O secco il pozzo d'acqua veder parmę. Meglio è star ne la solita quiete,
Che provar, s'egli è ver, che qualunque erge Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.
Ma sia ver, se ben gli altri vi sommerge, Che costui sol non accostasse al rivo
Che del passato ogni memoria asterge. Testimonio son io di quel ch' io scrivo: Ch' io non l'ho ritrovato, quando il piede Gli baciai prima, di memoria privo. Piegossi a me da la beata sede;
La mano e poi le gote ambe mi prese, E'l santo bacio in amendue mi diede.
Di mezza quella bola anco cortese Mi fu, de la qual ora il mio Bibiena Espedito mi ha il resto a le mie spese. Indi col seno e con la falda piena Di speme, ma di pioggia molle brutto, La notte andai sin al Montone a cena. O sia vera che'l papa attenda tutto Ciò che già offerse, e voglia di quel seme Che già tant' anni sparsi or darmi il frutto; Sia ver che tante mitre e diademe
Mi doni, quante Giona di cappella A la messa papal non vede insieme;
Sia ver che d'oro m'empia la scarsella E le maniche e'l grembo, e se non basta, M'empia la gola il ventre, e le budella;
Sarà per questa piena quella vasta Ingordigia di aver? Rimarrà sazia Per ciò la sitibonda mia cerasta ?
Dal Marocco al Catai, dal Nilo in Dazia,
Non che a Roma anderò, se di potervi Saziare i desiderj impetro grazia.
Ma quando cardinale, o de li servi Io sia il gran servo, e non ritrovino anco Termine i desiderj miei protervi;
In che util mi risulta essermi stanco In salir tanti gradi ? Meglio fora Starmi in riposo, e affaticarmi manco.
LODOVICO ARIOSTO. Satira.
Accidente! non s'è mai letta, Bruno, Più graziosa novella. Vengo di Casa Balzani, ove ho trovato in sala ` Il padrone, venuto incontra ad altri Gentiluomini giunti anch'essi allora. Ci siamo incamminati quetamente Per entrar nella stanza. Quando siamo All' uscio della prima, ecco ch' i' veggo Un dar' addietro di tutti, ed un farsi Da largo guardo se c'è serpe, o drago Nell' altra stanza, e non c'è nulla; chieggo Al più vicin, « che c'è? » quei non risponde; Ma veggo farsi tutti in semicircolo,
Qual se si fosse a una recita, e sento Incominciar ciascheduno a difendersi Dall' entrar prima': « Tocca a lei, signore >> Elitropio: Anzi a lei, signor' Alipio. Vossignoria è più prossima. Vossi-
» Gnoria è più avanti col merito: Ell'è
ella ha Carica maggiore
Io non posso in questa casa,
» Perchè ci ho parentela; Squitiminia,
» Suocera di mio padre, fu sorella
» Uterina dell' avo d'Alticherio. »>
A me parea d'esser proprio a comedia ; Ma tra per prieghi, e per spinte alla fine Comunque fosse pur si trapassò;
Di che mi consolai, perchè premeami
Di spedirmi; ma oime! ecco all' altr' uscio
Torniam da capo : « Io non andrò, non voglio Raddoppiare il mio errar;
Decisa, vada : Io la prego;
Vedend' io, che doveasi aver battaglia
Ad ogn' uscio, adocchiai quanti ancor n'erano, E ristetti, perchè ci vidi all' ultimo.
Ma in questo udiamo altri venir; lo avvisano
I servidori, e ci arrestiam. Se n'entrano Più Signori, e si fanno inchini, e baie, Poi ci avviam verso l'ultima camera. Come la frotta era cresciuta, e aveansi Da -replicar con questi le moine, Giunti vicino all' uscio, con più forza Si arretran tutti, e si allargano; i primi Dan nei secondi : eran tra gli altri due Giovani, l'un de' quai nel dare addietro. Pose a sorte la mano su la spada, Forse perchè a qualcun non desse noia; L'altro, ch' ha bieca guardatura, e faccia Di stordito, e che dicono sia sempre Pien di sospetti, al veder cio, in un subito Fa motto di sguainar la sua : il padrone
Allora, « ferma, alto là, in casa mia! »
I servidor corrono via, per ire
A prender armi, un d'essi in
Scala rotola giù, e sopra lui
L'altro; al rumor vien dentro chi passava, E dimanda che sia; un di coloro,
<< I gentiluomin sù sono alle mani,»
Quei corre fuor gridando, « due o tre morti » Son su la scala: » forse avranno dato
Nella campana martello; ma io
Ridendo sempre come un matto, per
Gran premura che avea, senza far motto Mi son partito.
MAFFEI. Le Ceremonie, com., att. III, sc. V.
It cavalier Veneziano, ed il cavallo di Mauritania.
SON come il Veneziano a cui il cavallo
Di Mauritania, in eccellenza buono, Donato fu dal re di Portogallo.
Il qual per aggradire il real dono, Non discernendo, che mestier diversi Volger timoni e regger briglie sono;
Sopra vi salse, e cominciò a tenersi Con mani al legno e co' sproni alla pancia : Non vo', seco dicea, che tu mi versi.
Sente il cavallo pungersi, e si lancia; E'l buon nocchier più allora preme e stringe Lo sprone al fianco, aguzzo più che lancia, E di sangue la bocca e 'l fren gli tinge : Non sà il cavallo a chi ubbidir, o a questo Che 'l torna indietro, o a quel che l'urta e spinge.
Pur se ne sbriga in pochi salti presto : Rimane in terra il cavalier, col fianco, Con la spalla, e col capo rotto e pesto: Tutto di polve, di paura bianco Si levò al fin del re mal satisfatto, E lungamente poi se ne dolse anco.
Meglio avrebb' egli, ed io meglio avrei fatto, Egli il ben del cavallo, io del paese,
A dire « O Re, signor non ci son atto,
Sii pur ad altro di tal don cortese.
QUIVI Confusa in fra la spessa
Ch' eran concorsi alla famosa caccia,
Stav' io fuor delle tende
Spettatrice amorosa,
Vie più dei cacciator che della caccia, A ciascun moto della fera alpestre Palpitava il cor.mio :
A ciascun atto del mio caro Silvio, Correa subitamente
Con ogni affetto suo l'anima mia. Ma il mio sommo diletto
Turbava assai la spaventosa vista Del terribil Cinghiale,
Smisurato di forza, e di grandezza. Come rapido turbo
D'impetuosa e subita procella,
Che tetti, e piante, e sassi, e ciò ch' incontra,
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