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que' medesimi ch'egli stesso encomiava quai dotti. Uno d' essi, ad esempio, mettea nel ruolo de Poeti Platone; credea contemporanei Ennio e Papinio Stazio; erano a lui affatto ignoti i nomi di Nevio, e di Plauto. Tra que' pochi autori medesimi che si conosceano, non si facea distinzione nessuna, o la si facea in modo da far comprendere e la niuna critica, e il gusto cattivo. E quindi si anteponevan per molti Seneca a Cicerone, e a Virgilio S. Prospero. Le opere che si pubblicavano o di teologia trattavano, o di mera ascetica, e tutto ciò in barbaro stile e contorto se scritte erano in lingua latina; che per ciò che alla volgare s'aspetta, anche oggigiorno ne ammiriam l'eleganza, e la nativa semplicità: ma questo solo possiamo in esse ammirare. Perciocchè o erano cronache, o novelle, o leggende, o tali altre operette di morale e di divozione, piene di credulità e di scempiataggini, senz'ordine, senza critica, e senz'ombra pure di sana filosofia. I Poeti volgari, ove si eccettui il profondissimo Dante, non conoscendo, o trascurando i classici antichi, aveano da' Provenzali appresa l'arte del far versi freddi e stentati, neʼquali senz'anima, senza passione, senza fantasiu, e, ciò che della maggior parte anche con verità può dirsi, senza stile, i loro amori pingeano, veri o infinti che fossero. Petrarca, nato con grandissimo ingegno, e con sensibilità ancor più grande e dilicata, non prima fu in istato di assaporare i due gran modelli Cicerone e Virgilio, che se ne innamorò in guisa da formarsene per tutto il corso della sua vita le sue più care delizie. La lettura e lo studio profondo di que' due sovrani Serit

tori, ai quali si dee pure aggiugnere Tito Livio, non solamente perfezionarono lo stile e il buon gusto di lui, ma nel suo cuor sensibile e virtuoso un ardente amore accesero verso la propria nazione, di che diede ognora amplissime prove. Conobbe egli pur troppo in quale infelice stato d'avvilimento le scienze fossero in essa e le lettere, e ciò per due precipui motivi: l'uno per la mancanza o rarità degli ottimi esemplari; l'altro per gl'inutili studj o nocivi, che altro non faceano che ottenebrar l'intelletto, ed incatenar la ragione. Si diede egli dunque con fervore straordinario ad andar in traccia de' codici antichi, intraprendendo a tale effetto dispendiosissimi viaggi, e commettendo tale investigazione anche ad altri non solamente in Italia, ma per tutte le rimanenti parti d'Europa. Molti infatti a lui riuscì di scoprirne e de più eccellenti, ch'ei cominciò a sparger dovunque o trascritti da lui, o sotto la sua direzione. Ne' suoi moltiplici viaggi, nelle tante sue ambascerie, conobbe egli tutte, si può dir, le persone d'ingegno che allor fiorivano, e tutte le fece sue amiche, spronandole allo studio ed all'imitazione de' più eccellenti modelli, e in esse infondendo quel beato entusiasmo pel bello e pel buono da cui era egli tutto compreso. Nelle molte opere sue, e singolarmente nelle sue lettere, dava intanto la caccia ai vani o perversi studj, all astrologia giudiciaria, all'alchimia, alla scolastica filosofia, e all'empio commentatore Averroe. Si scatenarono contro di lui i rozzi Scrittori, ma da lui, qual Sansone della letteratura, furono con poca fatica vinti, umiliati, e costretti a tacere. Egli il primo sparse di sana cri

tica le sue storie; introdusse lo studio della politica, della geografia, dell'antichità, raccogliendo iscrizioni e medaglie; risvegliò il gusto della lingua greca coll'apprenderla egli stesso (il che fece pure il suo amico Boccaccio), e col far raccolta di greci scrittori sconosciuti all' Italia.

