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XLIII. E s'io parlassi con essi o con altri che fossino d'opinion contraria alla mia, mi sforzarei mostrar loro, quanto le lettere, le quali veramente da Dio son state agli uomini concedute per un supremo dono, siano utili e necessarie alla vita ed alla dignità nostra; nè mi mancheriano esempii di tanti eccellenti capitani antichi, i quali tutti giunsero l'ornamento delle lettere alla virtù dell' arme. Chè, come sapete, Alessandro ebbe in tanta venerazione Omero, che la Iliade sempre si teneva a capo del letto; e non solamente a questi studii, ma alle speculazioni filosofice diede grandissima opera sotto la disciplina d'Aristotele. Alcibiade le buone condizioni sue accrebbe e fece maggiori con le lettere, e con gli ammaestramenti di Socrate. Cesare quanta opera desse ai studii, ancor fanno testimonio quelle cose che da esso divinamente scritte si ritrovano. Scipione Africano dicesi che mai di mano non si levava i libri di Senofonte, dove instituisce sotto 'l nome di Ciro un perfetto re. Potrei dirvi di Lucullo, di Silla, di Pompeo, di Bruto e di molt'altri Romani e Greci ; ma solamente ricordarò che Annibale, tanto eccellente capitano, ma però di natura feroce ed alieno da ogni umanità, infedele e dispregiator degli uomini e degli dei, pur ebbe notizia di lettere e cognizion della lingua greca; e, s'io non erro, parmi aver letto già, che esso un libro pur in lingua greca lasciò da sè composto. Ma questo dire a voi è superfluo, chè ben so io che tutti conoscete quanto s'ingannano i Franzesi pensando che le lettere nuocciano all' arme. Sapete che delle cose grandi ed arrischiate nella guerra il vero stimolo è la gloria; e chi per guadagno o per altra causa a ciò si move, oltre che mai non fa cosa buona, non merita esser chiamato gentiluomo, ma vilissimo mercatante. E che la vera gloria sia quella che si commenda al sacro tesauro delle lettere, ognun può comprendere, eccetto quegli infelici che gustate non l'hanno. Qual animo è cosi demesso, timido ed umile, che, leggendo i fatti e le grandezze di Cesare, d'Alessandro, di Scipione, d'Annibale e di tanti altri, non s'infiammi d'un ardentissimo desiderio d' esser simile a quelli, e non posponga questa vita caduca di dui giorni per acquistar quella famosa quasi perpetua, la quale, a dispetto della

morte, viver lo fa più chiaro assai che prima? Ma chi non sente la dolcezza delle lettere, saper ancor non può quanta sia la grandezza della gloria cosi lungamente da esse conservata, e solamente quella misura con la età d'un uomo, o di dui, perchè di più oltre non tien memoria: però questa breve tanto estimar non può, quanto faria quella quasi perpetua, se per sua disgrazia non gli fosse vetato il conoscerla ; e non estimandola tanto, ragionevol cosa è ancor credere, che tanto non si metta a pericolo per conseguirla come chi la conosce. Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse gli effetti contrarii, per rifiutar la mia opinione, allegandomi, gli Italiani col lor saper lettere aver mostrato poco valor nell'arme da un tempo in qua: il che pur troppo è più che vero; ma certo ben si poria dir, la colpa d'alcuni pochi aver dato, oltre al grave danno, perpetuo biasimo a tutti gli altri; e la vera causa delle nostre ruine e della virtù prostrata, se non morta, negli animi nostri, esser da quelli proceduta: ma assai più a noi saria vergognoso il publicarla, che a' Franzesi il non saper lettere. Però meglio è passar con silenzio quello che senza dolor ricordar non si può ; e, fuggendo questo proposito, nel quale contra mia voglia entrato sono, tornar al nostro Cortegiano.

XLIV. Il qual voglio che nelle lettere sia più che mediocremente erudito, almeno in questi studii che chiamamo d'umanità; e non solamente della lingua latina ma ancor della greca abbia cognizione, per le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono. Sia versato nei poeti, e non meno negli oratori ed istorici, ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua volgare; chè, oltre al contento che egli stesso pigliarà, per questo mezzo non gli mancheran mai piacevoli intertenimenti con donne, le quali per ordinario amano tali cose. E se, o per altre faccende o per poco studio, non giugnerà a tal perfezione che i suoi scritti siano degni di molta laude, sia cauto in sopprimergli, per non far ridere altrui di sè, e solamente i mostri ad amico di chi fidar si possa; perchè almeno in tanto li giovaranno, che per quella esercitazion saprà giudicar le cose d'altrui: chè invero rare volte intervie

