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ORAZIONE

DETTA PER LA DISTRIBUZIONE DE' PREMII DI BELLE ARTI

L'ANNO 1854.

Sebbene possa dirsi universalmente proprio degli uomini amare e cercare il vero, il buono ed il bello, sembra tuttavia che il sentimento della bellezza, e la facoltà di esprimerla nelle svariate sue forme per mezzo delle arti, sia privilegio di alcune avventurose contrade, e di alcuni spiriti eletti. Sublime dono e caro sovra tutti gli altri, che ci racconsola dei mali e degli affanni dalla vita inseparabili, abbella ogni altro pregio, ingentilisce gli animi, accende a virtuose opere, ci solleva in un mondo migliore. Però, se rimembrando quei felici tempi che le arti in Italia salirono a maravigliosa altezza, io n'esalto meco medesimo, non è senza rammarico che rivolgo il pensiero all'età presente. Nella quale, come sarebbe viltà il dir spente le arti, così sarebbe vanità e iattanza il reputarle prossime alla desiderata perfezione. Non potrà mai negarsi il vanto di aver sentita ed espressa la bellezza a quel secolo ch'ebbe il Canova, e dopo lui non breve schiera d'illustri artisti che tolsero la scultura al gonfio, al manierato, al falso in che era caduta, e in onorato seggio la riposero. Fra i quali con affettuosa riverenza m'è caro nominare il Tenerani, ornamento e splendore della patria. Dove lascio la musica? Non ebbe

ella un glorioso corso da Cimarosa e Paesiello sino ai nostri giorni? Non è chiara per tutto il mondo la fama del Rossini e del Bellini? E quando mai più soavi e patetiche melodie o più concitate e forti commossero gli animi? A tanta grandezza si rimane per lungo tratto inferiore la pittura, la quale se di alcuni preclari ingegni si pregia, non osa di metterli a fronte dei nostri antichi. La poesia diede qualche lampo splendidissimo, quasi per farci maggiormente comprendere la scurità in che viviamo. E dove sono i monumenti, dove i templi e i palagi, che l'architettura possa additar con orgoglio, e che securamente aspettino l'ammirazione dei secoli avvenire e ne sfidino l' oltraggio?

Intorno alle quali cose più volte, meco medesimo ripensando, mi sforzai d' investigarne le cagioni. E mi parve che fosse di scarso intendimento volerne accusare una sola o massima; ma che molte e svariatissime ne apparissero, le quali si collegano all' indole nostra, ai costumi, agl' istituti, alle tradizioni, alla storia. Odo alcuni recare innanzi che le guerre le quali insanguinarono l'Europa nel principio del secolo, e le civili agitazioni che poscia la sconvolsero, abbiano impedito il fiorir dell'arte. Altri ne accagionano lo smisurato incremento delle industrie e dei traffici, onde l'utile soverchia il bello, e l'ideale è soffocato dalla materialità. Altri infine si lagnano della mancanza di mecenati, e di propizie occasioni. Io non contrasto l'efficacia di tali fatti, ma perchè rade volte è dato ai privati uomini di mutarli, questa considerazione riesce a uno sterile compianto e a un disperato abbandono. Che se invece di cercare ognora gli argomenti e le scuse della nostra piccolezza nelle cose esteriori, ci facessimo all' incontro a riguardare per entro noi medesimi, io credo che le più possenti cause della grandezza e decadenza delle arti si troverebbero

nell'animo degli artisti medesimi. Parlo del natural genio, della rettitudine del giudicio, del calor degli affetti, della vivacità della fantasia: soprattutto della tempra morale; vigore, saldezza, tenacità, ardimento, tutte quelle doti insomma che, rampollando dal libero arbitrio, in gran parte da noi dipendono, e scadute una volta possono per opera nostra ristorarsi. E questo è il tèma del mio discorso. Di che mi sarà largo compenso se i giovani che mi ascoltano in questo giorno solenne, nel quale festeggiamo le onorate palme da loro racolte, ed auguriamo ai lor felici successi avvenire, accoglieranno impresso quel documento del grande Alfieri, il quale, interrogato dei modi onde potè conseguire la gloria di sommo poeta tragico, rispose: « volli, sempre volli, fortissimamente volli. »

