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In van cerca dolente il peregrino,

Che di Celio le rocche, e d'Aventino
Giaccion trà l'erbe, a se medesme ascose.

Ma sorta ecco ti veggio, ed al governo
Siede di te non rio Tiranno e fero,
Ma chi dolce su l'alme ha sceltro eterno.
Reggesti il fren de l'universo intero;

Or del ciel trionfante, e de l'inferno,
Fatto hai con Dio comune il sommo impero.
GIOAN BATTISTA MARINI. 1600.

Italia.

ITALIA! Italia! o tu, cui feo la sorte

Dono infelice di bellezza, ond' hai

Funesta dote d'infiniti guai,

Che in fronte scritti per gran doglia porte;

Deh! fossi tu men bella, o almen più forte, Onde assai più ti paventasse, o assai

T'amasse men chi del tuo bello ai rai

Par, che si strugga, e pur ti sfida a morte !
Che già dall' Alpi non vedrei torrenti
Scender d'armati, nè di sangue tinta
Bever l'onda del Pò gallici armenti;

Nè te vedrei, del non tuo ferro cinta,
Regnar col braccio di straniere genti,
Per servir sempre o Vincitrice, o Vinta.
FILICAJA.

Ritratto di Rafaello dipinto da tui medesimo.

QUESTI è il gran Rafaello; ecco l'idea

Del nobil genio, e del bel volto, in cui
Tanto Natura de' suoi don ponea,

Quant' egli tolse a lei de' pregi sui.

Un giorno e i qui, che preso a sdegno ayea
Sempre far su le tele eterno altrui,

Pinse se stesso, e pinger non potea
Prodigio che maggior fosse di lui.

Quando poi Morte il doppio volto, e vago
Vide, sospeso il negro arco fatale,

Qual, disse, è il finto o il vero, o quale impiago?

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Impiaga questo inutil manto e frale,

L'alma rispose, e lascia star l'immago,

Ciascuna di noi due nacque immortale. »

GIOVAN-BATTISTA ZAPPI.

La Gloria e l'Invidia.

QUAND'IO men vò verso l'Ascrèa Montagna
Mi si accoppia la Gloria al destro fianco :
Ella da spirto al cor, forza al piè stanco,
E dice: Andiam, ch'io ti sarò compagna.
Ma per la lunga inospita campagna
Mi si aggiunge l'Invidia al lato manco,
E dice: anch'io son teco: al labbro bianco

Veggo il velen che nel suo cor si stagna.

Che far degg'io ? Se in dietro io volgo i passi,

Sò che Invidia mi lassa e m'abbandona :

Ma poi fia che la Gloria ancor mi lassi.

Con ambe andar risolvo alla suprema Cima del Monte. Una mi dia corona,

E l'altra il vegga, e si contorca e frema.

ΖΑΡΡΙ.

La Pace.

Ecco scesa dal Ciel lieta, e gioconda Con ramo in man di pallidetta oliva, E'nguirlandata d'onorata fronda

La Pace che da noi dianzi fuggiva.

Ecco cantando con la treccia bionda
Cinta di lieti fior, di tema priva

La Pastorella, ove più l'erba abbonda
Menar la greggia, ove più l'acqua è viva.

Ecco'l diletto, la letizia e'l gioco

Ch'aveano in odio il mondo, or notte e giorno,

Danzar per ogni colle ed ogni prato.

Ride or la terra e'l mare; e'n ciascun loco Sparge la ricca Copia il pieno corno :

O lieta vita, o secolo beato!

BERNARDO TASSO.

Mense dei Grandi.

On gran palagi d'allegrezza privi,
Superbi in vano di dorato tetto:

Non è tra voi, che i lieti pranzi avvivi,
Riso innocente, o semplice diletto;
Che fuggon ratto timorosi e schivi
Dalle nojose cure, e dal dispetto,
Che ognor con faccia nuvolosa intorno

Fanno alle vostre mense il lor soggiorno.

Che importa a me, che con esperta mano
Gallico cuoco i cibi miei colori,

E alle vivande con ingegno strano
Nuovi insegni a mentir dolci sapori?
Che importa, che le mense a fasto insano
Sassone argilla, o sculto argento onori,
E che da mari e colli peregrini
Mandi straniera vite eletti vini?

Se poi nel pranzo, e nella lauta cena
A stento gustar puoi quel che più brami;
Se poi, lasciando a parte ogni altra pena,
Fà i convitati ognor miseri e grami?

E ogni gusto, ogni cibo ti avvelena

Quel mostro, o Furia, o Dea, che tu là chiami, Quella, che in guasta popolar favella

Il buon Lombardo Soggezione appella?

Sta costei sol tra i grandi, e il collo dritto, Stretta la bocca tien, composto il viso. Tra gente ignota per lo più sta zitto : Sol apre a mezzo labbro un piccol riso. Un complimento meditato, e scritto. Suol fare a tutti in termine preciso. Talor col capo a'detti altrui risponde; Spesso vien rossa in volto, e si confonde. A' regal pranzi, e tavole di stato Per costume invitata assister suole: Fà cerimonie a chi le siede a lato, Ei moti suoi misura e le parole. Se un le mette sul piatto un cibo ingrato, Per non dirgli di nò, mangiar lo vuole; E poi, per non parer golosa o edace,

́Lascia star quel boccon, che più le piace.

Riceve i cibi, e non ne chiede mai,
E d'ampie lodi anco gl'ingrati onora;
Va ripetendo, che ha mangiato assai,
Ma dopo il pranzo ha molto fame ancora:
Del ciel piovoso, e del seren l'udrai
Parlar soltanto, e domandar dell' ora;
E alfin, nojata della compagnia,
Il più presto che può se ne và via.
Oh della villa liberta felice!
Oh de❜lieti pastor mense gioconde!
Le tavole imbandir almen qui lice

In chiuso albergo, o sotto arbore e fronde:
Ognuno il suo parer mangiando dice;

Nè cio che piace, o che disgusta asconde:
Non si ricusa per rossor vivanda,

Nè chi vorria del vino, acqua domanda.
Villa beata, a te dalla nimica
Reggia importuna, e dai palagi loro
I re nojati, in lieta spiaggia aprica
Fuggon cercando un libero ristoro;
E spesso a te nella stagione antica,
Stanchi d'un troppo rigido decoro,
Scendeano i Numi sotto umane spoglie

A pastoral convito in rozze soglie.

CL. BONDI. La Giornata Villereccia, poemetto.

Il Mattino.

SORGE il Mattino in compagnia dell' Alba Innanzi al sol, che di poi grande appare

Sù l'estremo orizonte a render lieti

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