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UNO

XIV.

ALESSANDRO GONZAGA,

MANTOVANO.

NO de'più cari discepoli di Vittorino, che mai non si staccò dal fianco di lui insino al momento che la morte glielo strappò dalle braccia, fu Alessandro, l'ultimo de' figliuoli maschi del Marchese Gian-Francesco Gonzaga. Essendo egli vissuto sempre lontan dagli af

dalle imprese sanguinose guerresche, amante com'egli era delle innocenti dolcezze domestiche, e de' pacifici studj, trovò poca grazia presso gli storici che appena fan di lui ricordanza. Il Prendilacqua però l'ha introdotto nel Dialogo suo, e n'ha tessuto un magnifico elogio, di cui darem qui l'estratto (1), qualche altra cosa aggiugnendo che ci è venuto fatto di raccogliere altronde, e singolarmente per cortesia del non mai lodato abbastauza signor avvocato Leopoldo Camillo Volta.

a libertinaggio la morte del nostro Gonzaga. Ecco le parole di quello storico, comunicateci dal nostro venerato maestro ed amico signor abate Saverio Bettinelli, che d' altri bei lumi ci ha pure forniti per quest'opera nostra. Nota che a dì 11, Zennaro, 1448, mori Messer Zohan Lucido, e morite a Cerexaris perchè lui luxuriava troppo quellis Villanzolis. A che lo stesso signor abate Bettinelli soggiugne: Ciò non s'accorda coll'altre notizie dell'uom virtuoso ( intende parlar di Gianlucido ), e sarà stata una voce popolare di fatti lontani dalla città. Costui (lo Schivenoglia) era coetaneo, e scrivea su molte cose senza criterio, e senza stile, come si vede.

(1) Pag. 56.

Niuno meglio del nostro Alessandro imitò il suo maestro nelle virtù morali, singolarmante in cui riusci modello insigne, e superò tutti gli altri. Da fanciullo fu istrutto nella lingua greca, poscia nella latina, e fatto già adulto, tutto s'abbandonò a'sacri studj. Era docile, umile, modesto, e singolarmente ossequioso alla volontà del suo precettore. Se gli altri fanciulli compagni suoi, come accade, a qualche azion l'invitavano dal suo istruttor vietata, lusingandol con ciò che chi l'aveva proibita, era lontano, e mai nou l'avrebbe saputa, egli si scusava dal farla, dicendo, che Vittorino non era mai lontano da lui, perciocchè egli sempre con gli occhi lo vedea della mente, ed era risoluto di mai non far cosa che indegna fosse di si rispettabil presenza. Abbiamo altrove veduto che se mai per dimenticanza, o per leggerezza puerile cadeva in qualche erroruzzo, non avea pace insintanto che non l'avea al suo maestro confessato.

Medesimamente comportossi verso i suoi Genitori, i quali mai non ebber da lui il più piccolo motivo di dispiacenza. Morto il padre mentre egli non avea ancor compiuti i 21 anni, fu posto, secondo che il testamento paterno ordinava, sotto la tutela della sua genitrice, alla quale in ogni cosa volle essere soggetto anche allora che il privilegio dell' età l'assolveva da ogni soggezione. Amò sempre i fratelli, e non ebbe mai contenzione di sorta alcuna con esso loro, rispet tando e venerando qual padre il primogenito Lodovico. Non ebbe con alcun nimicizie, e soffri con pace le ingiurie fattegli, senza volerle giammai vendicare, il che era di troppo pericoloso invito ad un principe. Fu affabile e cortese con tutti, liberale poi a segno che a sollievo de' poveri ogni anno la parte maggiore consumava delle sue rendite, essendo egli, per ciò che s' apparteneva a sè stesso, in ogni cosa assai parco. Prese le redini del governo degli stati dal

padre lasciatigli amò la giustizia, ma

non gli soffri il cuore giammai di condannar a morte nessuno. Anzi compilò egli uno Statuto pieno d'ottimi regola menti, che anche in oggi appellasi Alessandrino, nel quale colmava di beneficenze e di privilegi i suoi sudditi. Suo consigliere ed amico fu nel breve intervallo che questi ancor visse il suo Vittorino, non risolvendo mai cosa alcuna senza il consiglio ed il consentimento di lui. I poveri e gli oppressi avean libero ingresso alle sue stanze in ogni ora del giorno, e anche in quelle in cui era a mensa. Non volle mai guardie che custodissero la sua persona. Per due ragioni dicea che i gran Principi teneau questi importuni satelliti intorno alla loro abitazione: L'una per non esser sorpresi, ed uccisi; l'altra per non essere colti in qualche poco onesta e turpe azione. Sè, dicea, non abbisognar di guardie, nè per l'uno nè per l'altro motivo: non per il primo, perchè non volendo esser temuto da alcuno, nè d'alcuno temeva; nè tampoco per il secondo, per. ciocchè s'era avvezzato a vivere in modo da poter esser veduto da molti senz' arrossire. Soggiugneva quindi, voler imitar i Principi Romani antichi, che di cenar si gloriavano in pubblico.

