Ove-mirabilmente era ridutto
Ciò che si perde, o per nostro difetto, O per colpa di tempo o di fortuna : Ciò che si perde qui, là si raguna.
Non pur di regni o di ricchezze parlo, In che la rota istabile lavora;
Ma di quel ch'in poter di tor, di darlo Non ha fortuna, intender voglio ancora. Molta fama è lassù, che, come tarlo, Il tempo a lungo andar quà giù devora. Lassú infiniti preghi e voti stanno, Che da noi peccatori a Dio si fanno.
Le lagrime e i sospiri de gli amanti, L'inutil tempo, che si perde a gioco, E l'ozio lungo d'uomini ignoranti, Vani disegni, che non hanno mai loco; I vani desideri sono tanti,
Che la più parte ingombran di quel loco : Ciò che in somma quà giù perdesti mai, Lassù salendo ritrovar potrai.
Passando il Paladin per quelle biche, Or di questo, or di quel chiede alla guida : Vide un monte di tumide vesciche,
Che dentro parea aver tumulti e grida;
seppe, ch'eran le corone antiche,
E de gli Assiri, e della terra Lida,
E de' Persi, e de' Greci, che gia furo Incliti, ed or n'è quasi il nome oscuro.
Ami d'oro e d'argento appresso vede In una massa, ch'erano quei doni Che si fan con speranza di mercede Ai Rè, agli avari Principi, a i patroni;
Vede in ghirlande ascosi lacci, e chiede, Ed ode, che son tutte adulazioni; Di cicale scoppiate immagine hanno Versi, ch'in lode dei signor si fanno. Di nodi d'oro e di gemmati ceppi Vede ch' han forma i mal seguiti amori. V'eran d'aquile artigli, e che fur seppi, L'autorità ch'ai suoi danno i signori. I mantici ch'intorno han pieni i greppi, Sono i fumi dei principi, e i favori, Che danno un tempo a i servidori suoi, Che se ne van col for degli anni poi. Ruine di cittadi, e di castella Stavan con gran tesor quivi sossopra; Domanda, e sa che son trattati, e quella Congiura, che si mal par che si copra. Vide serpi con faccia di donzella, Di monetieri e di ladroni l'opra: Poi vide bocce rotte di più sorti, Ch'era il servir delle misere corti.
Di versate minestre una gran massa Vede, e domanda al suo dottor che importe; L'elemosina è, dice, che si lassa
Alcun, che fatta sia dopo la morte.
Di varj fiori ad un gran monte passa, Ch' ebbe già buono odore, or puzza forte. Questo era il dono (se però dir lece) Che Costantino al buon Silvestre fece.
Vide gran copia di panie con visco, Ch'erano, o Donne, le bellezze vostre. Lungo sarà se tutte in verso ordisco Le cose che gli fur quivi dimostre;
Che dopo mille e mille io non finisco. E vi son tutte l'occorrenze nostre, Sol la pazzia non v'è poca, nè assai; Chè sta quà giù, nè se ne parte mai. Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, Ch' egli già avea perduti, si converse; E se non era interprete con lui, Non discernea le forme lor diverse. Poi giunse a quel, che par si averlo a nui Che mai per esso a Dio voti non ferse; Io dico il senno; e n'era quivi un monte, Solo assai più, che l'altre cose conte.
Era come un liquor sottile e molle, Atto a esalar, se non si tien ben chiuso; E si vedea raccolto in varie ampolle, Qual più, qual men capace, atte a quel uso. Quella è maggior di tutte, in che del folle Signor d'Anglante era il gran senno infuso; E fu dall' altre conosciuta, quando Avea scritto di fuor: Senno d'Orlando. E così tutte l'altre avean scritto anco
Il nome di color di chi fu il senno; Del suo gran parte vide il Duca Franco : Ma molto più maravigliar lo fenno, Molti, ch' egli credea, che dramma manco Non dovessero averne; e quivi denno Chiara notizia, che ne tenean poco,
Che moltà quantità n'era in quel loco.
Altri in amar lo perde, altri in onori; ricchezze. Altri in cercar, scorrendo il mar,
Altri nella speranza de' signori :
Altri dietro alle magiche sciochezze ;
E di poeti ancor ve n'era molto. Astolfo tolse il suo, che gliel cesse Lo scrittor dell' oscura Apocalisse. L'ampolla, in ch'era, al naso sol si messe,
par che quello al luogo suo ne gisse,
E che Turpin da indi in quà confesse
Ch'Astolfo lungo tempo saggio visse;
Ma ch'uno error, che fece poi, fu quello,
Ch'un altra volta gli levò il cervello.
ARIOSTO. Orl. Fur., canto XXXIV, st. 71-86.
Tenzone di Tancredi e di Clorinda.
VUOL ne l'armi provarla : un uom la stima Degno a cui sua virtù si paragone:
Va girando colei l'alpestre cima
Verso altra porta, ove d'entrar dispone. Segue egli impetuoso onde assai prima Che giunga, in guisa avvien che d'armi suone, Ch'ella si volge, e grida: o tu, che porte, Che corri si? Risponde guerra e morte.
Guerra e morte avrai, disse, io non rifiuto Darlati, se la cerchi; e ferma attende. Non vuol Tancredi, che pedon veduto Ha il suo nemico, usar cavallo, e scende. E impugna l'uno e l'altro il ferro acuto, Ed aguzza l'orgoglio, e l'ire accende : E vansi a ritrovar, non altrimenti Che duo tori gelosi, e d'ira ardenti.
Degne d'un chiaro sol: degne d'un pieno Teatro opre sarian si memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno Chiudesti, e ne l'oblio fatto si grande, Piacciati ch'io nel tragga, e'n bel sereno A le future età lo spieghi e mande. Viva la fama loro, e tra lor gloria Splenda del fosco tuo l'alta memoria.
Non schivar, non parar, non ritirarsi Voglion cestor, nè qui destrezza ha parte. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi ; Toglie l'ombra e'l furor l'uso de l'arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
A mezzo il ferro. Il piè d'orma non parte : Sempre il piè fermo, e la man sempre in moto; Ne scende taglio in van, nè punta a voto.
L'onta irrita lo sdegno a la vendetta,
E la vendetta poi l'onta rinova :
sempre al ferir, sempre a la fretta Stimol nuovo s'aggiunge, e cagion nova : D'or in or più si mesce, e più ristretta Si fa la pugna; e spada oprar non giova: Dansi co' pomi; e infelloniti e crudi Cozzan con gli elmi insieme, e con gli scudi. Tre volte il cavalier la donna stringe
Con le robuste braccia; ed altrettante Da que' nodi tenaci ella si scinge, Nodi di fer nemico, e non d'amante. Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge Con molte piaghe; e stanco ed anelante E questi e quegli alfin pur si ritira, E dopo lungo faticar respira.
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