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ta: perchè questa così fatta attilatura e sprezzatura tendono troppo allo estremo; il che sempre è vizioso, e contrario a quella pura ed amabile simplicità, che tanto è grata agli animi umani. Vedete come un cavalier sia di mala grazia, quando si sforza d'andare cosi stirato in su la sella, e, come noi sogliam dire, alla veneziana, a comparazion d'un altro, che paja che non vi pensi, e stia a cavallo così disciolto e sicuro come se fosse a piedi. Quanto piace più e quanto più è laudato un gentiluom che porti arme, modesto, che parli poco e poco si vanti, che un altro, il qual sempre stia in sul laudar sè stesso, e biastemando con braveria mostri minacciar al mondo! e niente altro è questo, che affettazione di voler parer gagliardo. Il medesimo accade in ogni esercizio, anzi in ogni cosa che al mondo fare o dir si possa.

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XXVIII. Allora il signor MAGNIFICO, Questo ancor, disse, si verifica nella musica, nella quale è vizio grandissimo, far due consonanze perfette l'una dopo l'altra; tal che il medesimo sentimento dell' audito nostro l'aborrisce, e spesso ama una seconda o settima, che in sè è dissonanza aspera ed intolerabile: e ciò procede, che quel continuare nelle perfette genera sazietà, e dimostra una troppo affettata armonia; il che, mescolando le imperfette, si fugge, col far quasi un paragone, donde più le orecchie nostro stanno sospese, e più avidamente attendono e gustano le perfette, e dilettansi talor di quella dissonanza della seconda o settima, come di cosa sprezzata. Eccovi adunque, rispose il CoNTE, che in questo nôce l'affettazione, come nell'altre cose. Dicesi ancor esser stato proverbio appresso ad alcuni eccellentissimi pittori antichi, troppo diligenza esser nociva, ed esser stato biasimato Protogene da Apelle, che non sapea levar le mani dalla tavola. Disse allor messer CESARE: Questo medesimo difetto parmi che abbia il nostro fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola, almen fin che in tutto non ne sono levate ancora le vivande. Rise il CONTE, e soggiunse: Voleva dire Apelle, che Protogene nella pittura non conoscea quel che bastava; il che non era altro, che riprenderlo d'essere affettato nelle opere sue. Questa virtù adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora chia

mamo sprezzatura, oltra che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro ornamento, il quale accompagnando qualsivoglia azione umana per minima che ella sia, non solamente subito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che è in effetto; perchè negli animi delli circonstanti imprime opinione, che chi così facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa, e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio. E, per replicare i medesimi esempii, eccovi che un uom che maneggi l'arme, se per lanciar un dardo, ovver tenendo la spada in mano o altr’arma, si pon senza pensar scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilità che paja che il corpo e tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica alcuna, ancora che non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo in quello esercizio. Medesimamente nel danzare, un passo solo, un sol movimento della persona grazioso e non sforzato, subito manifesta il sapere di chi danza. Un musico, se nel cantar pronuncia una sola voce terminata con soave accento in un groppetto duplicato con tal facilità che paja che così gli venga fatto a caso, con quel punto solo fa conoscere che sa molto più di quello che fa. Spesso ancor nella pittura una linea sola non stentata, un sol colpo di pennello tirato facilmente, di modo che paja che la mano, senza esser guidata da studio o d'arte alcuna, vada per sè stessa al suo termine secondo la intenzion del pittore, scopre chiaramente la eccellenza dell'artefice, circa la opinion della quale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio: e 'l mcdesimo interviene quasi d'ogni altra cosa. Sarà adunque il nostro Cortegiano estimato eccellente, ed in ogni cosa averà grazia, e massimamente nel parlare, se fuggirà l'affettazione: nel qual errore incorrono molti, e talor più che gli altri, alcuni nostri Lombardi; i quali se sono stati un anno fuor di casa, ritornati, subito cominciano a parlare romano, talor spagnolo o franzese, e Dio sa come; e tutto questo procede da troppo desiderio di mostrar di saper assai: ed in tal modo l'uomo mette studio e diligenza in acquistar un vizio odiosissimo. E certo, a me sarebbe non piccola fatica, se in que

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sti nostri ragionamenti io volessi usar quelle parole antiche toscane, che già sono dalla consuetudine dei Toscani d'oggidi rifiutate; e con tutto questo credo che ognun di me rideria.

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XXIX. Allor messer FEDERICO, Veramente, disse, ragionando tra noi come or facciamo, forse saria male usar quelle parole antiche toscane; perchè, come voi dite, dariano fatica a chi le dicesse ed a chi le udisse, e non senza difficoltà sarebbono da molti intese. Ma chi scrivesse, crederei ben io che facesse errore non usandole, perchè danno molta grazia ed autorità alle scritture, e da esse risulta una lingua più grave e piena di maestà che dalle moderne. Non so, rispose il CONTE, che grazia o autorità possan dar alle scritture quelle parole che si deono fuggire, non solamente nel modo del parlare, come or noi facciamo (il che voi stesso confessate), ma ancor in ogni altro che imaginar si possa. Chè se a qualsivoglia uomo di buon giudicio occorresse far una orazione di cose gravi nel senato proprio di Fiorenza, che è il capo di Toscana, ovver parlar privatamente con persona di grado in quella città di negozii importanti, o ancor con chi fosse dimestichissimo di cose piacevoli, con donne o cavalieri d'amore, o burlando o scherzando in feste, giochi, o dove si sia, o in qualsivoglia tempo, loco o proposito, son certo che si guardarebbe d'usar quelle parole antiche toscane; ed usandole, oltre al far far beffe di sè, darebbe non poco fastidio a ciascun che lo ascoltasse. Parmi adunque molto strana cosa usare nello scrivere per buone quelle parole, che si fuggono per viziose in ogni sorte di parlare; e voler che quello che mai non si conviene nel parlare, sia il più conveniente modo che usar si possa nello scrivere. Chè pur, secondo me, la scrittura non è altro che una forma di parlare, che resta ancor poi che l'uomo ha parlato, e quasi una imagine o più presto vita delle parole: e però nel parlare, il qual, subito uscita che è la voce, si disperde, son forse tolerabili alcune cose che non sono nello scrivere; perchè la scrittura conserva le parole, e le sottopone al giudicio di chi legge, e dà tempo di considerarle maturamente. E perciò è ragionevole che in questa si metta