ne, che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie de' scrittori, nè gustar la dolcezza ed eccellenza de' stili, e quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi. Ed oltre a ciò, farànnolo questi studii copioso, e, come rispose Aristippo a quel tiranno, ardito in parlar sicuramente con ognuno. Voglio ben però, che 'l nostro Cortegiano fisso si tenga nell'animo un precetto; cioè che in questo ed in ogni altra cosa sia sempre avvertito e timido più presto che audace, e guardi di non persuadersi falsamente di sapere quello che non sa: perchè da natura tutti siamo avidi troppo più che non si devria di laude, e più amano le orecchie nostre la melodia delle parole che ci laudano, che qualunque altro soavissimo canto o suono; e però spesso, come voci di Sirene, sono causa di sommergere chi a tal fallace armonia bene non se le ottura. Conoscendo questo pericolo, si è ritrovato tra gli antichi sapienti chi ha scritto libri, in qual modo possa l'uomo conoscere il vero amico dall'adulatore. Ma questo che giova? se molti, anzi infiniti son quelli che manifestamente comprendono esser adulati, e pur amano chi gli adula, ed hanno in odio chi dice lor il vero? e spesso parendogli che chi lauda sia troppo parco in dire, essi medesimi lo ajutano, e di sè stessi dicono tali cose, che lo impudentissimo adulator se ne vergogna. Lasciamo questi ciechi nel lor errore, e facciamo che 'l nostro Cortegiano sia di cosi buon giudicio, che non si lasci dar ad intendere il nero per lo bianco, nè presuma di sè, se non quanto ben chiaramente conosce esser vero; e massimamente in quelle cose, che nel suo gioco, se ben avete a memoria, messer Cesare ricordò che noi più volte avevamo usate per instrumento di far impazzir molti. Anzi, per non errar, se ben conosce le laudi che date gli sono esser vere, non le consenta così apertamente, nè cosi senza contradizione le confermi; ma piuttosto modestamente quasi le nieghi, mostrando sempre e tenendo in effetto per sua principal professione l'arme, e l'altre buone condizioni tutte per ornamento di quelle; e massimamente tra i soldati, per non far come coloro che ne' studii voglion parere uomini di guerra, e tra gli uomini di guerra

litterati. In questo modo, per le ragioni che avemo dette, fuggirà l'affettazione, e le cose mediocri che farà parranno grandissime.

XLV. Rispose quivi messer PIETRO BEMBO: Io non so, Conte, come voi vogliate che questo Cortegiano, essendo litterato, e con tante altre virtuose qualità, tenga ogni cosa per ornamento dell' arme, e non l'arme e 'l resto per ornamento delle lettere; le quali, senza altra compagnia, tanto son di dignità all' arme superiori, quanto l'animo al corpo, per appartenere propriamente la operazion d'esse all' animo, cosi come quella delle arme al corpo. Rispose allor il CONTE: Anzi, all' animo ed al corpo appartiene la operazion dell' arme. Ma non voglio, messer Pietro, che voi di tal causa siate giudice, perchè sareste troppo sospetto ad una delle parti ed essendo già stata questa disputazione lungamente agitata da uomini sapientissimi, non è bisogno rinovarla; ma io la tengo per diffinita in favore dell' arme, e voglio che 'l nostro Cortegiano, poich'io posso ad arbitrio mio formarlo, esso ancor cosi la estimi. E se voi sete di contrario parer, aspettate d'udirne una disputazion, nella qual così sia licito a chi difende la ragion dell' arme operar l'arme, come quelli che difendon le lettere oprano in tal difesa le medesime lettere; chè se ognuno si valerà de' suoi instrumenti, vedrete che i litterati perderanno. — Ah, disse messer PIETRO, voi dianzi avete dannati i Franzesi che poco apprezzan le lettere, e detto quanto lume di gloria esse mostrano agli uomini, e come gli facciano immortali; ed or pare che abbiate mutata sentenza. Non vi ricorda, che

Giunto Alessandro alla famosa tomba
Del fero Achille, sospirando disse:
O fortunato, che sì chiara tromba
Trovasti, e chi di te sì alto scrisse!

E se Alessandro ebbe invidia ad Achille non de' suoi fatti, ma della fortuna che prestato gli avea tanta felicità che le cose sue fosseno celebrate da Omero, comprender si può che estimasse più le lettere d' Omero, che l'arme d'Achille. Qual altro giudice adunque o qual' altra sentenza aspettate voi

della dignità dell'arme e delle lettere, che quella che fu data da un de' più gran capitani che mai sia stato?

XLVI. Rispose allora il CONTE: Io biasimo i Franzesi che estiman le lettere nuocere alla profession dell' arme, e tengo che a niun più si convenga l'esser litterato che ad un uom di guerra; e queste due condizioni concatenate, e l'una dall'altra ajutate, il che è convenientissimo, voglio che siano nel nostro Cortegiano: nè per questo parmi esser mutato d'opinione. Ma, come ho detto, disputar non voglio qual d'esse sia più degna di laude. Basta che i litterati quasi mai non pigliano a laudare, se non uomini grandi e fatti gloriosi, i quali da sè meritano laude per la propria essenzial virtute donde nascono; oltre a ciò sono nobilissima materia dei scrittori: il che è grande ornamento, ed in parte causa di perpetuare i scritti, li quali forse non sariano tanto letti nė apprezzati se mancasse loro il nobile suggetto, ma vani e di poco momento. E se Alessandro ebbe invidia ad Achille per esser laudato da chi fu, non conchiude però questo che estimasse più le lettere che l'arme; nelle quali se tanto si fosse conosciuto lontano da Achille, come nel scrivere estimava che dovessero esser da Omero tutti quelli che di lui fossero per scrivere, son certo che molto prima averia desiderato il ben fare in sè, che il ben dire in altri. Però questa credo io che fosse una tacita laude di sè stesso, ed un desiderar quello che aver non gli pareva, cioè la suprema eccellenza d'un scrittore; e non quello che già si presumeva aver conseguito, cioè la virtù dell'arme, nella quale non estimava che Achille punto gli fosse superiore: onde chiamollo fortunato, quasi accennando, che se la fama sua per lo innanzi non fosse tanto celebrata al mondo come quella, che era per così divin poema chiara ed illustre, non procedesse perchè il valore ed i meriti non fossero tanti e di tanta laude degni, ma nascesse dalla fortuna, la quale avea parato inanti ad Achille quel miracolo di natura per gloriosa tromba dell'opere sue; e forse ancor volse eccitar qualche nobile ingegno a scrivere di sè, mostrando per questo dovergli esser tanto grato, quanto amava e venerava i sacri monumenti delle lettere: circa le quali omai s'è parlato a bastanza.

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