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aperto segrete trattative di accordo coi Veneziani, così in quel fatto non dovevano imputare nessun altro che se medesimi, di slealtà e di tradimento. Ciò detto, li congedo. Ma tosto manda a Milano Benedetto Ri ́guardati, uomo suo fidatissimo, acciocchè, sotto pretesto di far vedere a quel Consiglio la integrità del procedere di Sforza, ne ravvivi i partigiani, e vi semini discordie, comune strumento di tirannide (4).

Perorò il Riguardati nel consiglio: e già in conseguenza del suo ingegnoso discorso molte affezioni verso lo Sforza eransi risvegliate, molta ira contro di lui si era ammorzata, e molto desiderio suscitato di una onesta e pacifica dominazione; quand'ecco Giorgio Lampugnano lanciasi alla tribuna, e con terribile foga, con voce tuonante, con disperati gesti rappresenta alle menti sbigottite i danni che si possono aspettare dalla signoria di un uomo solo, già offeso e nemico: Nella vita passata di questo Sforza avere Milano un'arra dell'avvenire: costui, che da privato non conobbe gratitudine, nè moderazione, nè fede, nè umanità, quanto peggiore non sarà sul trono allorchè la sua volontà non trovi altri limiti che in se stessa! Nei fratelli, nei figliuoli, nei consanguinei, tutti di vil sangue e di illegittimo nascimento, prepararsi a Milano vendette, esigli, supplizii, spogliazioni, stupri, insomma un pubblico e privato servaggio; nè dubitino i Milanesi, che il castello di porta Giovia, testè da loro gettato a terra, rinnalzerassi a suggello di perpetua miseria! »

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(1) Machiav. Stor. Fiorent. VI 92.

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- Joh. Simon. 1. XV.

p. 496.

A queste concitate parole, a questa viva immagine di desolazione, come un tuono di voci levossi nell' assemblea ad acclamare la guerra. Incontanente intimano pena del capo a chi solo pronunci il nome di Sforza, consegnano all'arbitrio di Carlo Gonzaga e di Francesco Piccinino il governo della città e della milizia, e mandano ambasciatori ad implorare aiuto dall'imperatore, dal re di Napoli, dal duca di Savoia, dal re di Francia, insomma da tutta Europa, disposti a non cedere a Sforza di Milano che cenere e rovine. Tali furono le risoluzioni, degne d'ogni più alto A. 1449 paragone: ma il momentaneo impeto di una cieca moltitudine non condusse mai a verun giusto risultamento. Già erano stati schiantati dai palagi i marmi e le colonne, affine di formarne molini a braccia, e sovvenire al difetto delle farine; e tuttavia molto più della fame e della guerra si facevano sentire dentro Milano le fazioni, mortal piaga d'ogni stato novello. Alla nobiltà ghibellina, fautrice alla lontana dello Sforza, sovrastavano per numero e per insolenza i Guelfi plebei, come più insueti al comando, così più audaci e tumultuarii. Favoriva poi costoro, lusingandoli con pranzi e con ciancie, Carlo Gonzaga capitano della milizia, sia che a ciò fosse mosso dalla ambizione del comando, sia che vi fosse indotto dalla speranza di usurpare. la città per sè stesso, o di farne lucroso mercato col nemico. Di qui proveniva una esacerbazione d' odii ne' Ghibellini; posciachè aggiungevano al dispetto di vedersi tuttodi conculeati da un volgo già solito a prostrarsi loro dinanzi, il timore di cadere nelle mani di lui, odiatissimo per indole superba e violenta.

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Dopo qualche esitazione giudicarono, essere meglio sottomettersi volontariamente alle leggi di un solo, che curvarsi ai pazzi capricci di un vile popolaccio. Cominciarono adunque una occulta negoziazione con Francesco Sforza, fattosene capo il Lampugnano, nel quale il desiderio di libertà aveva ceduto il luogo allo sdegno. Scoperta la trama, per pubblici e per segreti supplizii fu oppressa. Intanto crescevano insieme col senso dei mali la rabbia e la insolenza della plebe: talchè, sotto nome di libertà e di pubblico zelo, avresti ovunque mirato sangue, rapina, oppressione e violamento d'ogni cosa sacra e profana (1).

