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quale accade l'anno 1444, il 24 settembre, il giorno appresso ch'egli ebbe dettato il suo testamento.

Gli eventi poi fecer che alcuni come profetiche riguardassero le parole di Vittorino al Marchese, quando diceagli, che temeva di qualche disgrazia ove si fosse violentata Cecilia a sposare il Conte d'Urbino; perciocchè tragico fu il fine di costui poco appresso. Era questo giovine violentemente inchinato alla libi. dine a segno tale che, non conoscendo alcun limite, a ciò pure istigato da un suo perfido precettore, compagno e complice nelle notturne sue scorrerie, disonorava le più reputate matrone d'Urbino, onde que'cittadini, non potendo più sostener tanto vituperic, levati a tumulto l'uccisero in compagnia dell'infame suo istigatore (1), il che avvenne altresì l'anno 1444, ai 22 di luglio, secondo che convengono tutti gli storici, cioè due mesi prima della morte del Marchese

questo scrittore da una lettera di Matteo Bosso De immoderato mulierum ornatu, che ciò afferma. Ad onta di tutto ciò osiam dubitare della verità di tal circostanza. Come mai s'accordano a tacer d'un tal fatto tutti i biografi Vittoriniani, quando un tal fatto era così glorioso non tanto a Cecilia, quando al di lei precettor Vittorino? Oltracciò già sappiamo esser falso ciò che Monsignor della Chiesa qui narraci, cioè che il Marchese concedesse licenza alla figliuola, in grazia della bella orazion recitata, di monacarsi, poichè nol permise mai mentre visse, come il Prendilacqua assicuraci, e l'articolo del testamento da noi riportato più sopra. Forse che Cecilia lesse al padre e agli amici la bella lettera a lei dal Corraro diretta appunto in lode della vita monastica, onde i meno informati credettero per avventura che fosse opera sua.

(1) AEneae Silv., Hist. de Europa. Cap. LXI, pag. 465. Oper.

Rosmini

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di Mantova (1). Ecco il bello sposo che dovea aver la mano dell'incomparabil Cecilia (2).

Questa virtuosa fanciulla entrò nel convento di Santa Paola, fondato dalla Madre ( ch'ivi pure in appresso si ritirò e mori com'è detto) sin dall'anno 1420, e vi cessò di vivere l'anno 1451 in concetto di santità, essendo posta nel Martirologico Francescano col nome di Beata Chiara Gonzaga (3).

(1) Con questa data l'abbaglio correggasi del Prendilacqua, il qual dice, pag. 91, che, morto il padre, Cecilia entrò in Monastero dopo averne il permesso ottenuto dal destinatole sposo, dataque a sponso venia, il che non potè essere, non essendo allora il conte d'Urbino più vivo.

(2) Non solamente fu libidinoso questo conte d'Urbino, ma fu crudele a segno da non invidiar lo stesso Nerone. Girolamo Rorario da Pordenone, nel suo bello e curioso Trattato, quod animalia bruta ratione melius utantur homine, pag. 20 dell'ediz. d'Amsterdam, 1654, dice, che costui fece bruciar vivo un suo cameriere, involto in un lenzuolo od altra cosa sparsa di pece e di zolfo, per non avergli in istanza recato il lume all'ora da lui fissatagli.

(3) Bettinelli, Delle lettere e dell'arti Mantovane, discorsi accademici, pag. 34. Molti hanno parlato di questa celebre Cecilia Gonzaga, ma non senza sparger d'errori quanto hanno detto. Nulla dico del Bayle, che le ha consacrato un articolo nel suo Dizionario: comechè abbia preso de' grossi granchi, pure n' ha corretti anche molti degli altri scrittori singolarmente oltramontani. Che diremo de' nostri, ch'essi pure hanno sbagliato intorno alla Cecilia di cui qui si parla per non avere avvertito che due furono le Cecilie Gonzaghe, la nostra, che fu figliuola di Gian-Francesco, e un'altra di Lodovico, che morì pur Monaca in Santa Paola l'anno 1474? Il Possevino Mantovano, nella sua Storia della famiglia Gonzaga, dice essere stata fama che la Cecilia, figliuola di Lodovico, fosse nata inlegittima, e che quindi fosse cacciata in

Dagli accennati esempli è palese qual fosse la fermezza e il coraggio di Vittorino qualor trattavasi di difendere la virtù e l'innocenza, e di compiere a' proprj doveri, e qual fosse il credito di che godea presso il suo Principe. Infatti il Marchese, conoscendo il cuore, la fedeltà e lo sviscerato attaccamento che quest'uomo professava alla sua famiglia, il trattò sempre non tanto come il più caro de' suoi cortigiani, ma il venerò come Padre. È quella stessa libertà filosofica con cui Vittorino si facea incontro al furor de' suoi sdegni, in luogo di disgustarlo, come de' cattivi principi avviene, a lui vie maggiormente lo stringeva, il che onora amendue. È ben vero però che la virtù non infinta è sempre di sè stessa sicura e nulla teme giammai, e la sua bellezza è si incontaminata, si semplice, sì seducente, che di leggieri trionfa de' lisci, e e degl'impuri artifizj del vizio, ch'è sempre timido al suo confronto. Ond'è che nelle corti singolarmente non si troverà altri che l'uom virtuoso, che ardisca parlar liberamente al suo principe, e de' suoi stessi errori correggerlo. Vittorino si lagnava talvolta col Gonzaga de' poco onesti discorsi, che gli venia riferito tenersi in corte da'suoi cortigiani; a che volendo addur sue scuse il Marchese, col dire ch'egli non nutriva mai o fomentava tali propositi, Vittorino gli chiudeva la parola in bocca, affermando, che ciò che i cortigiani diceano alla presenza del Principe, dal Principe stesso ei reputavalo detto, poichè nulla in corte facevasi o proferivasi che dall'oracolo del Signore