Riguardato oggimai da questa, anzi dalľ Europa intera quasi portento, tutti i Monarchi (per tacere degli altri) andarono a gara nell'onorarlo, nell'accarezzarlo, e si facevano un vanto ďaverlo ad amico. Egli seppe far buon uso di questo suo ben meritato ascendente, e in luogo d'accumular ricchezze e dignità, da lui sempre rifiutate e sprezzate, seppe coi consigli, colle esortazioni, colle preghiere convertir quasi tutti i potentati, segnatamente d' Italia, in altrettanti splendidissimi Mecenati. Quindi si raccolsero librerie, piu fiorite divennero le università, novelle cattedre s'instituirono, e per tutto si diffuse l'ardore de' buoni studj, l'investigazione de' codici, la cultura, il buon gusto. Così un uomo solo originale, con pochissimi cooperatori, animati e in gualche maniera educati da lui, nel giro angusto di pochi anni seppe far cambiar faccia a tutta P'Italia, la quale dal baratro dell'ignoranza, in che era, potè levar alto la testa, ed esser duce e maestra di tutte l'altre nazioni.

Egli è ben vero però, che, mancato il Petrarca, e poco appresso il Boccaccio, ben degno amico di lui, lo zelo per gli ottimi studj sarebbesi per avventura illanguidito, poichè non veggiam chi restasse fra i letterati provetti chi potesse il danno ristorar della perdita di que'due campioni incomparabili, e

proteggere e propagare le lettere. Ma il gran Petrarca, geloso in vita dell' onore di sua nazione anche dopo ch' ei fosse morto, lasciò in un giovinetto suo discepolo, da lui per molt'anni con gran cura educato, un successore ed erede delle sue molte virtù. Questi fu il celebre e non mai lodato abbastanza Giovanni da Ravenna. Qual egli fosse impareremo altrove, e ciò dalle parole stesse del suo Maestro, che nelle sue Epistole ce ne ha lasciata una viva ed onorevolissima idea. Per ora basterà il dire, che, cessato il Petrarca di vivere, fu professore Giovanni in varie città d'Italia, e che dalla sua scuola e disciplina uscirono, per servirci dell' espressione del Volterrano, come dal Cavallo di Troja, i più celebri letterati che nel secolo XV fiorissero. D'alcuni d'essi, cioè de' più famosi, fan ricordanza Frate Filippo da Bergamo, e Flavio Biondo. Questi, istruiti dal Ravennate col metodo praticato con lui dal Petrarca, ed accesi d'amore per la buona eloquenza, d'odio per le vane e puerili speculazioni, si sparsero per ogni angolo dell'Italia, e fuori anche d'essa per le straniere province, e si volsero più che mai caldamente a diseppellir codíci d'ogni maniera, statue, iscrizioni ed altre anticaglie, onde formar musei, librerie, che in processo di tempo, co' novelli aumenti divenner famose.

Riconoscendo essi quindi la lingua greca utilissima essere, anzi essenziale alla maschia e profonda letteratura, si dierono tutti ad apprenderla, e alcuni fra loro, onde meglio ottenere si lodevole intento, navigarono in Grecia. Ma invasa poi quella culta nazione da Turchi, molti de' suoi celebri letterati

in Italia si rifuggirono, ove, la loro mercè, molte cattedre si stabilirono di quella lingua, la qual si fece in piccol tempo universale per modo, che non v' avea uomo, che mediocremente agli studj si dedicasse, che in essa non fosse istrutto. Quindi infinito fu il numero de' libri che dalla Grecia vennero trasportati fra noi da quegli esuli illustri, i quai libri s'accolsero avidamente da' nostri, si tradussero, e s'illustrarono. Nè si potrà per avventura indicare letterato alcuno di vaglia in quel secolo, che autor non sia di qualche traduzione dal greco, o altresì di qualche commento de' classici latini Scrittori. Per la qual cosa ne venne. che collo studio de' codici, che si cominciarono a collazionare e ad emendare, si giunse anche a conoscere e a praticare la buona critica, la venustà e l'eleganza, i quai due ultimi pregi, però sì varj, e pur sì essenziali, furono portati al più alto colmo nel secolo susseguente. Dico nel secolo susseguente; perciocchè in quello di cui parliamo, sebbene non manchino scrittori che pur si distinsero in essi, non sono però molti, nè questi medesimi in ogni parte perfetti. E ciò dovea essere essenzialmente poichè troppo erano in quell' età gl' ingegni occupati o in viaggi lunghi e disastrosi per la conquista di libri, o in tradurre, o in commentare, o in correggere, o in insegnare, o in difendere le proprie fatiche, o in rispondere alle turpi invettive degli avversarj; il qual uso infame di lacerarsi a vicenda ( comechè non si nieghi aver di molto accelerati i progressi della buona critica) impararon gl' Italiani da' Greci. Lò studio dell'eleganza e della proprietà dello stile,

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