Immagini della pagina
PDF
ePub

tesse con più autorità difendere, prima per conservatore, dipoi per capitano delle loro genti d'arme lo elessero. I grandi i quali, per le cagioni dette di sopra, vivevano malcontenti, ed avendo molti di loro conoscenza con Gualtieri, quando altre volte, in nome di Carlo, duca di Calabria, aveva governato Firenze, pensarono che fusse venuto tempo di potere con la rovina della città spegnere l'incendio loro, giudicando non avere altro modo a domare quel popolo, che gli aveva afflitti, che ridursi sotto un principe, il quale, conosciuta la virtù dell' una parte, e l' insolenza dell' altra, frenasse l'una, e l'altra rimunerasse.. A che aggiugnevano la speranza del bene che ne porgevano i meriti loro, quando per loro opera egli acquistasse il principato. Furono pertanto in segreto più volte seco, e lo persuasero a pigliare la signoria del tutto, offerendogli quelli aiuti potevano maggiori. All' autorità e conforti di costoro s' aggiunse quella di alcune famiglie popolane, le quali furono Peruzzi, Acciaiuoli, Antellesi e Buonaccorsi, i quali gravati di debiti, non potendo del loro, desideravano di quello d' altri ai debiti loro soddisfare, e con la servitù della patria, dalla servitù dei loro creditori liberarsi. Queste persuasioni accesero l'ambizioso animo del duca di maggior desiderio del dominare, e per darsi reputazione di severo e di giusto, e per quella via accrescersi grazia nella plebe, quelli che avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava, ed a messer Giovanni de' Medici, Naddo Rucellai e Guglielmo Altoviti tolse la vita, e molti in esilio e molti in danari ne condannò.

Queste esecuzioni assai i mediocri cittadini sbigoltirono, solo ai grandi ed alla plebe soddisfacevano; questa, perchè sua natura è rallegrarsi del male, quelli altri, per vedersi vendicare di tante ingiurie dai popolani ricevute. E quando e'passava per le strade con voci alte la franchezza del suo animo era lodata, e ciascuno pubblicamente a trovare le fraudi de'cittadini e gastigarle lo confortava. Era l'ufficio de' Venti venuto meno, e la riputazione del duca grande ed il timore grandissimo; tale che ciascuno, per mostrarsegli amico, la sua insegna sopra la sua casa faceva dipignere, nè gli mancava ad esser principe altro che il titolo. E parendogli poter tentare ogni cosa sicuramente, fece intendére ai signori, come ei giudicava per il bene della città

necessario gli fusse concesso la signoria libera, e perciò desiderava, poi che tutta la città vi consentiva, che loro ancora vi consentissero. I signori, avvenga che molto innanzi avessero la rovina della patria loro preveduto, tutti a questa domanda si perturbarono; e con tutto ch' ei conoscessero il loro pericolo, nondimeno, per non mancare alla patria animosamente glie ne negarono. Aveva il duca per dare di sè maggior segno di religione e di umanità eletto per sua abitazione il convento de'frati minori di S. Croce, e desideroso di dare effetto al maligno suo pensiero, fece per bando pubblicare, che tutto il popolo la mattina seguente fusse alla piazza di S. Croce davanti a lui. Questo bando sbigotti molto più i signori, che prima non avevano fatto le parole, e con quelli cittadini, i quali della patria e della libertà giudicavano amatori, si ristrinsero; nè pensarono, conosciute le forze del duca, di potervi fare altro rimedio, che pregarlo, e vedere, dove le forze non erano sufficienti, se i preghi, o a rimuoverlo dall'impresa o a fare la sua signoria meno acerba, bastavano. Andarono pertanto parte dei signori a trovarlo, e uno di loro gli parlò in questa sentenza:

