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Teco ei per certo altier non fia: tu schiudi
A lui l'orecchio, e il cor disserra ai dolci
Paterni affetti. A te non mai tu il chiami,
E non mai gli favelli. Ei, pieno sempre
Di mista tema, a te si appressa; e in duro.
Fatal silenzio il diffidar si accresce,
E l'amor scema. La virtù sua prima
Ridesta in lui, se pure è in lui sopita;
Ch'esser non puote, in chi t'è figlio,
Nè altrui fidar le paterne tue cure.
Di padre a lui mostra l'aspetto, e agli altri
Serba di re la maestà severa.

Chè non si ottien con generosi modi

Da generoso core ? Ei d'alcun fallo

estinta :

Reo ti par? (chi non erra?) allor tu solo
L'ira tua giusta a lui solo dimostra.

Dolce è l'ira di un padre; eppur, qual figlio
Può non tremarne ? un sol tuo detto, un dcito
Di vero padre, in suo gran cor più debbe
Destar rimorsi, e men rancor lasciarvi,
Che cento altrui, malignamente ad arte
Aspri, oltraggiosi. Oda tua reggia intera,
Ch' ami ed apprezzi il figlio tuo; che degno
Di biasmo, e in un di cusa, il giovanile
Suo ardir tu stimi; e udrai repente allora
La reggia intorno risuonar sue laudi.
Dal cor ti svelli il sospettar, non tuo:
Basso terror di tradimento infame,
A re, che merti esser tradito, il lascia.

ALFIERI. Filippo, att. II, sc. II.

CARACTÈRES

OU

PORTRAITS, ET PARALELLES.

Romolo.

MARTE mi generò : me nella cuna
Senti l'onda del Tebro, e fè mi tenne :
Rapidamente da la tana bruna

Altrice Lupa al mio vagir sovvenne.
Poscia seguendo la natia fortuna

Per me Roma auspicata a sorger venne;
Roma, che delle stragi aneor digiunà,
Sacra col sangue del german divenne.

Forzai le nozze, e le difesi, e vinsi;
Schiere armai, scrissi leggi, il foro apersi;
E Giove, sul Tarpeo, di spoglie io cinsi.
Or nel beato sen de' rosei campi

Eterni di Quirino i giorni fersi :

Disse; e da terra dileguò tra i lampi.

GIAN PIETRO REVA.

Carlo Quinto.

CARLO il Quintò fù questi. A si gran nome

S'inchini ogni terrena potestate,

Ogn' istoria ne scriva, ed ogni etate
Sovra d'ogn' alto Eroe l'onori, e nome:
Come vincesse inviti regi, e come
Varie genti, e provincie, e schiere armate,
E terre unqua non viste, e non pensate,
E se medesmo, e le sue voglie ha dome;
Il mondo il sà, che ne stupisce, e'l sole,
Che con invidia, e maraviglia il vide
Gir seco intorno alla terrestre mole.

Cui, già corsa; or in ciel con Dio s'asside,
E lei d'alto mirando, e le sue fole,
Per te, le dice, io sudai tanto? e ride.

ANNIBAL CARO.

Uomini illustri dell' Antichita.

Io non sapea da tal vista levar me : Quand' io udii: pon mente all' altro lato; Che s'acquista ben pregio altro che d'arme. Volsimi dalta manca, e vidi Plato,

Che'n quella schiera andò più presso al segno, Al qual aggiunge a chi dal ciel è dato.

Aristòtele poi pien d'alto ingegno:

Pitàgora, che primo umilimente
Filosofia chiamò per nome degno:

Socrate, e Senofonte ; e quell' ardente
Vecchio a cui fur le Muse tanto amiche,
Ch' Argo, e Micena, e Troja se ne sente:
Questi cantò gli errori, e le fatiche
Del figliuol di Laerte, e della Diva,
Primo pittor delle memorie antiche.
A man a man con lui cantando giva

Il Mantoan, che di par seco giostra ;
Ed uno, al cui passar l'erba fioriva:

Quest' è quel Marco Tullio in cui si mostra Chiaro, quant' ha eloquenza, e frutti, e fiori: Questi son gli occhj della lingua nostra.

Dopo venia Demostene che fuori È di speranza omai del primo loco,

Non ben contento de' secondi onori.

Un gran folgor parea tutto di foco :
Eschine il dica, che'l potè sentire,
Quando presso al suo tuon parve già roco.
Io non posso per ordine ridire,

Questo o quel dove mi vedessi, o quando,
E qual innanzi andar, e qual seguire:

Chè cose innumerabili pensando,

E mirando la turba tale, e tanta,
L'occhio il pensier m'andava desviando.
Vidi Solon, di cui fù l'util pianta
Che s'è mal culta, mal frutto produce,
Con gli altri sei di cui Grecia si vanta.

Qui vid' io nostra gente aver per duce
Varrone, il terzo gran lume romano,
Che quanto 'I miro più, tanto più luce:

Crispo Salustio, e seco a mano a mano
Uno che gli ebbe invidia, e videl torto,
Cioè'l gran Tito Livio Padoano.

Mentr' io mirava, subito ebbi scorto
Quel Plinio Veronese suo vicino,
A scriver molto, a morte poco accorto
Poi vidi'l gran Platonico Plotino,
Che credendosi in ozio viver salvo,
Prevento fu dal suo fiero destino;

Il qual seco venia dal matern' alvo,
E però providenza ivi non valse:

Poi Crasso, Antonio, Ortensio, Gallo, e Calvo,
Con Pollion, che'n tal superbia salse,
Che contra quel d'Arpino armar le lingue,
Ei duo cercando fame indegne, e false.
Tucidide vid' io, che ben distingue
I tempi, e i luoghi, e loro opre leggiadre;
E di che sangue qual campo s'impingue.
Erodoto di Greca istoria padre
Vidi; e dipinto il nobil geomètra
Di triangoli, tondi, e forme quadre :

E quel che 'nver di noi divenne petra,
Porfirio, che d'acuti sillogismi
Empiè la dialettica faretra,

Facendo contra'l vero arme i sofismi;
E quel di Coo, che fè via miglior l'opra,
Se ben intesi fosser gli aforismi.

Apollo, ed Esculapio gli son sopra,
Chiusi, ch' appena il viso gli comprende:

Si

par che i nomi il tempo limi, e copra.

Un di Pèrgamo il segue: e da lui pende
L'arte guasta fra noi, allor non vile,
Ma breve, e oscura; ei la dichiara, e stende.
Vidi Anasarco intrepido, e virile,

E Senòcrate più saldo ch'un sasso;
Che nulla forza il volse ad atto vile.

Vidi Archimede star col viso basso;
E Demòcrito andar tutto pensoso,
Per suo voler di lume, e d'oro casso.
Vid' Ippia il vecchierel, che già fu oso
Dir: I' so tutto : e poi di nulla certo,

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