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date le vele a prospero vento, attraversò il mare ed a Brindisi si condusse.

Queste mosse avendo ingelositi i Turchi, gli spinsero a calare in grosso numero alla custodia ed a' presidi delle loro marine; onde da ciò prese il vicerè l'opportunità di chiedere ad altre Potenze soccorso, pubblicando non esser altro il suo scopo, che di abbattere l'inimico comune, e perciò chiedeva che si dovessero unir seco le galee del pontefice, di Malta e di Fiorenza. Ma dall'altra parte i ministri della Repubblica facevano altamente risonar il contrario alle corti di que' prìncipi, dicendo che l'Ossuna al primo visir avea inviati schiavi e doni per allettarlo, e con ogni sorte d'uffizio incitarlo a muovere contra la Repubblica l'armi; e fecero valer tanto i loro uffici, che non solo s'astennero que' principi di dare all'Ossuna le loro galee, ma procurarono divertirlo dall'impresa, dicendo che non servirebbe per altro che a svegliare i Turchi e tirargli nell'Adriatico a fronte del regno di Napoli e dello Stato ecclesiastico.

Ma non perciò il duca si ritenne d'inviar sotto Pietro di Leyva dicianove galee ad unirsi al Rivera, il quale, passato con questo nuovo soccorso a Santa Croce, e trovati a Lesina i Veneziani inferiori di forze, tentò di tirargli fuori a combattere; ma costoro, fermi solo alla difesa, sopragiunta la notte, obbligarono l'armata spagnuola a ritirarsi in Brindisi con la preda d'un navilio di sali e d'un vascello d'Olanda, che, navigando con alcuni soldati di quelle levate, si trovò soprafatto dalle navi dell'Ossuna. I Veneziani per

ciò, seriamente pensando all' importanza dell'affare, ingrossarono la loro armata; e dall'altra parte l'Ossuna accrebbe la sua a diciotto navi e trentatre galee, la quale comparse sopra Lesina con animo di provocar la veneta alla battaglia. Ed intanto i ministri spagnuoli, per atterrire con la fama di vasti apparecchi, avean fatto precorrer voce che l'armata de' galeoni, solita a custodire la navigazione dell'Oceano, entrando nello stretto di Gibilterra, penetrerebbe nell'Adriatico, e che in Sicilia pure s' armavano di nuovo moltissimi legni; le quali voci erano in parte accreditate dalle ardite procedure del vicerè, il quale, oltre d'aver ingrossata con alquante galee la squadra del Leyva, faceva scorrere dagli Uscocchi tutto il golfo, i quali colle loro barche insultavano fino in vista de' porti di Venezia istessa con depredazioni e con danni gravissimi; tanto che obbligò il senato a disporre qualche galea alla guardia di Chioggia, ed a scegliere in Venezia certo numero di gente atta all'armi. Ciò che riuscendo nuovo in quella città, avea posto il popolo in non poco scompiglio, il quale per una falsa voce insorta che essendosi già combattuto dalle due armate intorno Lesina, i Veneziani avessero ottenuta una insigne vittoria sopra gli Spagnuoli, era corso impetuosamente per manomettere la persona e la casa di don Alfonso della Queva, marchese di Bedmar, ambasciadore del re Filippo in Venezia, creduto principal istigatore de' tentativi dell' Ossuna.

Le due armate però intorno Lesina, ancorché la spagnuola avesse provocata la veneta, non

vennero maí a battaglia; onde il Leyva, vedendo che i Veneziani s'erano posti su la difesa del porto, s'allargò a Traù vecchio, dove incendiò il paese e predò molte barche. Indi colle galee speditamente verso Zara trascorse; dove per una preda offertaglisi si divertì da maggior vittoria; poichè, con tutto che avesse precisi ordini di tentar la sorpresa e l'occupazione di Polo, o d'alcun altro porto nell'Istria, egli, scontrandosi a due galee di mercatanzia, avido della preda, si trattenne ad occuparle con alcuni legni che conducevano provvisioni di vitto all'armata nemica; onde, sopragiunti da questa gli Spagnuoli, ed imbarazzati in oltre co' legni predati e con le ricchissime spoglie, traversato il mare verso il monte Gargano, radendo le rive, finalmente a Brindisi si ricondussero, e poco da poi le lor galee uscirono dal golfo. Il vicerè di ciò ne rimproverò acremente il Leyva, che per quella preda si fosse perduta l'opportunità d'una più importante conquista; ad ogni modo, ostentando la preda, fece condurre a Napoli le merci ed i legni, molto godendo del dispiacere che in Venezia n'appariva.

