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DISCORSO

LETTO ALLA SOCIETÀ AGRARIA DI BOLOGNA

IL GIORNO 23 APRILE 1843.

Ciascuna delle Scienze, nelle quali il sapere umano è diviso, risguarda un proprio e particolare obbietto, ed ha certi determinati limiti entro i quali è circoscritta. Ma siccome i fatti e le leggi della natura per intime attenenze strettamente si collegano, così ne conseguita che tutte le discipline si prestino e ricevano vicendevole sussidio. Il quale legame se facilmente si vede anche nelle teoriche speculative, molto più ci appare manifesto, e più dobbiamo sforzarci di serbarlo quando, discendendo alla pratica, vogliamo rivolgere le nozioni acquistate in beneficio dell' umana famiglia. Errano adunque coloro i quali si pongono a considerare gli ordini e le istituzioni. della società per un solo aspetto, e tengono di poterne stabilire le regole ajutati dal lume di una sola dottrina sia essa o la morale, o la economica, o la politica. Imperocchè essendo i bisogni e le facoltà degli uomini di specie molto varia, da varie scienze appunto dobbiamo all' uopo trarre le cognizioni ed i consigli. E come i bisogni e le facoltà umane non sono tutti di egual grado, ma tengono una gerarchia d'importanza e di dignità, similmente si vogliono ordinare i principii che loro si riferiscono, affinchè attribuito ad ogni parte il debito valore

pervenghiamo, per quanto è possibile, ad un giudicio. ragionevole e giusto.

Con queste semplicissime considerazioni io ho voluto, o Signori, prendere cominciamento (oggi che a me tocca la volta del favellare), perciocchè esse saranno come il criterio a giudicare la materia del mio discorso. Il quale tratta della proprietà rurale, e dei patti fra il padrone ed il lavoratore delle terre; ricerca che a me pare importantissima e molto confacentesi al tempo nel quale viviamo. Or non è egli aperto che per molti aspetti io poteva prendere ad esame il mio subbietto, ed inferirne diversi giudizi? Avvegnachè si può solamente investigare quali condizioni più giovino ad ottenere dai terreni il massimo dei prodotti colla minore spesa. Di che non istà contento colui che stima la produzione delle ricchezze non come fine, ma come mezzo al benessere di tutta la popolazione; laonde più addentro penetrando vuol conoscere quali cose apportino più comoda e più grata sussistenza a tutti gli uomini. Finalmente altri può estendere l'argomento più largamente, riguardandolo nella parte morale e civile, voglio dire nei suoi effetti sul proprietario e sul coltivatore ad infondere negli animi la umanità e la gentilezza, a stabilire fra quelle due classi vicendevole benevolenza e rispetto, ad ingenerare la rettitudine dei costumi, ad assicurare l'ordine e la libertà degli Stati. Pertanto, secondo il principio da me stabilito, io mi sforzerò di por mente a tutte queste diverse parti, in relazione al subbietto che ho recato innanzi, per modo che le conseguenze meno si dilunghino dal vero, e con maggiore sicurtà si possano praticare. Nè credo mi sarà apposto che questo tèma disconvenga ad una Società Agraria, la quale più specialmente suole occuparsi della qualità dei terreni, della generazione delle piante, dei. metodi più acconci per coltivarle. Ma la pratica, e i mi

glioramenti dell' arte agraria non si possono disgiungere dal benessere degli uomini, e dalla grandezza e dalla perfezione degli Stati. La quale sentenza fu tenuta dalla. maggior parte dei sapienti antichi e moderni, che ragionano di questa materia. E di vero allorchè Catone affermava, anche per detto dei maggiori, nessuna lode essere più onorata e più desiderabile del nome di buon coltivatore, riguardava l'uomo non solo come strumento di produzione, ma come buon padre di famiglia e buon cittadino. Dal quale concetto non era diverso pur quello di Cicerone quando fra tutte le cose, onde si ricava utilità, poneva quest' arte come la più amabile e la più conveniente ad un uomo libero.

A chi volesse ragionare in tutta la sua ampiezza l'argomento della proprietà rurale, e discutere tutti i quesiti che da essa prendono origine si converrebbe più presto scrivere un trattato di quello che un discorso accademico. Pertanto io ho creduto bene di trascegliere quei due punti che mi sembrano i più importanti e cioè, 1o il diritto di proprietà della terra, 2o la divisione dei possessi. Le quali ricerche mi apriranno adito all' esame delle varie maniere di patti fra il padrone ed il lavoratore delle terre, che formerà l'altra parte del mio discorso. Dico che mi apriranno adito a questa importantissima disamina, conciossiachè i detti contratti molto dipendono dallo stato e dalla divisione dei possessi; e nel diritto di proprietà hanno poi tutte queste indagini il loro fondamento. Che se questo paresse a taluno da non mettersi pure a discussione, o troppo astratta materia, e troppo remota dalle altre, io gli farei considerare che quella questione è oggi più che mai agitata da tutti coloro che intendono alle scienze umane. Gli ricorderei ancora che la mente nostra è di tal guisa disposta, che non ci acquetiamo nelle conseguenze particolari, se non

veggiamo dimostrate le premesse onde furono dedotte, e ci sforziamo risalendo sempre nell' ordine dei giudizi di pervenire ai primi principii onde si genera convincimento. A me sia lecito adunque, o Signori, dar principio dal diritto di proprietà. E di questo e delle altre cose proposte mi studierò di toccare colla maggior possibile brevità; con quella brevità però che non tralascia i fatti più importanti, e si concilia colla chiarezza. Ed alla vostra benignità raccomando le mie osservazioni.

