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ripulse si ristette essa mai: finchè in capo a infiniti travagli e incomparabili angoscie e combattimenti interiori, non pervenne a placare lo sdegno del re, e riavere lui, unico pensiero e desiderio suo. Furono poi veduti Brunoro e Bona, amanti e sposi, pigliare insieme servigio presso la repubblica di Venezia; e l'una al fianco dell'altro difendere bravamente Negroponte dai Turchi: e Bona morirsi d'affanno alla uccisione del marito suo (1).

Del resto la prigionia di Troilo e di Brunoro non avrebbe gran che migliorato le condizioni di Francesco Sforza, se in quel tempo appunto il duca di Milano, sia commosso dalle sollecitazioni di lui che pure gli era genero e correva ugual sorte con una sua figliuola, sia costernato dai grandi progressi del re Alfonso e del papa, non avesse con repentina mutazione d'animo rivolto le armi contro quella Lega, di cui poc'anzi egli medesimo era stato autore. Da ciò Francesco Sforza prese animo di uscire da Fano ove stava rinserrato, e farsi incontro alle genti che i Veneziani gli spedivano in soccorso da Rimini: però, trovando il Piccinino alloggiato a Montelauro sulla strada tra le due città, dovè rimettere alla sorte di una battaglia l'esecuzione del proprio disegno.

1443

Divideva gli eserciti la Foglia, presso gli antichi il 8 hre Pesauro, fiume di guado.difficile, ma di non difficile accesso. A cavaliere del fiume sorgeva il Castello dell'Abbate. Quivi aveva Niccolò collocato gli alloggia

(1) Joh. Simon. 338. - Cavalcanti, Seconda Storia, t. II. c. XIX. p. 174.- Giorn. Napolet. 1128 (t. XXI). — Muratori,

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menti, e da questi con vario ordine le sue schiere si dechinavano insino alla sinistra sponda del fiume. Sforza, appena arrivato, ritenne le soldatesche sulla destra riva e mandò a sfidare il nemico a battaglia pel giorno seguente. Nel medesimo tempo scrisse alle squadre partite da Rimini, pregandole d'affrettarsi in modo d'essere a tempo per investire i ducali alle spalle. Ciò fatto, distribui le tende verso il fiume, e inviò alcune schiere per accertarne il guado. Queste appiccarono zuffa eogli scorridori del Piccinino: sopraggiunsero rinforzi dall'una parte e dall'altra, e crescendo l'ira col sangue sparso, in breve venne la cosa al punto che tutti gli Sforzeschi, lasciata la bisogna dell'attendare, passarono la Foglia a generale combattimento. Ebbero essi dapprima il vantaggio; ma ritrovarono un insuperabile ostacolo ai piè del castello; sicchè di già le ultime loro righe rotte e confuse ripassavano in disordine la corrente, quando ecco Sarpellione, condottiero di Sforza, avendo con felicissimo consiglio girata la sinistra costa del monte, sorprende i Braceieschi a tergo, e giù alla dirotta l'un sopra l'altro li rovescia. Allora Sforza rivoltò anche esso la fronte, e ributtandoli, e risalendo insieme con loro il monte, li respinse sino alla porta dell'accampamento. Qui lungo e con terribile ostinazione si combattè; alla fine, avendovi un Giovanello d'Ariano spronato dentro il cavallo, dietro lui v'entrarono tutti gli altri; e più non vi avresti contemplato che un sanguinoso tumulto di vinti e vincitori a fascio confusi (1).

(1) Joh. Simonett. VI, 340. Sanuto, Vite de'dogi, 1112. Annal. Foroliv. 222.

Disfatto a Montelauro, Niccolò Piccinino rinvenne nel proprio ardire novelle forze e rimedii contro alla avversa fortuna; per cui, accorrendo con indicibile prestezza ad ogni luogo minacciato, rendeva allo Sforza pressochè infruttuosa quella vittoria. La terra di Pignano stessa, dove questi aveva deposto le bandiere e i trofei raccolti a Montelauro, fu per battaglia di mano da lui molto bravamente espugnata; e fra il tuonare dei cannoni e il clangore delle trombe rispiegaronsi al vento le preziose insegne, e con corse e torneamenti se ne celebrò il riacquisto (1). Quindi assoldando altre squadre, radunando ampie provvigioni, mondando il campo dai traditori (2), Niccolò si allesti per vendicare nel prossimo anno sopra Sforza l'onore perduto.

