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una estrema necessità, si verrà ad adempiere i disegni suoi, e farlo della sua intenzione godere; ma se si manterranno le genti in Lombardia, ed in Toscana si provvegga come si può, ei s'avvedrà tardi del suo malvagio partito, ed in tempo ch'egli avrà senza rimedio perduto in Lombardia, e non vinto in Toscana. Detta adunque e replicata da ciascuno la sua opinione, si conchiuse che si stesse a veder qualche giorno per vedere questo accordo de' Malatesti con Niccolò quello partorisse; e se di Pietro Giampagolo i Fiorentini si potevano valere, e se il papa andava di buone gambe con la lega, come gli aveva promesso. Fatta questa conclusione, pochi giorni appresso furono certificati, i Malatesti aver fatto quello accordo più per timore che per alcuna malvagia cagione, e Pietro Giampagolo esserne ito con le sue genti verso Toscana, ed il papa essere di miglior voglia per aiutare la lega che prima. I quali avvisi fecero fermar l'animo al conte, e fu contento rimanere in Lombardia, e Neri Capponi tornasse a Firenze con mille dei suoi cavalli, e con cinquecento degli altri. E se pure le cose procedessero in modo in Toscana, che l'opera del conte vi fusse necessaria, che si scrivesse, e che allora il conte senz'alcun rispetto si partisse. Arrivò pertanto Neri con queste genti in Firenze d'aprile, ed il medesimo di giunse Giampagolo.

Niccolò Piccinino in questo mezzo, ferme le cose di Romagna, disegnava di scendere in Toscana; e volendo passare per le Alpi di S. Benedetto, e per la valle di Montone, trovò quelli luoghi per la virtù di Niccolò da Pisa in modo guardati, che giudicò che vano sarebbe da quella parte ogni suo sforzo. E perchè i Fiorentini in questo assalto subito erano mal provvisti e di soldati e di capi, avevano ai passi di quelle Alpi mandati più loro cittadini con fanterie di subito fatte a guardargli; intra i quali fu' messer Bartolommeo Orlandini cavaliere, al quale fu in guardia il castel di Marradi e il passo di quelle Alpi consegnato. Non avendo dunque Niccolò Piccinino giudicato di poter superare il passo di S. Benedetto per la virtù di chi lo guardava, giudicò di poter vincere quello di Marradi per la viltà di chi l'aveva a difendere. È Marradi un castello posto a piè delle Alpi che dividono la Toscana dalla Romagna, ma da quella parte

che guarda verso Romagna, e nel principio di Val di Lamona; e benchè sia senza mura, nondimeno il fiume, i monti e gli abitatori lo fanno forte, perchè gli uomini sono armigeri e fedeli, ed il fiume in modo ha roso il terreno, ed ha si alte le grotte sue, che a venirvi di verso la valle è impossibile, qualunque volta un piccol ponte che è sopra il fiume fusse difeso, e dalla parte dei monti sono le ripe si aspre, che rendono quel sito sicurissimo. Nondimeno la viltà di messer Bartolommeo rendè e quelli uomini vili e quel sito debolissimo. Perchè non prima ei senti il rumor delle genti inimiche, che lasciato ogni cosa in abbandono, con tutti i suoi se ne fuggì, nè si fermò prima che al Borgo a S. Lorenzo. Niccolò entrato nei luoghi abbandonati, pieno di meraviglia che non fussero difesi, e d'allegrezza d'avergli acquistati, scese in Mugello, dove occupò alcune castella, ed a Puliciano fermò il suo esercito, donde scorreva tutto il paese infino ai monti di Fiesole; e fu tanto audace che passò Arno, e infino a tre miglia propinquo a Firenze predò e scorse ogni cosa.