<< Noi veniamo, o signore, a voi, mossi prima dalle vostre domande, dipoi dai comandamenti che voi avete fatti per ragunare il popolo, perchè ci pare esser certi che voi vogliate straordinariamente ottenere quello che per l'ordinario noi non vi abbiamo acconsentito. Nè la nostra intenzione è con alcuna forza opporci ai disegni vostri, ma solo dimostrarvi quanto sia per esservi grave il peso che voi vi arrecate addosso, e pericoloso il partito che voi pigliate, acciocchè sempre vi possiate ricordare dei consigli nostri, e di quelli di coloro i quali altrimenti, non per vostra utilità, ma per sfogare la rabbia loro vi consigliano. Voi cercate far serva una città, la quale è sempre vivuta libera; perchè la signoria, che noi concedemmo già ai reali di Napoli, fu compagnia e non servitù. Avete voi considerato quanto in una città simile a questa importi, e quanto sia gagliardo il nome della libertà? il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, e merito alcuno non contrappesa. Pensate, signore, quante forze necessarie sieno a tenere serva una tanta città. Quelle che forestiere voi potete sempre tenere, non bastano; di quelle di dentro voi non vi

potete fidare, perchè quelli che vi sono ora amici, e che a pigliare questo partito vi confortano, come eglino avranno battuti con l'autorità vostra i nimici loro, cercheranno come e' possino spegnere voi, e fare e' principi loro. La plebe, in la quale voi confidate, per ogni accidente benchè minimo si rivolge, in modo che in poco tempo voi potete temere di avere tutta questa città nimica; il che fia cagione della rovina sua e vostra. Nè potete a questo male trovare rimedio; perchè quelli signori possono fare la loro signoria sicura che hanno pochi inimici, i quali o con la morte o con l'esilio è facile spegnere. Ma negli universali odj non si trovò mai sicurtà alcuna; perchè tu non sai donde ha a nascere il male: e chi teme di ogni uomo, non si può mai assicurare di persona. E se pure tenti di farlo, ti gravi nei pericoli: perchè quelli che rimangono si accendono più nell'odio, e sono più parati alla vendetta. Che il tempo a consumare i desiderj della libertà non basti, è certissimo; perchè s'intende spesso quella essere in una città da coloro riassunta che mai la gustarono, ma solo per la memoria che ne avevano lasciata i padri loro l'amano, e perciò quella ricuperata con ogni ostinazione e pericolo conservano. E quando mai i padri non l'avessero ricordata, i palagi pubblici, i luoghi de' magistrati, le insegue de' liberi ordini la ricordano: le quali cose conviene che siano con massimo desiderio da' cittadini conosciute. Quali opere volete voi che siano le vostre, che contrappesino alla dolcezza del viver libero, o che faccino mancare gli uomini del desiderio delle presenti condizioni? Non se voi aggiugnessi a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni giorno tornassi in questa città trionfante de' nimici nostri, perchè tutta quella gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i cittadini non acquisterebbero sudditi, ma conservi, per i quali si vedrebbero nella servitù raggravare. E quando i costumi vostri fussero santi, i modi benigni, i giudizj retti, a farvi amare non basterebbero. E se voi credessi che bastassero, v'ingannereste; perchè a uno consueto a vivere sciolto ogni catena pesa, ed ogni legame lo stringe. Ancora che trovare uno stato violento con un principe buono sia impossibile, perchè di necessità conviene o che diventino simili, o che presto l'uno per l'altro rovini Voi avete adunque a credere, o di avere a

alla

tenere con massima violenza questa città, qual cosa le cittadelle, le guardie, gli amici di fuori molte volte non bastano, o di esser contento a quella autorità che noi vi abbiamo data. A che noi vi confortiamo, ricordandovi che quel dominio è solo durabile che è volontario; nè vogliate, accecato da un poco d'ambizione, condurvi in un luogo, dove non potendo stare, nè più alto salire, siate con massimo danno vostro e nostro di cadere necessitato. >>