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Ma intanto non sapeva il misero che il maggiore A.1444 suo nemico e traditore era quel duca Filippo Maria Visconti da tanti anni con tanta fede e valore da esso lui servito. Infatti questi, che non voleva vedere il genero Francesco Sforza nè vinto affatto nè affatto vincitore, come prima seppe dei potenti apparecchi del Piccinino, gli fece intendere che venisse a Milano per consultare seco di un gravissimo affare. Rispose Niccolò: « essere lui presentemente al soldo della Santa Chiesa; però non potersi allontanare dall'esercito senza il permesso del papa; del resto attendere di giorno in

(1) Spirito, L'altro Marte, III. 70.

(2) Furono nel costoro numero i capitani Cristofaro da Tolentino e Antonello della Torre, il primo dei quali venne chiuso nel fondo di un castello, il secondo sospeso vivo per i piedi ad una fune tirata fra due lorrioni, e così lasciato morire:

giorno validi aiuti da Napoli e da Roma, e tali parergli i presagi della imminente guerra, che la certezza del vincere e la grandezza dei prossimi acquisti rendangli impossibile la partenza, pernicioso l'indugio ». Allora il duca si indirizzò al Sommo Pontefice, e con tanti pretesti, e con tante ciancie raggirollo, che in sostanza lo indusse a dar licenza al Piccinino; conseguita la qual cosa, tornò con tante e così imperiose istanze a molestare il condottiero, che, mancata materia al rifiuto, gli fu mestieri di cedere.

Sembrava (narra Lorenzo Spirito che allora militava sotto le insegne bracciesche dal Monton nero in campo giallo, e queste cose espose in versi), sembrava che presago del suo destino non potesse Niccolò distaccarsi da quelle bandiere e da quei luoghi. Spiegate a cerchio in gran pompa tutte le schiere, tra il luccicare dell'armi e le vive grida di Braccio, Braccio, duca duca, e Chiesa Chiesa, passò a mano a mano sospirando in mezzo ad esse, e raccomandando a ciascun capitano l'onore della sua milizia, e la fortuna dei figli suoi. Poscia, avendo pigliato per mano il commissario della Chiesa: «Che vi pare, gli disse, di questo campo così bello e numeroso? Che dovrebbe conquistare il mondo, rispose colui ». « Eppure io veggo, sclamò il condottiero, che pochi giorni dopo la mia partenza andrà rotto e disperso, e ne sentirà danno non meno Roma che Milano, e questo mio viaggio farà piangere molti! ma così sia, com'altri vuole». Voltosi quindi al figliuolo Francesco, lo esortò ad essere giusto e clemente, lento coi nemici, fedele verso la Chiesa. Finalmente, e già le lagrime gli coprivano il viso, « Condottieri, caposquadra, e voi, mie

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genti d'arme, gridò, vi lascio, come vedete, non senza pianto. Di questa sola grazia vi prego, che fino al mio ritorno obbediate al figliuolo, che alla vostra fede ed al vostro amore consegno. L'onor mio, il mio sangue, l'utile vostro e della Chiesa vi sieno raccomandati, fate che, come onorate a voi confido queste bandiere, onorate e vittoriose io da voi le riceva ». Dette queste parole, quasi a forza si spiccò dai compagni, e, rivolgendosi nel cammino tratto tratto indietro, mestamente si avviò verso Milano (1).

A Milano, mentre ignaro degli arzigogoli viscontei, sta in corte aggirato da vane lusinghe, ode quello che egli aveva bensì preveduto, ma non potuto impedire: vinte le sue genti a Montolmo e sbaragliate da Francesco Sforza, mercè soprattutto delle gare insorte tra coloro che le comandavano: prigioni i migliori dell'esercito, spersi e svaligiati i restanti: il cardinale Capranica e Francesco Piccinino in potestà del nemico, di lacopo suo secondogenito sapersi appena novelle, come di fuggiasco (2) ». Strasenti Niccolò questo fatal colpo, e ben conobbe la mano, da cui gli era venuto; per lo che tra il cordoglio, e tra la debilità naturale del suo corpo infralito eziandio dalle molte ferite, langui due mesi. Sentendosi venir meno, fece chiamare al suo letto il duca, e con umili preghiere gli raccomandò i proprii figliuoli e compagni, e la patria sua Perugia, che rimaneva in preda del nemico. Indi a pochi istanti nel dolore di tutta Milano

(1) Spirito, cit. III. 71.

(2) Joh. Simonett. VII. 356. segg. Sanuto, 1115. - Crist. da Soldo, 832. Bonincont. Ann. Miniat, 152.

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