I Fiorentini dall' altra parte non si sbigottirono; e prima che ogni altra cosa, attesero a tener fermo il governo, del quale potevano poco dubitare per la benivolenza che Cosimo aveva nel popolo; e per aver ristretti i primi magistrati intra pochi potenti, i quali con la severità loro tenevano fermo, se pure alcuno vi fosse stato mal contento, o di nuove cose desideroso. Sapevano ancora per gli accordi fatti in Lombardia, con quali forze tornava Neri, e dal papa aspettavano le gente sue; la quale speranza infino alla tornata di Neri li tenne vivi. Il quale trovata la città in questi disordini e paure, deliberò uscire in campagna, per frenare in parte Niccolò che liberamente non saccheggiasse il paese, e fatto testa di più fanti tutti del popolo, con quella cavalleria si trovavano, uscì fuori, e riprese Remole che tenevano i nemici, dove accampatosi proibiva a Niccolò lo scorrere, ed ai cittadini dava speranza di levargli il nimico d'intorno. Niccolò, veduto come i Fiorentini quando erano spogliati di genti non avevano fatto alcun movimento, e inteso con quanta sicurtà in quella città si stava, gli pareva invano consumare il tempo, e deliberò fare altre imprese, acciò che i Fiorentini avessero cagione di mandargli dietro le genti, e dargli occasione

di venire alla giornata, la qual vincendo, pensava che ogni altra cosa gli succedesse prospera.

Era nell' esercito di Niccolò Francesco conte di Poppi, il quale si era, 'come i nemici furono in Mugello, ribellato dai Fiorentini, con i quali era în lega. E benchè prima i Fiorentini ne dubitassero, per farselo con i beneficj amico gli accrebbero la provvisione, e sopra futte le loro terre a lui convicine lo fecero commissario. Nondimeno, tanto può negli uamini l'amor della parte, che alcuno beneficio nè alcuna paura gli potê far sdimenticare l'affezione portava a messer Rinaldo, ed agli altri che nello stato primo governavano; tanto che subito ch' egli intese Niccolò esser propinquo, s' accostò con lui, e con ogni sollecitadine lo confortava discostarsi dalla città, ed a passare in Casentino, mostrandogli la fortezza del paese, e con quale sicurtà poteva di quivi tenere stretti i nimici. Prese pertanto Niccolò questo consiglio, e giunto in Casentino occupó Romena e Bibbiena: dipoi pose il campo a Castel S. Niccolò. È questo castello posto à pie delle Alpi che dividono il Casentino da Val d'Arno; e per essere in luogo assai rilevato, e dentrovi sufficienti guardie, fu difficile la sua espugnazione, ancora che Niccolò con briccole e simili artiglierie continuamente lo combattesse. Era durato questo assedio più di venti giorni, infra il qual tempo i Fiorentini 'avevano tutte le loro genti raccozzate, e di già avevano sotto più condottieri tremila cavalli a Fegghine ragunati, governati da Pietro Giam pagolo capitano, e da Nerî Capponi e Bernardo 'de' Medici commissarj. A costoro vennero quattro mandati da Castel S. Niccolò a pregarli dovessero loro dare soccorso. I commissarj esaminato il sito, vedevano non gli poter soccorrere, se non per le Alpi che venivano di Val d'Arno, la sommità delle quali poteva essere occupata prima dal nimico che da loro, per avere a fare più corto cammino, e per non potersi la loro venuta celare; in modo che s' andava a tentare una cosa da non riuscire, é poterné seguire la rovina delle genti loro. Onde che i commissarj lodarono la fede di quelli, é commisero loro che quando ei non potessero più difendersi si arrendessero. Prese adunque Niccolò questo castello dopo trentadue giorni che vera ito col campo, e tanto tempo perduto per si poco acquisto fa della MACHIAVELLI

