Immagini della pagina
PDF
ePub

quale vitupera le ricchezze gli pare che « senza rossor alcuno sprezzi tutti i bei doni che natura ci facesse mai ». Tutti lusingano i ricchi e fuggono i poveri, di tutte le buone cose è causa il denaro: « nervo in prima delle guerre, sostegno degli stati, alimento delle buone arti, ministro della migliore creanza, donator di piaceri et finalmente vero testimonio della nobiltà ». Per questo fecero bene a lodar le ricchezze Teognide, Menandro, Cheremone, Antiphane, Timocle; Demostene che ci esortò a conseguirle con ogni mezzo; Filemone che affermò esser la povertà « essercitatissima nell'essequir ogni sorta di maleficio »; Sofocle che dice « non esser di picciola infirmità oppresso chiunque povero si ritrova »; Esiodo che chiama la povertà « delli animi buoni corruttrice »; Callimaco « nel quale tutte le predette cose pienamente si confermano ». Non c'è spettacolo più brutto della povertà. Per fuggirla, « molte belle donne si danno nelle braccia de i più potenti amatori, facendo divenir i lor consorti, d' huomini, montoni. Per fuggirla non s' ha rispetto di mentire, di spergiurare, di tradire, d' uccidere e di assassinare. Per fuggir la povertà molti, tenuti de i piú Savi, non hanno riguardo di gittarsi dopo le spalle la vera et immortal gloria, ponendo i piedi sul giusto e sul diritto, fatti poco ricordevoli dell' honor del mondo e del formidabil giuditio d' Iddio. Per fuggir la povertà molti gran prelati abbandonano il gregge alla lor cura commesso, e vanno alle corti de i più potenti Re, consigliandogli, trattenendogli e facendosi schiavi delle Regali intemperantie. Solevano già occupar i Monaci le sommità de i monti, et hora, per fuggirla, anch'essi

in niuno altro luogo paiommi più frequenti che nelle Corti: a tal che, dovunque ci rivolgiamo, sempre qualche capuccio ci si para davanti agli occhi. Cosí adunque essendo come vi dico, potrà costui a tanta sfacciataggine pervenire che ardischi sostenere che meglio sia l'esser povero che ricco? »1.

Qui termina la confutazione del primo paradosso. Essa ci dimostra due cose: una, che il genere della trattazione è, come abbiamo detto, uguale a quello dei Paradossi; l'altra che, come in questi, cosí nella Confutazione abbonda la satira. Quello che poi è veramente singolare in questa Confutazione è il numero straordinario d'ingiurie che il Lando scaglia contro sé medesimo. A car. 3, per es., si legge: « altro che menzogne non vi potevano esser insegnate dal pestilentioso autor de' Paradossi »; a car. 6: « O Thersita, d'ogni bella et onorata impresa accerbo riprensore, privo di giudicio e di discorso »; a car. 7 t.: << Qui par che scuopra tutte le forze del suo diabolico ingegno »; a car. 8 t.: « vi prego a considerar la singolar pazzia di quest' huomo, degna d'esser veramente con dura sferza raffrenata »; a car. 9: « attendiamo a toglier via dell'altre mostruose cose sparse nei suoi vituperosi scritti »; a car. 12 t.: « egli per un cicalone sia hora mai da ciascuno conosciuto »; a car. 13 t.: << O parola degna veramente di Sardanapalo, o parola sporca, o lingua tinta di mortalissimo veneno »; a car. 14 t.: « Non mi posso tenere che io non rida, quantunque mesto mi ritrovi, tutte le volte che io lego

1 Car. 4-5 t.

le pazzie di questo bestione »; a car. 20 t.: « et hora questo terzo Catone, non già sceso dal cielo, ma dalle latrine uscito, vorracci persuadere il contrario ». E qui credo che basti.

