Tutti i lumi celesti a se conversi, Ed allettavan pigre e taciturne Vie più dolci a dormir l'ore notturne.
Da principio colui sprezzò la pugna, E volse dell' augel prendersi gioco. Lievemente a grattar prese con l'ugna Le dolci linee, e poi fermossi un poco. Aspetta che'l passaggio al punto giugna L'altro, e rinforza poi lo spirto fioco, E di natura infatigabil mostro, Cio ch'ei fa con la man, rifa col rostro. Quasi sdegnando il sonatore arguto Dell' emulazion gli alti contrasti, E che seco animal tanto minuto, Non che concorra, al paragon sovrasti; Comincia a ricercar sovra il liuto Del più difficil tuon gli ultimi tasti; E la linguetta garrula e faconda Ostinata al cantar, sempre il seconda.
Arrossisce il maestro, e scorno prende Che vinto abbia a restar da si vil cosa. Volge le chiavi, i nervi tira, e scende Con passata maggior fino alla rosa. Lo sfidator non cessa, anzi gli rende Ogni replica sua più vigorosa;
E secondo che l'altro o cala o cresce, Labirinti di voce implica o mesce.
Quei di stupore allor divenne un ghiaccio, E disse irato: Io t'ho sofferto un pezzo; O che tu non farai questo, ch' io faccio, O ch' io vinto ti cedo, e'l legno spezzo. Recossi poscia il cavo arnese in braccio,
E come in esso a far gran prove avvezzo Con crome in fuga e sincope a traverso Pose ogni studio a variare il verso.
Senz' alcuno intervallo e piglia, e lassa La radice del manico e la cima, E come il trae la fantasia, s'abbassa, Poi risorge in un punto, e si sublima. Talor trillando al canto acuto passa, E col dito maggior tocca la prima. Talor ancor con gravità profonda Fin dell'ottava in sul bordon s'affonda. Vola sù per le corde or basso, or alto Più che l'istesso augel, la man spedita : Di sù, di giù con repentino salto Van balenando le leggiere dita :
D'un fier conflitto, e d'un confuso assalto Inimitabilmente i moti imita,
Ed agguaglia col suon de' dolci carmi
I bellicosi strepiti dell' armi.
Timpani, e trombe, e tutto ciò, che, quando Serra in campo le schiere, osserva Marte,
I suoi turbini spessi accelerando,
Nella dotta sonata esprime l'arte ;
E tuttavia moltiplica sonando
Le tempeste de' gruppi in ogni parte; E mentr' ei l'armonia cosi confonde, Il suo competitor nulla risponde.
Pur tace, e vuol veder, se l'augelletto Col canto il suon per pareggiarlo adegua: Raccoglie quello ogni sua forz' al petto, Nè vuole in guerra tal pace nè tregua. Ma' come un debil corpo, e pargoletto
Esser può mai, ch' un si gran corso segua? Maestria tale, ed artificio tanto,
Semplice e natural non cape un canto.
Poichè molt' e molt' ore ardita, e franca Pugnò del pari la canora coppia,
Ecco il povero augel, ch' alfin si stanca, E langue, e sviene, e'nfievolisce, e scoppia. Così qual face, che vacilla, e manca, E maggior nel mancar luce raddoppia, Dalla lingua, che mai ceder non volse, Il dilicato spirito si sciolse.
Le stelle poco dianzi innamorate Di quel soave e dilettevol canto, Fuggir piangendo, e dalle logge aurate S'affacciò l'alba, e venne il sole intanto. Il musico gentil per gran pietate L'estinto corpicel lavò col pianto, Ed accusò con lagrime, e querele Non men se stesso, che'l destin crudele. Ed ammirando il generoso ingegno, Fin negli aliti estremi invitto e forte, Nel cavo ventre del sonoro legno Il volse seppellir dopo la morte. Ne dar potea sepolcro unquà più degno A si nobil cadavere la sorte.
Poi con le penne dell' augello istesso, Vi scrisse di sua man tutto il successo. MARINO. L'Adone, canto VII.
Un Nunzio narra a la Regina Euridice la morte d'Emone suo figliuolo.
Io seguia dietro i passi il vostro sposo Là verso il pian dove morto giacea Lacero, e guasto'l miser Polinice;
E giunti a lui, Proserpina e Plutone Pregando, che in ver noi posasser l'ira, Tutto il purgammo, e sopra frondi, e giunchi Ardemio quel, che i can lasciato avieno, Poscia al cenere suo sepolcro demmo. Indi ne gimmo all' alta sepoltura, Che chiusa tiene Antigone infelice. Un di noi più vicino all' empia tomba Senti dentro suonar, lamenti e strida, E tosto al nostro Rè tornando il disse; Tal che ratto Creonte il passo mosse, Fin ch' all' orecchie sue pervenne un pianto Non conosciuto ancor; ma seco stesso, Lasso! dicea: ben or presago sono
De' danni miei; ben infelice fia
Per me questo cammin (lasso) ch' io prendo.
Ahi! lasso me! l'orecchio, e'l cor mi fere
La voce del mio figlio. O servi fidi,
Ite là ratti, e tosto aprite'l sasso
Del fer sepolcro, e dentro ben guardate,
S'e'l ver, ch' io senta Emone, o'l falso estimo.
Noi presti a' detti suoi dentro scendemmo;
E nell' ultime parti ad un gran legno,
Che sostiene'l sepolcro alta e sospesa,
Morla trovammo allor la bella sposa ; Per laccio al bianco collo intorno avvolto Quel ricco cinto avea, che'l primo giorno Le diè il suo caro sposo, e vostro figlio. Il miserello Emon con pianti e strida Se stesso sollevando alto da terra, Abbracciava, e baciava intorno, intorno Della gonna, e de' piè la parte estrema. L'inferno maledisse, che'l suo bene Furato avea la morte, l'empio padre, La fortuna, gli Dei, sè stesso ancora : Ma Creonte, che poco a noi lontano Dietro seguìa, quando conobbe il figlio, Poste subito giù l'ire e gli sdegni, Chiamandolo, e piangendo inver lui corse : O misero, che fai? qual van dolore T'ha la mente ingombrata? a che ti struggi? Lasso, ov' or hai la conoscenza e'l senno? Vieni a me, figlio, e non vogli esser duro Al vecchio padre, che umil prega, e chiama Emon, alquanto allor cogli occhi torti Risguardò'l padre, e poi senz' altro dirgli. Con furia indi si tolse; e tratto fuore Un acuto coltel, che cinto avea, Si feri ben due volte il lato manco, Tanto che cadde alfin col volto a terra; E cosi stato alquanto, il destro braccio Fermando in terra, appena alzò la fronte, Ei languidi occhi nella giovin morta Fermò, quasi dicesse : io vengo dietro: Poscia un greve sospir dal cor sospinse, Che tinto venne fuor di spuna e sangue;
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