rovina della sua impresa buona parte cagione; perchè se e' si manteneva con le sue genti d'intorno a Firenze, faceva che chi governava quella città non poteva, se non con rispetto, strignere i cittadini a far danari, e con più difficultà ragunavano le genti, e facevano ogni altra provvisione, avendo il nimico addosso che discosto; e avrebbero molti avuto animo a muovere qualche accordo per assicurarsi di Niccolò con la pace, veggendo la guerra fusse per durare. Ma la voglia che il conte di Poppi aveva di vendicarsi contro a quelli castellani stati lungo tempo suoi nemici, gli fece dar quel consiglio, e Niccolò lo prese per soddisfargli; il che fu la rovina dell' uno e dell'altro. E rade volte accade che le particolari passioni non nuochino alle universali comodità. Niccolò seguitando la vittoria prese Rassina e Chiusi. In queste parti il conte di Poppi lo persuadeva a fermarsi, mostrando come e'poteva distender le sue genti tra Chiusi e Caprese, e la Pieve, e veniva a esser signore delle Alpi, e potere a sua posta in Casentino e in Val d'Arno, in Val di Chiana e in Val di Tevere scendere, ed esser presto ad ogni moto che facessero i nimici. Ma Niccolò, considerata l'asprezza dei luoghi, gli disse che i suoi ca'valli non mangiavano sassi, e n' andò al Borgo a S. Sepolcro, dove amichevolmente fu ricevuto; dal qual luogo tento gli animi di quelli di Città di Castello, i quali per esser amici ai Fiorentini non l'udirono. E desiderando egli avere i Perugini a sua devozione, con quaranta cavalli se n'andò a Perugia, dove fu ricevuto (sendo loro cittadino) amorevolmente. Ma in pochi giorni vi diventò sospetto, é tentò col legato e con i Perugini più cose, e non gliene successe niuna, tanto che ricevuto da loro ottomila ducati se ne tornò all' esercito. Di quivi tenne pratica in Cortona per torla ai Fiorentini; e per essersi scoperta la cosa prima che il tempo fusse, diventarono i disegni suoi vani. Era intra i primi cittadini di quella città Bartolommeo di Senso. Costui andando la sera per ordine del capitano alla guardia di una porta, gli fu da uno del contado suo amico fatto intendere, se non vi voleva essere morto, che non vi andasse. Volle intendere Bartolommeo il fondamento della cosa, e trovò l'ordine del trattato che si teneva con Niccolò, il che Bartolommeo per ordine al capitano rivelò, il quale assicuratosi dei capi della con

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giura, e raddoppiate le guardie alle porte, | Questa commissione venne a notizia di Niccoaspetto secondo l'ordine dato che Niccolò venisse; il quale venne di notte e al tempo ordinato, e trovandosi scoperto se ne ritornò agli alloggiamenti suoi.

Mentre che queste cose in questa maniera in Toscana si travagliavano, e con poco acquisto per le genti del duca, in Lombardia non erano quiete, ma con perdita e danno suo. Perchè il conte Francesco, come prima lo consenti il tempo, uscì con l'esercito suo in campagna; e perchè i Veneziani avevano la loro armata del lago instaurata, volle il conte, prima ch'ogni cosa, insignorirsi delle acque, e cacciare il duca del lago, giudicando, fatto questo, che le altre cose gli sariano facili. Assaltò pertanto con l'armata dei Veneziani quella del duca, e la ruppe, e con le genti di terra le castella che al duca ubbidivano prese; tanto che le altre genti ducali, che per terra strignevano Brescia, intesa quella rovina, s'allargarono, e così Brescia dopo tre anni che l' era stata assediata, dall' assedio fu libera. Appresso a questa vittoria il conte andò a trovare i nimici che s'erano ridotti a Soncino, castello posto in sul fiume dell'Oglio, e quelli diloggio, e gli fece ritirare a Cremona, dove il duca fece testa, e da quella parte i suoi stati difendeva. Ma stringendo più l'uno di che l'altro il conte, e dübitando non perdere o il tutto, o gran parte degli stati suoi, conobbe la malvagità del partito da lui preso di mandar Niccolò in Toscana; e per ricorreggere l'errore scrisse a Niccolò in quali termini si trovava, e dove erano condotte le sue imprese; pertanto il più presto potesse, lasciata la Toscana, se ne tornasse in Lombardia.

I Fiorentini in questo mezzo sotto i loro commissarj avevano ragunate le lor genti con quelle del papa, ed avevano fatto alto ad Anghiari, castello posto nelle radici dei monti che dividono Val di Tevere da Val di Chiana, discosto dal Borgo S. Sepolcro quattro miglia, via piana, ed i campi atti a ricevere cavalli, e maneggiarvisi la guerra. E perchè eglino avevano notizia delle vittorie del conte, e della rivocazione di Niccolò, giudicarono con la spada dentro e senza polvere avere vinta quella guerra; e perciò ai commissarj scrissero che s'astenessero dalla giornata, perchè Niccolò non poteva molti giorni stare in Toscana.