Fino ab antico Platone volendo delineare l'immagine di una perfetta repubblica veniva a questa conclusione, che da essa perfino il nome di proprietà dovesse essere sbandito per sempre. In questa via segnala

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1 • Prima igitur civitas est resp. legesque optimæ, ubi quam maxime per universam civitatem priscum illud proverbium locum habet quo fertur vere, amicorum omnia esse comunia. Certe in hoc præcipue virtutis erit terminus quo nullus poni rectior poterit, si alicubi videlicet aut fit istud, aut unquam fiet, ut communes mulieres sint, communes et liberi, communis quoque pecunia, omnique studio quod proprium dicitur undique e vita remotum sit. » Platonis Dial. V: De leg. tral. Marsili Ficini. - Venetiis, 1556, pag. 542.

Mi sia lecito intorno a ciò aggiungere alquante considerazioni benchè non necessarie al subbietto del mio discorso. Platone immaginando l'ideale di una perfetta repubblica intende a stabilire in essa la massima unità, per la quale secondo la sentenza di lui la concordia e la benevolenza regnerebbero nel mondo, spenti tutti i mali che lo travagliano. Perciò a svellere la radice di questi mali, cioè la cupidità e le passioni, vuole quel sommo ingegno togliere tutto ciò che è proprio e peculiare di ciascuno, e quasi identificare l'individuo colla società. Ma Platone non si avvisò mai che questa utopia potesse recarsi in effetto, ed errano a partito quelli che sel credono. « Talem utique (continua egli) civitatem sive dii alicubi sive deorum filii una plures habitent, ita viventes, eamque servantes omui certe referti gaudio vivunt. » Dal che di leggieri si può comprendere che il fine di Platone era di porre in luce e dimostrare certi principii scientifici universali, e che a questo fine egli si giovava di una idea astratta dell'uomo composta di pochi elementi, e dissociata da tutto ciò che arrecherebbe alla sua finzione disformità. Ma nei libri delle leggi il discepolo di Socrate ebbe in animo di proporre le norme di uno stato al quale gli uomini, come sono in fatto, dovessero sforzarsi di approssimare. Alcuni moderni invece hanno confuso le utopie ideali e scientifiche col

dal Filosofo Ateniese molti si sono messi dopo di lui, e non è trascorso secolo che alcuni filosofi nelle loro speculazioni e alcune sètte nella pratica non abbiano tentato di annullare questo diritto, e di stabilire sopra altri fondamenti l'ordine della società. Sarebbe opera veramente curiosa, e non priva di utilità, mostrare onde ciascuno di questi sistemi traesse origine, quali opinioni recasse innanzi, come e perchè venisse meno per rinnovellarsi dopo alcun tempo sotto altre forme. A me basti il dire che i fautori di essi in ciò tutti s'accordarono di condannare la proprietà, ma nel proporre rimedii furono di opinioni svariatissime. Avvegnachè alcuni vollero distruggere interamente il possesso privato, e dividere con perfetta eguaglianza i prodotti a tutti gli uomini comechè diversi nelle qualità e nelle azioni. Altri pretesero distribuire i godimenti secondo i bisogni, ovvero secondo i meriti e le opere di ciascuno. Altri infine, più moderati, ebbero in animo di escludere solamente la proprietà territoriale. Costoro distinguono nei prodotti del terreno due parti: l'una nasce dalla facoltà stessa produttiva del fondo e dalla sua fertilità, l'altra dai capitali e dal lavoro che vi sono impiegati. Questa, dicono, di ragione dover spettare al coltivatore come effetto dell' opera sua, concetto normale dello stato possibile, e seguendo in ciò la disposizione del secolo a rivolgere in pratica le teoriche speculative, si persuadono di mettere ad effetto un ordine di cose al tutto fantastico ed ipotetico: nel che grandemente si dilungano dal vero. A noi importa che sia ben divisata la distinzione fra quelle due specie di utopie, alla prima delle quali (per citare alcuni dei moltissimi) appartengono, almeno in parte, Campanella, Tommaso Moro, Harrington; alla seconda in antico le sètte degli Esseni, e dei Terapeuti, ec., nel medio evo Giovanni da Parma, l'abate Gioacchino, Piergiovanni Oliva, e nei tempi moderni i Moravi, i Quaccheri, Babeuf, Saint-Simon, Fourier e Owen. Egli è manifesto che il mio discorso risguarda quei sistemi che sostengono doversi e potersi in fatto distruggere il diritto di proprietà. Ma parlando di essi non mi era lecito passare sotto silenzio Platone, la cui autorità è tanto invocata dai novatori come di capo e fondatore di quelle teoriche.

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