Non mossero in alcuna parte queste parole l'indurato animo del duca, e disse non essere sua intenzione di torre la libertà a quella città, ma rendergliene; perchè solo le città disunite erano serve, e le unite libere. E se Firenze per suo ordine di sette, ambizioni ed inimicizie si privasse, se le renderebbe non torrebbe la libertà. E come a prendere questo carico, non l'ambizione sua, ma i prieghi di molti cittadini lo conducevano; e perciò farebbero eglino bene a contentarsi di quello che gli altri si contentavano. E quanto a quei pericoli, nei quali per questo poteva incorrere, non gli stimava: perchè egli era ufficio di uomo non buono per timore del male lasciare il bene, e di pusillanime per un fine dubbio non seguire una gloriosa impresa. E che credeva portarsi in modo che in breve tempo avere di lui confidato poco, e temuto troppo conoscerebbero. Convennero adunque i signori, vedendo di non poter fare altro bene, che la mattina seguente il popolo si ragunasse sopra la piazza loro, con l'autorità del quale si desse per un anno al duca la signoria con quelle condizioni che già a Carlo duca di Calabria si era data. Era l'ottavo giorno di settembre, e l'anno mille trecento quarantadue, quando il duca, accompagnato da messer Giovanni della Tosa e tutti i suoi consorti, e da molti altri cittadini, venne in piazza, e insieme con la signoria sali sopra la ringhiera, chè così chiamano i Fiorentini quelli gradi chè sono a piè del palagio de' signori, dove si lessero al popolo le convenzioni fatte intra la signoria e lui. E quando si venne leggendo a quella parte, dove per un anno se gli dava la signoria, si gridò per il popolo: A VITA. E levandosi messer Francesco Rustichelli, uno de' signori, per parlare e mitigare il tumulto, furono con le grida le sue parole interrotte, in modo che con il consenso del popolo, non per un anno, ma in perpetuo fu

eletto signore, e preso e portato intra la moltitudine, gridando per la piazza il nome suo. È consuetudine che quello che è preposto alla guardia del palagio stia, in assenza de' signori, serrato dentro, al quale ufficio era allora deputato Rinieri di Giotto. Costui corrotto dagli amici del duca, senza aspettare alcuna forza lo messe dentro, ei signori sbigottiti e disonorati se ne tornarono alle case loro, e il palagio fu dalla famiglia del duca saccheggiato, il gonfalone del popolo stracciato, e le sue insegne sopra il palagio poste; il che seguiva con dolore inestimabile e noia degli uomini buoni, e con piacere grande di quelli, che, o per ignoranza o per malignità, vi consentivano.

Il duca acquistato che ebbe la signoria, per torre l'autorità a quelli che solevano della libertà essere difensori, proibì ai signori ragunarsi in palagio, e consegnò loro una casa privata; tolse le insegne ai gonfalonieri delle compagnie del popolo; levò gli ordini della giustizia contro ai grandi; liberò i prigioni dalle carceri; fece i Bardi e Frescobaldi dell'esilio ritornare; vietò il portare arme a ciascuno. E per poter meglio difendersi da quelli di dentro, si fece amico a quelli di fuori. Beneficò pertanto assai gli Aretini, e tutti gli altri sottoposti ai Fiorentini; fece pace con i Pisani, ancora che fusse fatto principe perchè facesse loro guerra; tolse gli assegnamenti a quei mercatanti, che nella guerra di Lucca avevano prestato alla repubblica danari, accrebbe le gabelle vecchie e creò delle nuove; tolse ai signori ogni autorità, e i suoi rettori erano messer Baglione da Perugia e messer Guglielmo da Scesi, con i quali, e con messer Cerrettieri Bisdomini, si consigliava. Le taglie che poneva ai cittadini erano gravi, e i giudizj suoi ingiusti; e quella severità ed umanità, che egli aveva finta, in superbia e in crudeltà si era convertita. Donde molti cittadini grandi e popolani nobili, o con danari, o morti, o con nuovi modi tormentati erano. E per non si governar meglio fuori che dentro, ordinò sei rettori per il contado, i quali battevano e spogliavano i contadini. Aveva i grandi a sospetto, ancora che da loro fosse stato beneficato, e che a molti di quelli avesse la patria renduta; perchè non poteva credere che i generosi animi, quali sogliono essere nella nobiltà, potessero sotto la sua ubbidienza contentarsi. Perciò si volse a beneficare la