maggior diligenza, per farla più colta e castigata; non però di modo, che le parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si eleggano delle più belle che s' usano nel parlare. E se nello scrivere fosse licito quello che non è licito nel parlare, ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandissimo: che è, che più licenza usar si poria in quella cosa nella qual si dee usar più studio; e la industria che si mette nello scrivere, in loco di giovar, nocerebbe. Però certo è, che quello che si conviene nello scrivere, si convien ancor nel parlare; e quel parlar è bellissimo, che è simile ai scritti belli. Estimo ancora, che molto più sia necessario l'esser inteso nello scrivere, che nel parlare; perchè quelli che scrivono non son sempre presenti a quelli che leggono, come quelli che parlano a quelli che parlano. Però io laudarei che l'uomo, oltre al fuggir molte parole antiche toscane, s'assicurasse ancor d'usare, e scrivendo e parlando, quelle che oggidi sono in consuetudine in Toscana e negli altri lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia. E parmi che chi s' impone altra legge, non sia ben sicuro di non incorrere in quella affettazione tanto biasimata, della qual dianzi dicevamo.

XXX. Allora messer FEDERICO, Signor Conte, disse, io non posso negarvi che la scrittura non sia un modo di parlare. Dico ben, che se le parole che si dicono hanno in sè qualche oscurità, quel ragionamento non penetra nell'animo di chi ode, e passando senza essere inteso, diventa vano: il che non interviene nello scrivere; chè se le parole che usa il scrittore portan seco un poco non dirò di difficoltà, ma d'acutezza recondita, e non cosi nota come quelle che si dicono parlando ordinariamente, dànno una certa maggior autorità alla scrittura, e fanno che 'l lettore va più ritenuto e sopra di sè, e meglio considera, e si diletta dello ingegno e dottrina di chi scrive; e col buon giudicio affaticandosi un poco, gusta quel piacere che s' ha nel conseguir le cose difficili. E se la ignoranza di chi legge è tanta, che non possa superar quelle difficoltà, non è la colpa dello scrittore, nè per questo si dee stimar che quella lingua non sia bella. Però, nello scrivere credo io che si convenga usar le parole

LIBRO PRIMO.

41 toscane, e solamente le usate dagli antichi Toscani; perché quello è gran testimonio ed approvato dal tempo che sian buone, e significative di quello perchè si dicono; ed oltra questo, hanno quella grazia e venerazion che l'antiquità presta non solamente alle parole, ma agli edificii, alle statue, alle pitture, e ad ogni cosa che è bastante a conservarla; e spesso solamente con quel splendore e dignità, fanno la elocuzion bella, dalla virtù della quale ed eleganza ogni subietto, per basso che egli sia, può esser tanto adornato, che merita somma laude. Ma questa vostra consuetudine, di cui voi fate tanto caso, a me par molto pericolosa, e spesso può esser mala; e se qualche vizio di parlar si ritrova esser invalso in molti ignoranti, non per questo parmi che si debba pigliar per una regola, ed esser dagli altri seguitato. Oltre a questo, le consuetudini sono molto varie, nè è città nobile in Italia che non abbia diversa maniera di parlar da tutte l'altre. Però non vi ristringendo voi a dichiarir qual sia la migliore, potrebbe l'uomo attaccarsi alla bergamasca cosi come alla fiorentina, e secondo voi non sarebbe error alcuno. Parmi adunque, che a chi vuol fuggir ogni dubio ed esser ben sicuro, sia necessario proporsi ad imitar uno, il quale di consentimento di tutti sia estimato buono, ed averlo sempre per guida e scudo contra chi volesse riprendere : e questo (nel volgar dico) non penso che abbia da esser altro che il Petrarca e 'l Boccaccio; e chi da questi dui si discosta, va tentoni, come chi cammina per le tenebre senza lume, e però spesso erra la strada. Ma noi altri siamo tanto arditi, che non degnamo di far quello che hanno fatto i buoni antichi; cioè attendere alla imitazione, senza la quale estimo io che non si possa scriver bene. E gran testimonio di questo parmi che ci dimostri Virgilio; il quale, benchè con quello ingegno e giudicio tanto divino togliesse la speranza a tutti i posteri che alcun mai potesse ben imitar lui, volse però imitar Omero.

XXXI. Allor il signor GASPAR PALLAVICINO, Questa disputazion, disse, dello scrivere, in vero è ben degna d'esser udita: nientedimeno, più farebbe al proposito nostro se voi c'insegnaste di che modo debba parlar il Cortegiano, perché

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