lò, e veggendo la necessità del partirsi, per non lasciar cosa alcuna intentata, deliberò fare la giornata, pensando di trovare i nimici sprovveduti, e col pensiero alieno della zuffa. A che era confortato da messer Rinaldo, dal conte di Poppi, e dagli altri fuorusciti fiorentini, i quali la loro manifesta rovina conoscevano se Niccolò si partiva; ma venendo a giornata credevano, o poter vincere l'impresa, o perderla onorevolmente. Fatta adunque questa deliberazione, mosse l'esercito donde era, intra città di Castello ed il Borgo, e venuto al Borgo senza che, i nimici se n'accorgessero, trasse di quella terra duemila uomini, i quali confidando nella virtù del capitano, e nelle promesse sue, desiderosi di predare lo seguirono.

Drizzatosi adunque Niccolò con le schiere in battaglia verso Anghiari, era già loro propinquo a meno di due miglia, quando da Micheletto Attendulo fu veduto un gran polverio, ed accortosi come gli erano i nemici, gridò all' arme. Il tumulto nel campo de' Fiorentini fu grande, perchè campeggiando quelli eserciti per l' ordinario senz'alcuna disciplina, vi si era aggiunta la negligenza, per parer loro avere il nimico discosto, e più disposto alla fuga che alla zuffa; in modo che ciascuno era disarmato, di lungi dagli alloggiamenti, ed in quel luogo dove volontà, o per fuggire il caldo, ch' era grande, o per seguire alcun suo diletto, l'avea tirato. Pure fu tanta la diligenza de' commissarj e del capitano, che avanti fussero arrivati i nimici, erano a cavallo, ed ordinati a poter resistere all'impeto suo. E come Micheletto fu il primo a scoprire il nimico, cosi fu il primo armato ad incontrarlo; e corse con le sue genti sopra il ponte del fiume che attraversa la strada, non molto lontano da Anghiari. E perchè davanti alla venuta į del nimico, Pietro Giampagolo aveva fatto spianar le fosse che circondavano la strada, ch'è intra il ponte e Anghiari, sendosi posto Micheletto all' incontro del ponte, Simoncino condottiere della Chiesa col legato si misero da man destra, e da sinistra i commissarj fiorentini con Pietro Giampagolo loro capitano, e le fanterie disposero da ogni parte su per la ripa del fiume. Non restava pertanto agli nimici altra via aperta ad andare a trovare gli avversarj loro, che la dritta del ponte; nè i Fiorentini ave

vano altrove che al ponte a combattere, eccetto che alle fanterie loro avevano ordinato, che se le fanterie nimiche uscivano di strada per essere a' fianchi delle loro genti d'armi, con le balestre le combattessero, acciocchè quelle non potessero ferire per fianco i loro. cavalli che passassero il ponte. Furono pertanto da Micheletto le prime genti che comparsero gagliardamente sostenute, e non che altro da quello ributtate; ma sopravvenendo Astorre e Francesco Piccinino con gente eletta, con tal impeto in Micheletto percossero, che gli tolsero il ponte, e lo pinsero per sino al cominciar dell' erta, che sale al Borgo di Anghiari; dipoi furono ributtati e ripinti fuori del ponte da quelli che dai fianchi gli assalirono. Durò questa zuffa due ore, che ora Niccolò, ora le genti fiorentine erano signori del ponte. E benchè la zuffa sopra il ponte fosse pari, nondimeno e di qua e di là dal ponte con disavvantaggio grande di Niccolò si combatteva; perchè quando le genti di Niccolò passavano il ponte, trovavano i nemici grossi, che per le spianate fatte si potevano maneggiare, e quelli che erano stracchi potevano dai freschi esser soccorsi. Ma quando le genti fiorentine lo passavano, non poteva comodamente Niccolo rinfrescare i suoi, per esser angustiato dalle fosse e dagli argini che fasciavano la strada, come intervenne, perchè molte volte le genti di Niccolò vinsero il ponte, e sempre dalle genti fresche degli avversarj furono ripinte indietro. Ma come il ponte dai Fiorentini fu vinto, talmente che le loro genti entrarono nella strada, non sendo a tempo Niccolò per la furia di chi veniva e per la incomodità del sito a rinfrescare i suoi, in modo quelli davanti con quelli di dietro si mescolarono, che l'uno disordinò l'altro, e fu costretto tutto l'esercito mettersi in volta, e ciascuno senza alcun rispetto si rifuggì verso il Borgo. I soldati fiorentini attesero alla preda, la quale fù di prigioni, d'arnesi e di cavalli grandissima, perchè con Niccolò non rifuggirono salvi che mille cavalli. I Borghigiani, i quali avevano seguitato Niccolò per predare, di predatori diventarono preda, e furono presi tutti e taglieggiati; le insegne ed i carriaggi furono tolti. E fu la vittoria molto più utile per la Toscana che dannosa per il duca: perchè se i Fiorentini perdevano la giornata, la Toscana era sua; e perdendo quello, non perdè altro che le ar

