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PREFAZIONE

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Il secolo XVI è, per la nostra letteratura, il più meraviglioso. Certo, invano vi si cercherebbe un'opera d'arte cosí prodigiosa e gigantesca come la Divina Commedia; e, per la lirica, una raccolta di rime cosí perfetta come il canzoniere del Petrarca; e, per la prosa, un seguito di novelle cosí organico e cosí geniale come le dieci giornate di messer Giovanni. Ma, in compenso, l'attività intellettuale raggiunge un grado mai raggiunto prima d'allora, gli scrittori, se cosí posso esprimermi, pullulano dovunque, i generi e le forme letterarie si moltiplicano. Ora, è ben naturale che l'attenzione dello studioso

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si rivolga di preferenza a quegli uomini i quali e primeggiarono sui contemporanei e lasciarono traccie più profonde nella storia della letteratura ed esercitarono una maggiore influenza sullo svolgimento della letteratura medesima. È anche certo però che non si deve trascurare i letterati minori di un dato secolo, se di quel secolo non vogliamo farci un'idea imperfetta, monca e conseguentemente errata.

Di questi minori il numero è stragrande. Ne troviamo nell'epica, nella lirica, nella drammatica, nella poesia satirica, nella novellistica, nella filosofia, nella storia, in tutti quanti insomma i generi letterarii. Ma, oltre agli scrittori che possono con sicurezza classificarsi sotto uno di questi generi, altri ve ne sono nel Cinquecento ribelli ad ogni classificazione. Costoro si occupano un po' di tutto, scrivono libri assai bizzarri nei quali fanno sfoggio di erudizione e di fantasia, compongono trattati scientifici o pedagogici e libelli satirici: scrittori insomma proteiformi, che presentano una fisonomia vaga, mal definita, e che il Graf, con parola effi

cace, chiamò gli scapigliati della letteratura nel Cinquecento1.

Fra cotali scrittori il Graf medesimo annovera Pietro Aretino, Antonfrancesco Doni. Niccolò Franco e Ortensio Lando, aggiungendo che di questa scuola « non fu ancora chi studiasse l'indirizzo generale e l'opera comune ». E davvero sarebbe desiderabile che un tale studio sintetico venisse fatto: anzi da prima mi aveva sorriso l'idea di provarmi io stesso a colmar la lacuna. Ma poi, ripensando che non è possibile definir bene i caratteri di una data scuola senza possedere sui varii componenti di essa altrettanti lavori parziali, ho assegnato al lavoro mio limiti assai più ristretti; ed ho preso a studiare uno solo di quelli scapigliati, forse il più scapigliato di tutti, Ortensio Lando, proponendomi di fare delle

1 Petrarchismo e antipetrarchismo, in Attraverso il Cinquecento. Torino, Loescher, 1888. Pag. 45.

2 Ivi, pag. 46.

3 Dico una volta per sempre che deve scriversi Lando, non Landi come scrivono alcuni. Infatti Lando si chiama egli stesso tutte le volte che fa menzione di sé nelle sue opere e Lando lo chiamano sempre i contemporanei.

molte sue opere un'esposizione il più che sia possibile coscienziosa affinché serva di contributo, modesto, ma forse non affatto inutile, ad un più ampio studio sull'argo

mento.

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