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Ma mentre tra l'Ossuna ed i Veneziani le contese erano nel maggior fervore, non si tralasciavano i trattati di pace, la quale, trasferita la negoziazione di Spagna in Francia, finalmente si conchiuse in Parigi e si distese in Madrid, dove si conchiusero le condizioni d'essa, accettate dalla Repubblica; onde alle doglianze che il di lei ambasciadore fece alla corte di Madrid contro l'Ossuna, comandò il re al medesimo che restituisse al ministro della Repubblica residente in Napoli i vascelli e le merci.

Non meno al Toledo, governador di Milano, ed al marchese di Bedmar, ambasciadore del re cattolico in Venezia, che all'Ossuna dispiacque questa pace, e procuravano a tutto potere porre ostacoli in eseguire le condizioni. Ma sopra ogni altro l'Ossuna, col pretesto che i Veneziani fabbricavano un forte a Santa Croce, pubblicava perciò di voler invadere di nuovo il Golfo; ed all'ordine venutogli di render i legni e le merci, si mostrò pronto di ubbidire solamente in quanto a consegnare i legni a Gaspare Spinelli, residente della Repubblica, ma non già interamente le merci, dicendo che gran parte di quelle s'erano ac quistate al fisco regio, per appartenersi ad Ebrei ed a Turchi, nemici della corona di Spagna; onde, non volendo ricevere il residente il resto of fertogli, si venne di nuovo alle invasioni, ed il duca inviò con dicianove navi da guerra di nuovo nell'Adriatico Francesco Rivera. Non minori difficoltà frapponeva il governador di Milano all'esecuzione per ciò che s'apparteneva dal suo canto; onde il pontefice, i Francesi e gli altri

principi, frappostisi per fargli quietare, estorsero dal marchese di Bedmar che dêsse parola al senato veneto che tutto sarebbesi restituito. Ma contuttociò sempre sorgevano nuovi ostacoli, finchè finalmente, datasi esecuzione in Piemonte ed in Istria alla pace, ritirossi il Rivera nel porto di Brindisi coll'armata; ed i Veneziani, ora più che mai esclamando nella corte di Madrid contro l'Ossuna, ottennero da quella che, tolto da mezzo il vicerè, l'affare della restituzione de' legni e delle merci fosse commesso al cardinal Borgia, con ordine che lo componesse insieme oon Girolamo Soranzo, ambasciadore della Repubblica in Roma.

Ma nel nuovo anno 1618 si scoprirono le cagioni ond'avveniva che, non ostante la pace, Ï'Ossuna, il Toledo e la Queva tenevano sempre legni armati ne' porti dell'Adriatico, i quali non tralasciavano di scorrere il mare, e con ciò tener solleciti i Veneziani; onde sovente sortivano delle rappresaglie ne' porti, con gravi doglianze de' Napoletani, che rappresentarono in Ispagna i danni che perciò soffrivano. Tutto nasceva dall'esito che s'attendeva d'una congiura che il marchese di Bedmar maneggiava in Venezia con partecipazione dell'Ossuna e del Toledo. Avea il marchese tentato in Venezia tutte le arti per accrescersi partigiani, procurando ancora di sviar molti dall'insegne e servizio della Repubblica, e d'introdurne degli altri per valersene all'occasione. Tra questi principalmente l'Ossuna inviò un tal Jacques Pierre, francese di Normandia e corsaro di professione, ma di spirito grande. Co

stui, finti coll'Ossuna disgusti, mostrò di voler vendicarsi passando al servizio della Repubblica, e con facilità vi fu accolto con un compagno chiamato Langlad, perito in maneggio di fuochi. L'Ossuna, mostrandosi di ciò fieramente sdegnato, faceva custodire la moglie del Pierre, e con lettere finte proponendogli gran premii, lo richiamava al servizio. Egli, all'incontro, per rendersi accetto in Venezia, mostrava le lettere istesse, proponeva molte cose speziose, simulava di propalar i disegni del vicerè, e suggerire i mezzi per contraporvisi. Conciliatasi pertanto gran confidenza, s'introdusse col Langlad nell'arsenale ad esercitare la sua arte. In occulto teneva poi con la Queva congressi, e di continuo secretamente passavano a Napoli corrieri e spie, avendo intanto aggregati alcuni Borgognoni e Francesi al lor partito. Il concerto era che, sotto un Inglese, chiamato Haillot, l'Ossuna spingesse alcuni bergantini e barche capaci d'entrare ne' porti e canali, de' quali avevano per tutto preso la misura ed il fondo: dovevano poi seguitare più grossi vascelli per gittar l'ancore nelle spiagge del Friuli, sotto il calor de' quali, e nella confusione che i primi erano per apportare nel popolo, i congiurati s'avevano divisi gli uffici, il Langlad di dar fuoco nell'arsenale, altri in più parti della città, alcuni manometter la zecca, prendere i posti più principali, trucidare i nobili, e tatti d'arricchirsi con dare alla città spaventevol

