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Nei primi giorni ciascun partito, inalberando la sua insegna, e noverando i suoi seguaci, preparossi, per così dire, al combattimento: bentosto con adunate, con tumulti e con sangue cominciarono a mostrarsi i varii umori, quinci fomentati dai Veneziani, i quali se ne approfittavano per occupare Lodi e Piacenza, quinci secondati dal duca d'Orleans, il quale, mettendo in campo alcuni diritti dotali, mandava una forte schiera sotto un Rinaldo di Dresnay a insignorirsi di Asti. Però la parte popolare, quella nella quale era più pienamente espresso il voto della città di Milano, per moltitudine, per ricchezze, per ardore, in breve tempo prevalse di modo, che ritolse agli Aragonesi le fortezze cedute loro dai Braccieschi, e trascinò sotto l'antica obbedienza i Comuni di Como, di Alessandria e di Novara. Solo Pavia, Parma e Tortona, per matto desiderio di una libertà che i tempi dinegavano, si trassero nemichevolmente in disparte.

Frattanto Francesco Sforza era venuto innanzi sin presso a Parma: ma trovandosi privo di denari e di provincie, odioso a Napoli, a Roma ed a Venezia, indifferente per lo meno ai Fiorentini, ed obbedito dalle squadre a stento e solo per la speranza di una prossima guerra, si era attendato sulla Lenza colla determinazione di aspettarvi l'esito degli avvenimenti di Milano, e di certe segrete intelligenze da lui maneggiate entro Parma. Sembra che in questo rovinio delle proprie cose il pensiero di succedere allo suocero nel seggio ducale lo abbandonasse, tanto più quando vénne a offrirsegli alla mente la città di Milano piena di forze e di ardire, sia per la sconfitta degli Aragonesi, sia per la sottomessione di tanta parte del domi

nio, sia pel gran numero dei condottieri assoldati, e risoluta, non che a conservare la propria autorità, a distenderla fino agli antichi confini della signoria viscontea.

Fra queste considerazioni Sforza non sapeva veramente a qual partito appigliarsi: ma non tardarono a cavarlo dai dubbii, e ravvivarne senza volerlo le sopite brame, i Milanesi medesimi. Avevano eglino proposto per ben tre volte alla repubblica di Venezia ampii patti di accordo; ma la repubblica, giusta il vizio delle aristocrazie, mostrossi non meno bramosa di rapire a'Milanesi la loro libertà, che di mantenere la propria. Questi perciò furono costretti a riporre nelle armi ogni difesa. Restava a scegliersi il capitano dell'esercito, ed essi posero l'occhio sopra Francesco Sforza, sia perchè lo riputarono, come era, il primo condottiero dei suoi dì, sia perchè si persuadevano di assecurarsene in tal modo del tutto, e levare le fondamenta alla fazione che desiderava innalzarlo al trono. Adunque in pochi giorni stabilirono con lui di concedergli nome e condotta di capitano generale, e paga uguale a quella testè promessagli dal Visconti: aggiunsero che, se nel corso della guerra si ricuperasse Brescia, egli ne resterebbe padrone; se dopo Brescia si acquistasse anche Verona, lasciata la prima, egli avrebbe potuto ritenersi la seconda. Del resto ogni impresa, ogni acquisto, ogni trattato doveva compiersi a nome del supremo consiglio del Comune: e Sforza, come era primo al comando, così doveva apparire primo alla obbedienza.

Tale fu il tenore dei patti: ma il conte non li aveva

appena sottoscritti, che pensava ad infrangerli (1). Cominciò dal conciliarsi gli animi di lacopo e di Francesco Piccinini, i quali, anzichè abbandonare in tanto pericolo i Milanesi, avevano rifiutata la signoria di Crema e di Cremona offerte loro dai Veneziani. Quindi, benchè ciò fosse apertamente contrario allo spirito ed alla lettera dell'accordo recentemente da lui giurato, ricevè a divozione la città di Pavia, che se gli sottomise a patto espresso di non venire accomunata coi Milanesi. Costoro fecero calde lagnanze: Sforza rispose loro, essere molto meglio che Pavia obbedisse a un fedele soldato della repubblica, che non ad Aragonesi, a Veneziani od a Savoiardi. Indi a non molto successe il medesimo rispetto a Tortona. Previdero allora i miseri cittadini di Milano a quale esito fosse per arrivare tanta iattura di averi, di sangue e di sudori a cui erano spontaneamente andati incontro pel desiderio di vivere liberi; e invano rioffersero ai Veneziani nuove condizioni di pace e di alleanza. Alla fine veggendosi in certo modo stretti tra le due necessità e di resistere al nemico esterno, e di schermirsi da quello che colle proprie mani nel proprio seno eglino stessi avevano creato, chiusero gli occhi, simularono di prestar fede alle apparenti ragioni di Sforza, e rassegnaronsi ad accogliere gli eventi che questi e la fortuna fossero per arrecare.

