a ciascuno dal proprio destino e dal proprio essere dal primo suo nascere, destino che prolungava o accelerava la strada trovandosi il destino di ciascun coordinato in possibilità generali e molto più estese della natura, come una possibilità individuale. Le sorti di Preneste erano piccioli bastoni o assicelle di quercia che portavano degli antichi caratteri incisi si dice che un prenestino obbedendo ad uno spaventevole sogno li trovò nell' intimo d' uno scoglio che ruppe al posto indicato. Queste tavolette o bastoni erano scompigliati da un garzoncello e tratti da colui che consultava l'oracolo (342). Ciò ricorda le bacchette runiche; e così fatte sorti si ritrovano forse in parecchi per non dire in molti luoghi (543). Si parla di quelle di Cere a proposito del prodigio di una considerabile diminuzione di volume ciò che fece, che senza che la mano dell' uomo vi fosse per nulla, si dispiccò un oracolo. Gli oracoli d' Albunea erano scritti sopra somiglianti materie, poichè furono rinvenuti nel letto del fiume.

L'espulsione dei re era celebrata ogni anno al 24 febbraio con una festa nominata Regifugio o Fugalia. A ciò si riferisce, l'indicazione di Dionigi (344), il quale asserisce che per terminar l'anno doveano decorrere ancora quattro mesi. Approssimazione calcolata sul calendario attico il primo mese del quale si addatta ora più ora meno a quello di luglio, approssimazione che si trae altresì dall'ipotesi che una tal festa avesse luogo in un giorno storicamente determinato. Nulladimeno i suoi vincoli colle

feste Terminali a cui tien dietro immediatamente, ne conduce a pensare che un tal giorno fosse unicamente scelto in conformità a delle idee simboliche.

COMMENTARIO SULLA TRADIZIONE RELATIVA
ALL'ULTIMO TARQUINIO,

Ho recata la storia dello splendore e della caduta dels l'ultimo re senza alcun ornamento, come si sarà trovata scritta in quei semplici annali la di cui aridità pareva, movere la coscienza di Cicerone, e mosse quella di Tito Livio ad ornare splendidamente la storia di Roma. Ciò che poteva essere armonico in uno storico indigeno e poetico sarebbe disaddatto in un' opera scritta 1800 anni più `tardi da un critico e da un straniero. Il suo debito è di riconfermare la vecchia tradizione, rannodando delle cose che ci furono tramandate disperse, e che si trascurarono nel racconto classico che divenne dominante; e suo debito è pure di sceverarla dalle dotte arguzie, onde fu travolta dall' erudizione. La vita e i colori che si possono dare a questo racconto stanno specialmente a riporre in qualche chiarezza i tratti dell' antico poema disperso. Se ci fosse rimasto una qualche semplice relazione di Fabio o di Gatone, mi sarei contentato a tradurla aggiungendo e connettendo i resti di altre relazioni; avrei insomma aggiunto un commentario come quello che scrivo al presente di mio proprio testo.

Quanto è certo che Roma possedeva dei libri sibillini senza che si possa dire chi li scrisse, o che si possa dire altra cosa se non che la Sibilla è d'invenzione poetica,

altrettanto è in dubbio che Tarquinio il tiranno abbia vissuto e che fosse l' ultimo re di Roma. E' in pari tempo sopra le forze della critica il voler penetrare più oltre ed ingeguarsi di separare il poema nella storia; la sola cosa possibile si è dimostrare ciò che è. Per verità quando si considera questa storia indipendentemente dalla determinazione degli anni, fatta dai pontefici per Tarquinio Prisco e per Servio, le più notabili impossibilità cronologiche dispaiono in parte. Ma se non è credibile che Bruto sia il figlio della figlia del primo Tarquinio, non per questo resta dall' esser meno un viluppo d'assurdità ciò che d'altronde si racconta di lui. Uno spazio di regno più lungo dei 25 anni che gli sono assegnati non si saprebbe riclamare pel secondo Tarquinio, nè dai difensori del carattere storico di questa narrazione, nè da una critica non preoccupata. Ma come si può dunque. conciliare che Bruto sia an fanciullo nel principio di questo regno, mentre in suk fine è padre di giovani che cospirano cogli esigliati ?

Il detto di Dionigi ch' erano appena usciti dall' infanzia non è che una alterazione di mala fede e senza ri sultato. D'altronde come avrebbe potuto colui che era tenuto per imbecille essere il rappresentante del re obbligato a degli uffici sacerdotali, e godere del diritto di convocare i cittadini? Uno che fosse stato investito d'una simile dignità, è egli possibile che non fosse stato padrone della propria fortuna !

In opposizione ai due storici che risguardano la sommissione del Lazio come l'opera della persuasione, Cicerone dice che fu soggiogato dalle armi (345). Per una discrepanza non men grande non nomina fra gli Etruschi che i soli Vejenti che abbiano voluto ricondurre l' Esule

alla testa d' un' armata (346); di modo che è un'alterazione che ha mescolati i Tarquinii in questa guerra, pel motivo senza dubbio che i banditi non avrebbero cercato, e non avrebbero trovato in un' altra parte un più pronto soccorso che nella loro pretesa patria.

L'emigrazione di Tarquinio a Cere affatto isolata dalle guerre che seguono appartiene ai libri di diritto sacerdotale; e non vi sta che per illustrare l'origine dell' isopolitia o reciprocità dei diritti civili.

La narrazione relativa a Sesto ed ai Gabi è costituita senza alcuna nuova invenzione da due racconti di Erodoto ben conosciuti. Nè può essere per nulla che Gabio sia caduto in potere del re per tradimento; se ciò fosse vero io non direi soltanto che niun tiranno, ma che nessun potentato dell'antichità non avrebbe mai concessa ai Gabi l'isopolitia, e non avrebbe risparmiato ad essi il flagello

della guerra, come narra Dionigi che facesse Tarqui

pio (347). Ora la concessione dell' isopolitia si trovava nel trattato conchiuso coi Gabi, trattato che ai tempi di Dionigi si leggeva ancora nel tempio di Dio Fidio; era dipinto sopra uno scudo guernito colla pelle di un toro immolato nel sacrificio celebratosi per l'alleanza (348); la semplice esistenza di un trattato possibile dopo una capitolazione respinge l'idea dell' occupazione violenta della

città.

Le spoglie che aiutarono Tarquinio alla costruzione del Campidoglio il decimo del bottino di Pomezia) erano stimate da Fabio a quaranta talenti (349). Altri, e specialmente Pisone risguardarono il totale di cui questa somma era il decimo, cioè quattrocento talenti o quaranta mille lire d'argento, come non fosse che il decimo, quasi che gl' altri nove decimi fossero stati abbandonati ai sol

« IndietroContinua »