sacco.

Ma mentre i bergantini s' apprestavano per unirsi insieme, alcuni furono presi da fuste cor

sare, altri dissipati da fiera tempesta: onde non potendo i congiurati raccogliersi al tempo concertato, loro convenne differire l'esecuzione al prossimo autunno. Il Pierre ed il Langlad, comandati a salire sopra l'armata, non poterono negare di partire col capitan generale Barbarigo. Gli altri rimasi in Venezia non cessavano di ruminare i modi dell'esecuzione, impazientemente attendendone il tempo. Ma frequentandosi tra loro i discorsi, e per aggregarsi compagni dilatandosi tra altri delle loro nazioni la confidenza ed il segreto: Gabriele Moncassino e Baldassarre Juven, gentiluomini, quegli di Normandia e questi del Delfinato, discoprirono al Consiglio de' Dieci il concerto. Carcerati perciò alcuni cospiratori, restò il tradimento comprovato, e da scritture che si trovarono e dalla confessione de' medesimi rei, che ne pagarono con pubblico e severo supplicio la pena. Alcuni però dall'arresto de' compagni si sottrassero colla fuga, ricorrendo al loro asilo, ch'era appunto l'Ossuna; ma il Pierre ed il Langlad, per ordine spedito al capitan generale, furono affogati nel mare. La città di Venezia inorridi allo scoprimento di tal congiura, ed al pericolo corso di veder ardere i tempii e le case; onde il marchese di Bedmar, che era riputato il direttore ed il ministro di così pravi disegni, vedendosi in grande pericolo d'essere dal furore del popolo sagrificato al pubblico sdego, deliberò ritirarsi nascostamente a Milano. Aveva già il Senato con espresso corriero risolutamente richiesto al re Filippo che lo rimovesse; onde disapprovandosi dalla corte di Ma

drid (essendo solito che a' principi di tali negoziati piacciano più gli effetti che i mezzi) fu all'ambasciador veneto risposto, che già essendosi destinato a Queva Luigi Bravo per successore, dovea egli passare in Fiandra per assistere all' arciduca Alberto.

Il nostro vicerè, scoverta la congiura, negava d'esserne stato a parte. Tuttavia il mondo lo condannava per reo, vedendo che appresso di lui s'erano ricovrati i fuggitivi; e la vedova del Pierre, posta in libertà, essere stata inviata a Malta con onorevole scorta. Ma egli niente di tali rumori sgomentandosi, non lasciava di tener sempre pronti ed armati i suoi legni in suo nome con dispendio immenso, e con is provvedere d'artiglierie le fortezze principali del regno. Di che se ne facevano acerbe doglianze alla corte, alle quali unendosi gli uffici che di continuo si facevano dall'ambasciador veneto, si pensava di le varlo dal governo; ma egli, coll'aiuto de' suoi congiunti ed amici che teneva in Madrid, e colle spesse rappresentazioni che faceva al re de' suoi segnalati servigi, costantemente difendeva le sue procedure, ed intanto non tralasciava di molestare i Veneziani nell'Adriatico.

Crescevano tuttavia le accuse contra il duca di trattare il regno crudelmente, facendogli sopportare gl' incomodi di soldatesche. Dipinsero ancora al re la scandalosa sua vita, che, ad onta della duchessa sua moglie, non contento delle pubbliche meretrici, si faceva lecito di conversare con troppa libertà con le dame più principali, dando con ciò motivo al volgo di lacerar

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