Amava di compor egli stesso le liti, di sedar le discordie domestiche, d'invitar i suoi sudditi, prece dendo sempre col proprio esempio, alla religione, alla virtù, alla purità de' costumi. Ebbe in moglie Agnesina di Montefeltro, figliuola di Gaudenzio Conte di Urbino, da lui sposata nel 1445, e che gli morì ai 16 di dicembre del 1447 senza lasciar di sè prole. Il resto della vita fu continentissimo. Ebbe comples sione debile e malaticcia, e corpo, dopo i primi anni, deforme assai; egli però soffri con cristiana rassegna. zione, anzi con spirituale allegrezza i suoi mali. In proposito di che non sarà inopportuno un bel passo del celebre Matteo Bosso, canonico Regolare, che fu

uno de' famigliari del nostro Gonzaga, che visse in Mantova assai giovine (e fu forse discepolo di Vittotorino, sebben ci manchino monumenti per asserirlo) e vi tornò poi a soggiornare per qualche tempo in quel Monastero di S. Vito. Egli dunque nel suo Dialogo De tollerandis adversis, stampato per la prima volta a Bologna nel 1493, lasciò scritto quanto segue, da noi fedelmente volgarizzato: Alessandro Gonzaga, quegli ch'è fratello di Lodovico, secondo Marchese di Mantova, mentre giovinetto cresceva in bellezza d'indole ed in virtù, cominciò tutto ad un tratto a divenir gozzuto e si deforme, che parea che il suo capo fosse attaccato al petto, e le spalle collocate sopra alla testa. Costui, poco curandosi di comparire in pubblico, menava vita privata in dolce ozio, piamente e religiosamente alle lettere e agli esercizj di divozione attendendo. Ama egli molto i servi di Dio, e spezialmente noi canonici Regolari, cui tratta famigliarmente, e coi quali, a distrazione ed a sollievo, gode spesso di mangiare, e con amichevole libertà di sollazzarsi. Egli talvolta alla sua figura volendo alludere dice scher zosamente di sè: » Oh bel corpo ch'è il mio, degno ve

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racemente di esercitar il pennello de'più valenti pit. «tori » Interrogato seriamente da alcuno qual somma vorrebbe spendere per comperarsi la bellezza e la sanità, Tanto lontano sonu, rispose, dal deside rarmi le forze del corpo, che quand' anche potessi facilmente ottenerle, io non le vorrei; e che ciò io dica di cuore m'è testimonio quel Dio ch'è scrutator d'ogni angolo più riposto dell'animo: percioc chè, quando io miro me stesso, nasce in me un gran disprezzo per tutto ciò che agli altri riesce dolce e giocondo, com'è a dire, per la libidine, per gli onori, per le dignità, ecc. "

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Fu amico grande e protettore de' letterati, co' quali tenea regolato carteggio, impiegando in quest'esercizio

qualche volta intere le notti (1). Uno di questi fu il suo condiscepolo Sassuolo da Prato, il quale a lui dedicò la sua traduzione dell' Istoria d'Ercole, scritta da Senofonte, che inedita si conserva nella Vaticana di Roma. Anche di Francesco da Castiglione, altro suo condiscepolo, un' Epistola pure a lui indirizzata si legge in Firenze nella Laurenziana, Parlasi in essa della morte di Cosimo de' Medici, padre della patria (2).

Mori Alessandro, secondo che attesta lo Schivenoglia, ai 16 gennajo, l'anno 1466 (3), compianto come esser dovea, e, come il Prendilacqua confessa, universalmente da tutti.

(1) Prend., loc. cit.

(2) Mehus, Praefat. ad Vit. Ambr. Camald., pag. LXXIII.

(3) Veramente Jacopo Daino, storico mantovano, vissuto sul principio del secolo XVI, afferma nelle sue Memorie MSS. intorno alla famiglia Gonzaga, che Alessandro morì non ai 16 di gennajo, ma ai 16 di luglio, 1466, e che agli 8 d'ottobre dell'anno stesso l'imperatore Federico investi de' beni di lui Lodovico Gonzaga, come appunto risulta dall'Investitura presso il Lunig (Cod. Ital. Diplom., tom. I, pag. 1581): noi però ci siamo attenuti a quanto ne scrisse lo Schivenoglia storico contemporaneo. Il Donesmondi poi (Istor. di Mant., parte I, pag. 388) asserì, non si sa con qual fondamento, che Alessandro, morta appena la moglie, peregrinasse sino in Gerusalemme, e che poi, cangiato il suo nome con quel d'Antonio, vestisse l'abito de'Frati di S. Ambrogio ad Nemus, e santamente morisse in Mantova nel Monastero di S. Niccolò dove allora abitavano i detti Monaci. Tutto ciò, dopo quel che s'è detto, ha l'aria di favola.

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