Io me lo figuro, quel mattoide, incalorirsi a confutare sé medesimo, accumulare ingiurie al proprio indirizzo con una violenza di linguaggio maggiore di quella che ogni piú mortale nemico avrebbe usato, e poi, forse, rileggendo da sé da sé e i Paradossi e la Confutazione, ridere delle cose scritte in quelli e in questa, ridere della propria bizzarria e stravaganza, ridere del mondo che leggeva e ammirava i lavori usciti dalla sua immaginazione... stavo per aggiungere, ridere dei critici futuri che avrebber preso sul serio quello che egli scriveva unicamente per chiasso; ma Ortensio Lando non era profeta, né poteva prevedere che sarebbe venuto anche per lui il giorno in cui un povero studioso avrebbe posto alla tortura il proprio cervello per fare la critica delle opere sue.

V.

Il "Commentario delle cose d'Italia 99.
Gli "Oracoli de' moderni ingegni,,.

Il Commentario delle cose d'Italia1 si rileva essere d'Ortensio Lando da un avvertimento di Niccolò Morra ai lettori, che comincia: « Godi, lettore, il presente Commentario, nato dal costantissimo cervello di M. O. L. detto per la sua natural mansuetudine il Tranquillo »2; e piú ancora da una « Apologia di M. Ortensio Lando, ditto il Tranquillo, per l'authore », posta in fine ai Sermoni funebri, nella quale si legge: « ringratiate ... il Cardinal Madruccio che l'ha tenuto vivo al dispetto della sua mala fortuna: il che è stato cagione ch'egli

[ocr errors]

1 Commentario delle più notabili, e mostruose cose d'Italia, et altri luoghi di lingua Aramea in Italiana tradotto. Con un breve Catalogo de gli inventori delle cose che si mangiano e bevono, novamente ritrovato. In Vinetia per Bartholomeo Cesano. MDLIII. La prima edizione di quest'opera è del 1548 (v. BONGI, loc. cit., pag. XLI-XLII). « Il Lando diresse, senza però sottoscriversi, il comentario al Co. Lodovico Rangone, ed il catalogo a Gio. Batt. Luzago». L'edizione del 1553 che ho sott' occhio, e a cui si riferiranno le mie citazioni, è la terza, e non contiene le due lettere dedicatorie.

2 Commentario, car. 46.

ci habbi poi dato al presente, oltre queste funerali orationi, un commentario delle monstruose cose del Mondo ecc. »>'; e finalmente dal vedere scritto, in fine del Catalogo degli inventori ecc. che segue immediatamente al Commentario, « Suisnetroh, Sudnal, Rotua Tse >>> = << Hortensius Landus autor est ». Finge il Lando di aver tradotto questo Commentario dalla lingua aramea, e immagina che sia un giovane aramico in persona che fa il racconto di un suo lungo viaggio per l'Italia e per altri paesi. Narra dunque il supposto giovane aramico che, avendo più volte sentito dir meraviglie dell' Italia, aveva desiderio di visitarla: quando capitò alla sua patria, chiamata « il regno de' Sperduti », una nave che veniva « dall'isola di Utopia, carca di carote ». Vi era fra gli altri un fiorentino di nome Tetigio « ottimo maestro di piantar carote, faceto, motteggiatore e piacevole molto » al quale il giovane aramico chiese se volesse fargli da guida nel viaggio d'Italia. Il Fiorentino accettò, e, dopoché la nave si fu trattenuta sei mesi in porto per barattare le merci vendendo e comprando, presero tutti e due imbarco e si diressero alla volta della penisola. Dopo quindici giorni di felice navigazione, si levò un vento impetuosissimo per cui furon costretti a sbarcare in un'isoletta, nella quale abitava un santo eremita, « dotato di spirito profetico », venerabile nel viso e nella persona. Costui accolse amorevolmente il giovane viaggiatore, e gli disse: « Io so che tu sei per girtene in Italia, ove molte strane cose vedrai e

.....

Sermoni funebri, car. 36.

« IndietroContinua »