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tini e de' greci, ma eziandio de' nostri, che sebbene maestri ottimi nell'arte dello scrivere, e fonti perenni di civile dottrina, pure a quando a quando menano acque torbide, come può tornare ad esempio quel miracolo di scrittore Niccolò Macchiavelli. Il quale alcuna volta reca in mezzo al cristianesimo l'elemento pagano; e sebbene conoscitore sommo dell'uman cuore tutti ne manifesti i mali, niente di manco non fa sempre del medico, non imparando a mettervi i buoni rimedj; anzi pare che qualche fiata ne mostri le pestifere piaghe con intendimento che, per timore del contagio, si cerchi la rovina di chi le porta. Laonde non di rado avviene che chi ha alle mani le faccende pubbliche si studi, con le astuzie da lui imparate, di prendersi giuoco d' altri, che pure stanno in aguato per pigliare a gabbo l'ingannatore, e spesso accade che l'arte è dall'arte schernita. Così gli uomini, guardandosi l'un l'altro con finti sembianti, moltiplicano la mala fede, che genera discordia, e manda a male ogni bene delle civili comunanze. Già chi tiene le cime dell'umana dottrina, se dall'un de 'lati fa grandissimo benefizio alla comune famiglia, dall' altro non di rado qualche danno

produce, per que'piccoli errori o vizj, ne’quali, per imperfezione di natura, cadono anche i sommi uomini, e che, per la riverenza che loro si porta, si prendono per verità non poche fiate, e per virtù. Anche la via da altri fatta per venire al conoscimento del vero, la quale a chi vi si mette la prima volta, riesce lunga, intralciata e di fatica, suole per lo più essere altrui di qualche impedimento all' andare innanzi; da poichè, credendosi per avventura che sia la più facile, non dà il cuore di lasciarla per altra, forse più breve e piana. Il Leinnizio, una delle più chiare luci non pure della Germania, ma di tutt' Europa, come in altro, così ancora, e molto più, nella carriera delle matematiche, menò già le scuole a più gloriosa meta. Ma gli alemanni, suoi primi discepoli, a cagione della stima, che tutto il mondo gli ha, avendo camminato lunga pezza con le pastoje per la sua via, non mandarono così avanti le dette scienze, come altri, i quali con più diritto animo si giovarono del suo chiarissimo lume.

§. 33. Mi fo anche le maraviglie che gli scrittori in politica non tengano gran conto della virtù della natia favella, che mantiene

e cresce le materne usanze con ricchezza ed onore della patria. Gli antichi romani, molto savi di senno naturale, non parlavano, nè scrivevano che in loro lingua; dove oggidì gl'italiani parlano e scrivono in francese, in inglese, e così di lingua in lingua saranno finalmente costretti pervenire alla biscaina, dove non si potrà poi andare più là. Ma ripulivano la propria favella per istare più in su le loro, e non stimavano manco l'arrecare in quella qualche bell' opera, che sottoporre all'imperio loro qualche città, o qualche regno. E che questo sia il vero, tengasi l'invito che fa il Gelli di leggere il proemio di Boezio nella sua traduzione de' predicamenti d'Aristotile, dove ei dice che, essendo uomo consolare e non atto alla guerra, cercherebbe d'istruire i suoi cittadini con la dottrina, e che non sperava di meritar manco, nè essere meno utile a quelli insegnando loro le arti della greca sapienza, che coloro, i quali avevano sottoposto con la forza qualche città, o qualche provincia all'imperio romano. Tiberio Cesare, diligente custode della purezza della latiną favella, temendo che una parola, da lui in un editto usata, non sentisse troppo del greco, man

dò per consiglio a' grammatici, chiedendoli d'una voce latina, che bene stesse in luogo suo. Atejo Capitone, che aveva per costume di parlargli a grado, del qual vizio fu vituperato da Tacito, risposegli che era in podestà del principe d' usar pure a sua posta la voce greca. Pomponio Marcello, che andava per la maggiore tra' più chiari grammatici, gli disse: Cesare, tu puoi dare la cittadinanza cui più ti è a grado, ma alle parole non mai. I greci similmente stettero molto saldi alla loro bellissima lingua, anche quando furono vinti da' romani, e mai non vollero scrivere in latino i decreti del senato, nè le cause, nè i processi; acciocchè, perduto per forza l'imperio, non perdessero anche l'amore delle consuetudini loro proprie, e non cadessero eziandio con l'animo in signoria de'conquistatori. Quando presso i romani la loro favella, insieme con le natie costumanze, già era uscita della stima, ed entrarono in pregio le altrui con tanto studio e amore della greca lingua, che non aveva fantesca, la quale non sapesse di greco, Roma, sebbene vincitrice della Grecia per forza d'armi, fu dalla Grecia vinta per virtù della favella. Per la qual cosa gli acca

demici fiorentini, conservando intatto il ricco patrimonio del volgare idioma, fecero, e più ancora faranno, perchè ne cresce il bisogno, un officio molto caritatevole alla comune madre, e loro sempre ne tornerà quell'onore e merito, che si dee a savi legislatori. Imperocchè siccome eglino sono andati col lume della sapienza riducendo a brevi e chiare formule le umane consuetudini, acciocchè non si guastassero e meglio servissero di regola a'cresciuti popoli; così gli accademici, raccolte le nette voci e puri modi, formarono con ottimo accorgimento il codice della lingua secondo l'uso massimamente degli antichi, i quali così scrissero, come il popolo parlava. Fu però gran peccato quello di coloro, che invece di sapere ogni buon grado all'accademia di tante fatiche, levarono forte voce di biasimo per alcune colpe, nelle quali danno di leggieri anche i maestri solenni, massime nel principio della loro carriera. Ma non badarono che, per la licenza della censura, altri, che vogliono cessare da sè ogni studio e fatica, avrebbero preso baldanza di scrivere alla libera guastando la purità della lingua; la cui confusione, più che qualunque altra cosa, divide

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