Monastero per coprir quella vergogna. Sunt qui Cæciliam furto habitam riferiunt, etc. Monialibus additam tegendo pudori. Ma egli è per avventura solo il Possevino a ciò af fermare, e certo ignorasi di quanto egli dice il fondamento. Alla nostra Cecilia appartiene la bella medaglia che il celebre Pisano coniò l'anno 1447.

d'essa non procedesse, di cui i cortigiani erano scimmie. I consigliava però, qualora ei giugnesse co' Principi suoi discepoli, a far tacere quegl'impuri ciarlieri, perciocchè, ove ciò non si eseguisse, più non avrebbe condotti alla sua presenza i figliuoli (1). Piacesse al cielo però che il Marchese di Mantova avesse creduto a Vittorino anche in quelle cose che più da vicino riguardavano il bene de' proprj stati, che a'propri stati ed a sè stesso avrebbe risparmiate grandi sventure!

Abbiam già veduto che i Veneziani come seppero che Lodovico Gonzaza fuggito da Mantova s'era condotto a Milano presso quel Duca, lor capitale nemico, si persuasero che ciò non poteva accadere senza il tacito consentimento del Padre, e perciò cominciarono a formar sospetti della sua fedeltà, i quali venuti all'orecchio del Marchese, egli altamente se ne sdegnò, e risolvette di rinunziar il baston del comando dell'armi repubblicane. Ma non essendo la sua rinunzia allora accettata, perchè non ancora spirato era il termine di sua condotta, ciò fece solennemente si tosto che questa ebbe fine; tanto più che continui dispia ceri ed insulti ricevea dalla parte de' Veneziani, anzi avea motivo di sospettare non si tendessero insidie alla sua vita medesima (2). Tentò più volte il Senato Veneto, anche con isplendide ambascerie, di muoverlo a riprendere il comando de' suoi eserciti, ma sempre indarno, scusandosi egli col pretesto di voler da quindi innanzi viver tranquillo al governo de' suoi dominj (3). La verità però era, ó che vendicar si volesse della veneta alterigia, e degl' insulti sofferti, o che che

(1) Prend, pag. 92.

(2) Platin., Hist. Mant. Lib. V, pag. 815.

(3) Scipione Agnello Maffei, Annali di Mantova, Lib. X, Cap. VII.

altro il movesse, ch'egli era risoluto di collegarsi con Filippo Maria Visconti, duca di Milano, ai danni della Signoria di Venezia, il che effettuò l'anno 1438. teveva il Vittorino come ciò seppe, da che non Marchese a lui nascoste le sue deliberazioni più arcane, fece tutti gli sforzi possibili onde dissuaderlo dall'entrar in guerra co' Veneziani, comechè confessasse però esser fortissimi i motivi che avea il Principe d'essere disgustato di quell'orgoglioso e prepotente dominio. Gli facea però considerare quanta fosse la possanza e la ricchezza di quella Repubblica che cogli stati suoi confináva, quanto incerta e sospetta la fede de' suoi alleati, e singolarmente del maggiore di tutti qual era il Duca di Milano. Gli dicea che co' proprj danari pagate avrebbe le spese di quella guerra, perdendo anche forse la vita, o almeno buona parte del suo dominio. A questa volta il Marchese, irritato, e dalle esortazioni de'suoi ministri spinto alla guerra, non badò punto a Vittorino, e operar volle a suo modo. Ma l'esito infelice pur troppo mostrò qual sagace politico fosse il Feltrense, perciocchè appuntino verificossi quant' egli aveva predetto. Perciocchè quantunque lietissimi fossero i primi avvenimenti, e dopo varie vicende assediata e all'estremità ridotta dall' armi del Marchese, e di Niccolò Piccinino fosse Brescia, espugnati Legnago, Lonato ed altri paesi della Riviera di Salò, Verona presa d'assalto, e tutto il suo territorio in podere de' collegati, grandissimo il numero de' prigioni nemici, sicchè parea che oggimai la Veneta Repubblica vicina fosse all'ultima sua distruzione almeno nel continente; tutto ad un cangiaron d'aspetto le cose. Gli alleati, come suole spesso avvenire, cominciarono a raffreddarsi, entrò l'invidia e la discordia fra i condottieri, il disordine e la ribellion nelle truppe. Intanto Francesco Sforza, forse il più grande, e certamente il più fortunato Ge

tratto

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