mi ed i cavalli del suo esercito, i quali con non molti danari si poterono ricuperare. Nè furono mai tempi, che la guerra che si faceva nei paesi d'altri, fusse meno pericolosa per chi la faceva che in quelli. Ed in tanta rotta e in sì lunga zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì altri che un uomo, il quale non di ferite o d'altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto espiro. Con tanta sicurtà allora gli uomini combattevano, perchè essendo tutti a cavallo, e coperti d'arme, e sicuri dalla morte, qualunque volta e' si arrendevano, non ci era cagione perchè dovessero morire, difendendogli nel combattere le armi, e quando e'non potevano più combattere, l'arrendersi.

È questa zuffa, per le cause seguite combattendo e poi, esempio grande dell' infelicità di queste guerre; perchè vinti i nimici, e ridutto Niccolò nel Borgo, i commissarj volevano seguirlo, ed in quel luogo assediarlo per aver la vittoria intera, ma da alcuno condottiere o soldato non furono voluti ubbidire, dicendo voler riporre la preda e medicare i feriti. E quello che è più notabile, fu che l' altro di a mezzo giorno, senza licenza di commissario, o di rispetto di capitano n'andarono ad Arezzo, e quivi lasciata la preda ad Anghiari ritornarono. Cosa tanto contro ad ogni lodevol ordine e ad ogni militare disciplina, che ogni reliquia di qualunque ordinato esercito avrebbe facilmente e meritamente potuto lor torre quella vittoria ch' eglino avevano immeritamente acquistata. Oltre di questo, volendo i commissarj che ritenessero gli uomini d' arme presi per torre occasione al nimico di rifarsi, contro alla volontà loro gli liberarono. Cose tutte da maravigliarsi, come in uno esercito così fatto fusse tanta virtù che sapesse vincere, e come nell'inimico fusse tanta viltà che da si disordinate genti potesse esser vinto. Nell' andare adunque e nel tornare che fecero le genti fiorentine d' Arezzo, Niccolò ebbe tempo a partirsi con le sue genti dal Borgo, e n' andò verso Romagna; col quale ancora i ribelli Fiorentini si fuggirono; i quali vedutisi mancare ogni speranza di tornare a Firenze, in più parti, in Italia e fuori, secondo la comodità di ciascuno, si divisero. Dei quali messer Rinaldo elesse la sua abitazione ad Ancona, e per guadagnarsi la celeste patria, poi che egli aveva perduta la terrestre, se n' ando al sepolcro di Cristo; donde tornato, nel cele

brare le nozze di una sua figliuola, sendo a mensa, di subito morì. E fugli in questo la fortuna favorevole, che nel meno infelice giorno del suo esilio lo fece morire. Uomo veramente in ogni fortuna onorato, ma più ancora stato sarebbe, se la fortuna l'avesse in una città unita fatto nascere; perchè molte sue qualità in una città divisa l'offesero, che in una unita l'avrebbero premiato. I commissarj adunque, tornate le genti loro d' Arezzo, e partito Nic colò, si presentarono al Borgo. I Borghesi vo7 levano darsi ai Fiorentini, e quelli ricusavano di pigliarli; e nel trattare questi accordi il le gato del pontefice insospetti dei commissarj, che non volessero quella terra occupare alla Chiesa. Tanto che vennero insieme a parole ingiuriose, e sarebbe seguito intra le genti fiorentine e le ecclesiastiche disordine, se la prat tica fusse ita molto in lungo; ma perchè ella ebbe il fine, che voleva il legato, ogni cosa si rappacificò.