Però Francesco Sforza, affine di sbalordire collo splendore di un grande acquisto le menti irritate e sospettose dei cittadini, si accinse ad espugnare Piacenza. Primamente fece ancorare quattro suoi galeoni

(1) Joh. Simon. 401. - Machiav. VI. 90.

1447

nel Po, acciocchè impedissero la salita del fiume al naviglio veneto; quindi accostò l'esercito alle mura, e atterrate in 30 giorni di bombardamento due torri 16 9bre e la cortina che le congiungeva, si mosse all'assalto. Sanguinosa fu l'opposizione fatta dagli assediati nel fosso colle balestre, colle macchine, cogli archibugi, colle bombarde, insomma con quanti strumenti l'antica e nuova milizia, che in questi tempi appunto venivano come ad affrontarsi, per istrazio del genere umano, conoscessero: e di già le genti di Sforza, credendolo ucciso, rivolgevano la faccia per fuggire, allorchè la sua presenza li rianimò e li rispinse di nuovo verso il fosso, che alfine venne sgombrato: dalle bombarde allora essendosi abbattuta la porta di S. Lazzaro, la città fu presa. Cinquanta dì durò il sacco, e diecimila persone, ammucchiate sopra i galeoni insieme agli ori, alle vesti, alle suppellettili, infino alle ferramenta delle proprie case, furono trascinate qua e là sui mercati d'Italia ad aspettarvi un compratore. Piacenza ne rimase disfatta (1).

II.

Non men gagliarda impresa era stata un mese innanzi fornita presso Alessandria da un altro famoso condottiero. Accennar vogliamo Bartolomeo Colleoni, le cui prime vicende restringeremo qui.

Sogliono i giovani, nelle vite degli uomini celebri, ricercare specialmente i fatti da essi operati nella

(1) Crist. da Soldo, 845. — Ant. de Ripalta, Chr. Placent. p. 895 (R. I. S. t. XX). - Cron, misc. di Bologna, 688. - Joh. Simon. X. 434. segg.

prima età, quasi per discoprirvi le vie colle quali si venga in fama, e pronosticarne qual grado di splendore serbi a loro medesimi la fortuna. Quindi i primi giuochi e studii, le prime gesta e amicizie dei personaggi famosi acquistano pregio, e con tanto maggior cupidigia si investigano, quanto più si è certo di non ritrovarli guasti da fredde considerazioni di amor proprio e di interesse.

Fu l'infanzia di Bartolomeo, come quella della maggior parte degli uomini segnalati, disastrosa. Studiava egli ancora gramatica nei monti del Bergamasco, allorchè il furore di parte ghibellina gli rapiva il padre, gli averi, la patria ed un fratello. Restavagli la madre e questa pure sotto pretesto di certi antichi crediti venne fatta imprigionare dal Benzoni, tiranno di Crema, e tenuta tanto tempo in carcere, finchè non gli cedette tutti i suoi beni dotali. Fra queste amarezze Bartolomeo entrò nell'adolescenza: però mirando la Lombardia a motivo della morte del duca Gian Galeazzo Visconti tutta in una faccia e in uno spettacolo di guerra, deliberò di uscire da quella miseria, che gli veniva resa più acerba dalla ricordanza del primiero suo stato, e s' introdusse in qualità di paggio ai servigi di Filippo Arcelli signore di Piacenza. In capo a due anni il Carmagnola venne ad accamparsi coll'esercito del duca di Milano sotto Piacenza, ed intimò all'Arcelli di render senza dimora la città, se pur non preferisse contemplare coi proprii occhi l'estremo supplizio del figliuolo e del fratello di lui, che erano stati fatti prigionieri. L'Arcelli stette saldo a difendersi. Tuttavia il sangue di quegli innocenti non bastò a liberarlo dalla necessità di ar

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