Gli antichi filosofi figurarono che le Muse abitassero sulla vetta di un ameno colle, e quivi allo aprico e sereno cielo fra soavi canti intrecciasser lor danze: significando per tal guisa com' elle amino la pace, e si piacciano nella soavità dei miti costumi. Ma se da ciò volessimo inferire che sempre rifuggono dallo strepito delle armi e dalle civili turbazioni, la severa storia smentirebbe la nostra induzione. Imperciocchè le arti non fiorirono mai cotanto come durante la guerra peloponesiaca, quando Atene, già possente d'uomini e di ricchezze, contendea con Isparta del primato di tutta la Grecia. E mentre si combatteva a Potidea, Pericle ornava la città di sontuosi edifici, Fidia scolpiva la Pallade, Sofocle ed Euripide si disputavano sulle scene la palma del coturno. Augusto dopo tre secoli chiuse il tempio di Giano, e di lui suonarono perpetue lodi nelle bocche dei posteri; ma i grandi oratori e i poeti erano surti e cresciuti fra le proscrizioni di Silla e di Mario, e in mezzo alle armi di Pompeo e di Cesare. Nè Orazio si mostra mai più sublime che in

quei versi, nei quali lamenta che i romani volgano in lor medesimi il ferro fratricida, nè mai più tenero Virgilio che nel descrivere i cólti di Mantova sperperati da barbaro soldato, e l'infelice agricoltore fuggente il tetto nativo. Adunque lo splendor delle lettere nel secolo d'Augusto era il frutto di semi gittati innanzi, e mal potrebbe altrimenti comprendersi come rapido si oscu rasse, e la stessa lingua latina dopo la morte di lui cominciasse a corrompersi dall'antica purezza e sobrietà. Scendiamo ad età più vicine. Non erano forse torbidi e sanguinosi i secoli nei quali l'arte rinacque in Italia? Spettacolo doloroso vedere quelle repubbliche lacerate dalle fazioni intestine, e tutte insieme fra loro discordi e pugnanti! Pure in tanta confusione e avvicendarsi di licenza e di tirannide, di odii e di vendette, Cimabue toglieva la pittura alla rozzezza bizantina, Nicola e Giovanni pisani spiravano nei marmi la vita, Arnolfo rinnovellava l'architettura, Dante dettava il suo immortale poema. E con le arti risorgevano le scienze, e dall'Italia raggiava la luce a diradare le tenebre del medio-evo, e ingentilire l'Europa ancora selvaggia. Ma niun altro periodo forse è comparabile per calamità e per sventure al principio del secolo XVI. Francesi, spagnuoli, imperiali, svizzeri, corrono la penisola, fatta segno delle ambizioni e delle cupidigie, campo delle battaglie, mercede dei tradimenti, premio delle vittorie. I suoi Principi e le Signorie, perduto il vigor dell'animo e la fortezza del costume, privi d'armi fuorchè mercenarie, o cedono vilmente, o patteggiano cogl' invasori, o chiamano in soccorso altre generazioni di stranieri. Invano Venezia resiste sola per alcun tempo contro tutta l'Europa congiurata a suoi danni, invano l'eroico Giulio tenta risuscitare gli antichi spiriti. Alle guerre forestiere si aggiungono le civili e una serie di eventi atrocissimi, di lagrimevoli

casi, di perfidie e di viltà precipita l'Italia nel breve spazio di quarant'anni dal più lusinghiero stato di pace e di prosperità nel fondo di ogni miseria ed abiezione. Città saccheggiate, ricchezze disperse, fertili campi disertati; gli abitatori uccisi, distrutte le industrie, guasti i monumenti, intere provincie di pestilenziale aere corrotte. Roma stessa vide un'orda barbarica entrare le sue mura, recarvi l'incendio, la rapina, lo sterminio, violare le vergini, profanare i templi, oltraggiare la maestà del Pontefice. Eppure, chi'l crederebbe? il senso della bellezza non era stato mai più così vivo dopo i bei tempi della Grecia; e la urbanità e la grazia a tanta ferocia e fraude andavano commiste. Nè questo è baleno di pochi ingegni peregrini, ma è splendore d'infinita schiera di valorosi in ogni genere d'eleganze; nè ad una città sola si restringe, ma per tutte si spazia, e le scuole gareggiando infra loro, or l'uno, or l'altro vanto di bellezza conseguono. Vedi gli artisti dell' Umbria soavi per la devota espressione dei volti, e i Toscani ammirabili per la correzione del disegno e il decoro delle movenze. Vedi Roma che dietro la scorta degli antichi si solleva allo ideale, e primeggia nella nobiltà delle composizioni. Qua è la scuola veneziana imitatrice del vero, e stupenda nella vivacità del colorito; là rifulge la parmigiana pel chiaroscuro e per la grazia inimitabile, e Bologna sin d'allora accenna a riunire in sè gli sparsi pregi insieme contemperandoli. In quel tempo medesimo Michelangelo, che a niuna di queste scuole appartiene, a tutte sovrasta, pingeva la Sistina, scolpiva il Mosè, ideava la cupola di S. Pietro. E di poco erano compiti i tuoi freschi, o divino Raffaello, e ancora della primiera gaiezza ridevano, quando i selvaggi vincitori penetrando nelle sale vaticane bruttarono col ferro e col fuoco quei miracoli dell'arte. Te fortunato, cui la morte rapi sebben giovane

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