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Mentre che le cose del Borgo si travagliavano, s'intese Niccolò Piccinino essere ito in verso Roma, ed altri avvisi dicevano in verso la Marca; donde parve al legato, ed alle genti sforzesche d' andar verso Perugia, per sovvenire o alla Marca o a Roma, dove Niccolò si fusse volto, e con quelle andasse Bernardo de' Medici, e Neri con le genti fiorentine n'andasse all' acquisto del Casentino. Fatta questa deliberazione, Neri n' andò a campo a Rassina, e quella, prese, e col medesimo impeto prese Bibbiena, Pratovecchio e Romena, e di quivi pose il campo a Poppi, e da due parti lo cinse, una nel piano di Certomondo, l'altra sopra il colle che passa a Fronzole. Quel conte vedutosi abbandonato da Dio e dagli uomini, s' era rinchiuso in Poppi, non perch' egli sperasse di potere avere alcuno aiuto, ma per fare lo accordo, se poteva, meno dannoso, Stringendolo pertanto Neri, egli addimandò patti, e trovògli tali, quali in quel tempo egli poteva sperare, di salvare sè, suoi figliuoli, e cose che ne poteva portare, e la terra e lo stato cedere ai Fiorentini. E quando e' capitolafono, discese sopra il ponte di Arno che passa a piè della terra, e tutto doloroso ed afflitto disse a Neri: « Se io avessi bene misurato la fortuna mia e la potenza vostra, io verrei ora amico a rallegrarmi con voi della vostra vittoria, non, nimico a supplicarvi che fusse meno grave la mia rovina. La presente sorte come ella è a

voi magnifica e licta, così è a me dolente e misera. Io ebbi cavalli, armi, sudditi, stato e ricchezza; che maraviglia è se mal volentieri le lascio? Ma se voi volete e potete comandare a tutta la Toscana, di necessità conviene che noi altri vi ubbidiamo; e se io non avessi fatto questo errore, la mia fortuna non sarebbe stata conosciuta, e la vostra, liberalità non si potrebbe conoscere; perchè se voi mi conserverete, darete al mondo uno eterno esempio, della vostra clemenza. Vinca pertanto la pietà yostra il fallo mio, e lasciate almeno questa sola casa al disceso di coloro, da' quali i padri vostri hanno innumerabili, benefiej, ricevuti. » Al quale Neri rispose, come l'avere sperato troppo in quelli che potevano poco, l'aveva fatto in modo contro alla repubblica di Firenze errare, che, aggiuntovi le condizioni de' presenti tempi, era necessario concedesse tutte le cose sue, e quelli luoghi nimico ai Fiorentini abbandonasse, che loro amico non aveva voluti tenere; perchè egli aveva dato di sè tale esempio, che non poteva essere nutrito, dove in ogni variazione di fortuna e' potesse a quella repubblica nuocere; perchè non lui, ma gli stati suoi si temevano. Ma che se nella Magna e' potesse esser principe, quella città lo desidererebbe, e per amor di quelli suoi antichi ch' egli allegava lo favorirebbe. A questo il conte tutto sdegnato rispose, che vorrebbe i Fiorentini molto più discosto vedere; e così, lasciato ogni amorevole ragionamento, il conte non veggendo altro rimedio cedè la terra e tutte le sue ragioni ai Fiorentini, e con tutte le sue robe, insieme con la moglie e con i figliuoli, piangendo si parti, dolendosi d'aver perduto uno stato che i padri suoi per quattrocento anni avevano posseduto. Queste vittorie tutte, come s' intesero a Firenze, furono da' principi del governo e da quel popolo con maravigliosa allegrezza ricevute. E perchè Bernardetto de' Medici trovò esser vano che Niccolò fusse ito verso la Marca o a Roma, se ne tornò con le sue genti dov' era Neri, ed insieme tornati a Firenze, furono loro deliberati tutti quelli onori, i quali secondo l'ordine della città ai loro vittoriosi cittadini si possono deliberar maggiori; e da'signori e da'capitani di parte, e dipoi da tutta la città furono a, uso dei trionfanti ricevuti.

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