Esclamavano intanto i ministri della Repubblica in tutte le corti de' principi di questi atti ostili dell'Ossuna, il quale in mezzo a' trattati di pace oltraggiava il Golfo, creduto di lor dominio, e che procurava, avendo intelligenza coi Turchi, tirar le armi di quelli a' danni della Repubblica, i quali, pretendendo rifacimento del danno ancor da essi sofferto in quella preda, minacciavano di prenderne ragione coll'armi

contro la Repubblica. Ma nell'istesso tempo non tralasciava il duca ancor egli di declamare contro i Veneziani, dicendo esser pur troppo insoffribili i loro vanti del dominio che sognano di quel mare: essere per ragion delle genti la navigazion libera, e molto meno potersi pretendere di vietarla all'armate del re Cattolico, che non conosce superiore alcuno nel mondo. A questi tempi e per tali occasioni narrasi che il marchese di Bedmar, ambasciadore del re Cattolico in Venezia, per toccar più sensibilmente i Veneziani, avesse fatto comporre da M. Velsero, o, come altri tengono, da Niccolò Peireschio (ciò che parimente si suspica, da quel che Gassendo ne scrisse nella di lui Vita) quel libro intitolato: Squittinio della libertà veneta. Questo libro acerbamente trafisse i Veneziani, i quali con difficoltà poterono trovar altro condegno scrittore che lo confutasse, e che finalmente, non trovando altri, vi fecero rispondere da Teodoro Grass Winckd, olandese, il quale ne compose uno opposto titolo: Majestas Reipublicae Venetae, siccome da poi fecero Scipione Errico e Raffael della Torre, genovese.

col

(Burcardo Struvio (1), ciò che conferma nel Syntagma Juris publici Imp. R. G., cap. 2, 17, scrisse, il vero autore di questo libro essere stato Alfonso della Queva; e dirà vero, se intende che costui, il quale era lo stesso che il marchese di Bedmar, allora ambasciadore del re Cattolico in Venezia, dêsse commessione a M. Velsero

(1) Struvio, Bibliot. Hist., c. 21, § 29. GIANNONE, T. XIII.

o ad altri di comporlo, ma non già ch'egli dettato l'avesse o composto.)

(Narrasi che il doge di Venezia avendo data commessione a frà Paolo Sarpi, il quale avea sì bene e dottamente confutate tante scritture uscite in difesa di Paolo V, in quella briga che prese colla Repubblica, che rispondesse anche a questo libro; frà Paolo, saviamente considerando l'arduità dell'impresa, gli avesse risposto: Serenissime, ne moveas camerinam; immotam hanc expedit esse.)

Scrisse parimente l'Ossuna una grave lettera al pontefice Paolo V, rappresentandogli le soverchierie de' Veneziani, e la necessità ond' era stato costretto alle spedizioni da lui fatte nell' Adriatico; e punto di ciò che coloro gli addossavano d'aver amistà ed intelligenza col Turco, gli diceva che gli Spagnuoli non avevan avuta mai tregua nè pace, com' essi, col Turco; e che la guerra che egli ad essi faceva, non era contro Cristiani, perchè essi non erano tali, se non nel nome; poichè avendogli nelle contese passate negata l'ubbidienza, perdendogli il rispetto, non potevano dirsi Cattolici; e molto più per aver discacciata da' loro Stati una religione cotanto esemplare e zelante del servigio di Dio, quanto era quella della Compagnia di Gesù: pagando oltre a ciò gli eretici di Francia, che tengono nel servizio del duca di Savoia, e gli eretici d' Olanda, che tengono stipendiati nelle loro armate ed eserciti, profanando le chiese delle terre dell' arciduca; e che perciò lui desiderava sapere di che religione essi erano, e se fossero forse Cristiani, come sono i Mori e gli eretici.

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