[ocr errors]

plebe, pensando con i favori di quella, e con le armi forestiere poter la tirannide conservare. Venuto pertanto il mese di maggio, nel qual tempo i popoli sogliono festeggiare, fece fare alla plebe e popolo minuto più compagnie, alle quali onorate di splendidi titoli dette insegne e danari. Donde una parte di loro andava per la città festeggiando, e l'altra con grandissima pompa i festeggianti riceveva. Come la fama si sparse della nuova signoria di costui, molti vennero del sangue francese a trovarlo; ed egli a tutti, come a uomini più fidati, dava condizione: in modo che Firenze in poco tempo divenne non solamente suddita ai Francesi, ma a'costumi e agli abiti loro. Perchè gli uomini e le donne, senza aver riguardo al viver civile o alcuna vergogna, gl'imitavano. Ma sopra ogni cosa quello che dispiaceva era la violenza che egli e i suoi senza alcun rispetto alle donne facevano.

Vivevano adunque i cittadini pieni d'indignazione veggendo la maestà dello stato loro rovinata, gli ordini guasti, le leggi annullate, ogni onesto vivere corrotto, ogni civil modestia spenta [AN. 1343): perchè coloro che erano consueti a non vedere alcuna regal pompa, non potevano senza dolore quello d'armati satelliti a piè e a cavallo circondato riscontrare. Perchè veggendo più d'appresso la loro vergogna, erano, colui che massimamente odiavano, di onorare necessitati. A che si aggiugneva il timore, veggendo le spesse morti e le continove taglie, con le quali impoveriva e consumava la città. I quali sdegni e paure erano dal duca conosciute e temute; nondimeno voleva mostrare a ciascuno di credere di essere amato. Onde occorse che avendogli rivelato Matteo di Morozzo, o per gratificarsi quello, o per liberar sè dal pericolo, come la famiglia de' Medici con alcuni altri aveva contro di lui congiurato, il duca non solamente non ricercò la cosa, ma fece il rivelatore miseramente morire. Per il qual partito tolse animo a quelli che volessero della sua salute avvertirlo, e lo dette a quelli che cercassero la sua rovina. Fece ancora tagliar la lingua con tanta crudeltà a Bertone Cini, che se ne mori, per aver biasimate le taglie che ai cittadini si ponevano. La qual cosa accrebbe ai cittadini lo sdegno e al duca l'odio, perchè quella città, che a fare ed a parlare di ogni cosa e con ogni licenza era consueta, che gli fussero legate le

mani e serrata la bocca sopportare non poteva.

Crebbero adunque questi sdegni in tanto, e questi odj, che non che i Fiorentini, i quali la libertà mantenere non sanno e la servitù patire non possono, ma qualunque servile popolo avrebbero alla recuperazione della libertà infiammato. Onde che molti cittadini, e di ogni qualità, di perder la vita, o di riavere la loro libertà deliberarono. E in tre parti, di tre sorte di cittadini, tre congiure si fecero, grandi, popolani, artefici, mossi, oltre alle cause universali, da parere ai grandi non aver riavuto lo stato, ai popolani averlo perduto, e agli artefici de' loro guadagni mancare. Era arcivescovo di Firenze messer Agnolo Acciaioli, il quale con le prediche sue aveva già le opere del duca magnificato, e fattogli appresso al popolo grandi favori. Ma poi che lo vide signore, e i suoi tirannici modi conobbe, gli parve avere ingannato la patria sua; e per emendare il fallo commesso pensò non avere altro rimedio, se non che quella mano che aveva fatta la ferita la sanasse: e della prima e più forte congiura si fece capo, nella quale erano i Bardi, Rossi, Frescobaldi, Scali, Altoviti, Magalotti, Strozzi e Mancini. Dell'una delle due altre erano principi messer Manno e Corso Donati, e con questi i Pazzi, Cavicciuli, Cerchi e Albizzi. Della terza era il primo Antonio Adimari, e con lui Medici, Bordoni, Rucellai e Aldobrandini. Pensarono costoro di ammazzarlo in casa gli Albizzi, dove andasse il giorno di S. Giovanni a veder correre i cavalli credevano. Ma non vi essendo andato, non riuscì loro. Pensarono di assaltarlo andando per la città a spasso, ma vedevano il modo difficile, perchè bene accompagnato ed armato andava, e sempre variava le andate, in modo che non si poteva in alcun luogo certo aspettarlo. Ragionarono di ucciderlo nei consigli, dove pareva loro rimanere, ancora che fusse morto, a discrezione delle forze sue.

Mentre che intra i congiurati queste cose si praticavano, Antonio Adimari con alcuni suoi amici Sanesi, per aver da loro genti, si scoperse, manifestando a quelli parte dei congiurati, e affermando tutta la città essere a liberarsi disposta. Onde uno di quelli comunicò la cosa a Messer Francesco Brunelleschi, non per scoprirla, ma per credere che ancor egli fusse dei congiurati. Messer Francesco, o per

paura di sè, o per odio aveva contro ad altri, rivelò il tutto al duca; onde che Pagolo del Mazeca e Simone da Monterappoli furono presi; i quali rivelando la quantità e qualità dei congiurati sbigottirono il duca, e fu consigliato piuttosto gli richiedesse che pigliasse; perchè, se se ne fuggivano, se ne poteva senza scandolo con lo esilio assicurare. Fece pertanto il duca richiedere Antonio Adimari; il quale confidandosi ne' compagni subito comparse. Fu sostenuto costui, ed era il duca da messer Francesco Brunelleschi e messer Uguccione Buondelmonti consigliato corresse armato la terra, e i presi facesse morire. Ma a lui non parve, parendogli avere a tanti nimici poche forze. E però prese un altro partito, per il quale, quando gli fusse successo, si assicurava de' nemici, ed alle forze provvedeva. Era il duca consueto richiedere i cittadini, che ne' casi occorrenti lo consigliassero. Avendo pertanto mandato fuori a provvedere di genti, fece una lista di trecento cittadini, e gli fece da' suoi sargenti, sotto colore di volere consigliarsi con loro, richiedere; e poi che fussero adunati, o con la morte o con le carceri, spegnerli disegnava. La cattura di Antonio Adimari, e il mandar per le genti, il che non si potette fare segreto, aveva i cittadini, e massime i colpevoli, sbigottito; onde che dai più arditi fu negato il volere ubbidire. E perchè ciascuno aveva letta la lista, trovavano l'uno l'altro, e s' inanimavano a prender le armi, e voler piuttosto morire come uomini con le armi in mano, che come vitelli essere alla beccheria condotti. In modo che in poco d'ora tutte a tre le congiure l'una all'altra si scoperse, e deliberarono il di seguente, che era il ventisei di luglio mille trecento quaranta tre, far nascere un tumulto in Mercato Vecchio, e dopo quello armarsi, e chiamare il popolo alla libertà.

Venuto adunque l'altro giorno, al suono di nona, secondo l'ordine dato, si prese le armi, e il popolo tutto alla voce della libertà si armò, e ciascuno si fece forte nelle sue contrade sotto insegne con le armi del popolo, le quali dai congiurati segretamente erano state fatte. Tutti i capi delle famiglie così nobili come popolane, convennero, e la difesa loro e la morte del duca giurarono, eccetto che alcuni de' Buondelmonti e de'Cavalcanti, e quelle quattro famiglie di popolo che a farlo signore erano concorse, i quali insieme con i beccaj

ed altri dell'infima plebe armati in piazza in favor del duca concorsero. A questo rumore armò il duca il palagio, e i suoi che erano in diverse parti alloggiati salirono a cavallo per ire in piazza, e per la via furono in molti luoghi combattuti e morti. Pure circa trecento cavalli vi si condussero. Stava il duca dubbio se egli usciva fuori a combattere i nemici, o se dentro il palagio difendeva. Dall' altra parte i Medici, Cavicciuli, Rucellai, ed altre famiglie state più offese da quello, dubitavano che s'egli uscisse fuori, molti che gli avevano prese le armi contro, non se gli scoprissero amici; e desiderosi di torgli l'occasione dell' uscir fuori, dell' accrescere le forze, fatto testa assalirono la piazza. Alla giunta di costoro quelle famiglie popolane che si erano per il duca scoperte, veggendosi francamente assalire, mutarono sentenza, poi che al duca era mutata fortuna, e tutte si accostarono ai loro cittadini, salvo messer Uguccione Buondelmonti, che se n'andò in palagio, e messer Giannozzo Cavalcanti, il quale ritiratosi con parte de' suoi consorti in Mercato Nuovo, sali alto sopra un banco, e pregava il popolo, che andava armato in piazza, che in favor del duca vi andasse. E per sbigottirgli accresceva le sue forze, e gli minacciava che sarebbero tutti morti, se ostinati contro al signore seguissero l'impresa. Nè trovando uomo che lo seguitasse, nè che della sua insolenza lo gastigasse, veggendo di affaticarsi in vano, per non tentare più la fortuna, dentro alle sue case si ridusse.

La zuffa intanto in piazza intra il popolo e le genti del duca era grande; e benchè queste il palagio aiutasse furono vinte; e parte di loro si misono nella potestà dei nemici, parte, lasciati i cavalli, in palagio si fuggirono. Mentre che la piazza si combatteva, Corso e messer Amerigo Donati con parte del popolo ruppon le Stinche, le scritture del potestà e della pubblica camera arsero, saccheggiarono le case dei rettori, e tutti quelli ministri del duca poterono avere ammazzarono. Il duca dall' altro canto vedendosi aver perduta la piazza, e tutta la città nimica, e senza speranza di alcuno aiuto, tentò se poteva con qualche umano atto guadagnarsi il popolo. E fatti venire a sè i prigionieri, con parole amorevoli e grate gli liberò, e Antonio Adimari, ancora che con suo dispiacere, fece cavaliere.

Fece levare le insegne sue sopra il palagio, e porvi quelle del popolo; le quali cose, fatte tardi e fuori di tempo, perchè erano forzate e senza grado, gli giovarono poco. Stava pertanto malcontento assediato in palagio, e vedeva come per aver voluto troppo perdeva ogni cosa, e di avere a morire fra pochi giorni o di fame o di ferro temeva. I cittadini, per dar forma allo stato, in Santa Reparata si ridussero, e crearono quattordici cittadini per metà grandi e popolani, i quali con il vescovo avessero qualunque autorità di potere lo stato di Firenze riformare. Elessero ancora sei, i quali l'autorità del potestà, tanto che quello era eletto venisse, avessero.

Erano in Firenze al soccorso del popolo molte genti venute, intra i quali erano Sanesi con sei ambasciatori, uomini assai nella loro patria onorati. Costoro intra il popolo e il duca alcuna convenzione praticarono; ma il popolo ricusò ogni ragionamento d'accordo, se prima non gli era nella sua potestà dato messer Guglielmo da Scesi, ed il figliuolo insieme con messer Cerrettieri Bisdomini consegnato. Non voleva il duca acconsentirlo; pure, minacciato dalle genti che erano rinchiuse con lui, si lasciò sforzare. Appariscono senza dubbio gli sdegni maggiori, e sono le ferite più gravi quando si ricupera una libertà che quando si difende. Furono messer Guglielmo e il figliuolo posti intra le migliaia de'nemici loro, e il figliuolo non aveva ancora diciotto anni. Nondimeno l'età, l'innocenza, la forma sua nol poterono dalla furia della moltitudine salvare; e quelli che non poterono ferirgli vivi, gli ferirono morti, nè saziati di straziarli col ferro, con le mani e con i denti gli laceravano. E perchè tutti i sensi si soddisfacessero nella vendetta, avendo prima udito le loro querele, veduto le loro ferite, tocco le lor carni lacere, volevano ancora che il gusto le assaporasse, acciocchè come tutte le parti di fuori ne erano sazie, quelle di dentro ancora se ne saziassero. Questo rabbioso furore quanto gli offese costoro, tanto a messer Cerrettieri fu utile, perchè stracca la moltitudine nella crudeltà di questi duoi, di quello non si ricordò, il quale non essendo altrimenti dimandato, rimase in palagio; donde fu poi la notte da certi suoi parenti ed amici a salvamento tratto. Sfogata la moltitudine sopra il sangue di costoro, si conchiuse l'accordo: che

« IndietroContinua »