Digià Francesco e Iacopo Piccinini, indotti parte genn dalla necessità, parte dall' odio verso il Gonzaga, erano passati agli stipendii di Sforza, che tosto con grandi e solenni feste aveva fidanzato al secondo di essi la propria figliuola Drusiana (2). Da ciò Sforza aveva preso animo di porre il campo a Monza. Senonchè in entrambi quei fratelli tanto durò la fede quanto il bisogno. Sorta appena la primavera, entrarono in Monza, ne assunsero la difesa, e consegnarono ai Milanesi la terra di Marignano che avevano ricevuto in custodia. Francesco Sforza accorse ad oppugnarla: il popolo milanese, quasi per comune impeto, risolse di tentarne la liberazione. Escirono a quest'effetto dalle mura ventimila cittadini e diecimila soldati, qual più qual meno armati, e molti forniti anche di schioppo, strumento non ancora adequatamente

(1) Fr. Philelph. Epist. 1. VI. passim (Venetiis 1502). Rosmini, Vita del Filelfo, t. II. P 30-41.

(2) Sanuto, 1131. 1134. Ant. de Ripalta, 899 (t. XX). · A. Navagero, 1113.

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stimato ed adoperato. Con tutto ciò i capi che guidavano questa moltitudine di gente vogliosa ed imperita non riputarono conveniente di metterla alla prova colle vecchie bande sforzesche: laonde, fatta appena qualche dimostrazione, la ridussero a casa. Così cadde Marignano; e dopo una meravigliosa difesa, degna 3gig delle grandi memorie della Grecia e di Roma, seguitonne l'esempio la città di Vigevano, smantellata di mura, e tutta sangue non meno per le ferite dei proprii cittadini, che per quelle de'suoi assalitori (1).

V.

Fra queste estremità la signoria di Venezia, non tanto commossa dalle fervide istanze de' Milanesi, quanto sbigottita dai soverchi progressi di chi li oppugnava, intrometteva parole di pace, a condizione che Sforza ritenesse per sè le città di Parma, Pavia, Cremona, Piacenza, Alessandria, Novara e Tortona : l'Adda segnasse i confini di S. Marco, e tra esso fiume, il Ticino e il Po fosse compreso il dominio della repubblica milanese. Cinque anni addietro Francesco Sforza non avrebbe certamente osato sperare simili offerte: ora esaltato dalla crescente prosperità, non che sperarle, stimolle minori di sè: tanto è proprio degli uomini d'alta fortuna il passare velocemente dall'una brama all'altra, e lasciando al continuo dietro di sè nuovi emuli e compagni e divisamenti, poggiare a una meta non mirata prima. Giunti colà, il mondo attonito li contempla; e ad essi è facile

(1) Joh, Simonett. XVIII. 532. - Cagnola, Stor. di Mil. p. 113 (Arch. Stor. t. III). Crist. da Soldo, 859 (R. I. §.

t. XXI).

Vol. III.

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nascondere poi sotto altre sembianze quello che il caso o l'errore operò in loro vantaggio, e presentare le fasi della propria carriera come parti preconA. 1450 cepiti di un unico e perfetto disegno. Per simiglianti vie era a mano a mano salito Francesco Sforza infino al punto da non credersi soddisfatto dell'ampio dominio propostogli dai Veneziani, se ad esso non fosse unita la possessione di Milano istessa. Ond'è che nel suo interno si rise di quelle proposte: nulla di meno essendosi accorto che cogli indugi poteva accrescere a se stesso forza e riputazione, ed alla città assediata fame e tumulti, si finse proclive alla pace, e mandò a Venezia per trattarne il fratello Alessandro. Nel medesimo tempo, sotto il nome di una tregua, discostava l'esercito dalle mura di Milano, ma non però in modo che vi venisse menomamente facilitata l'entrata delle vittovaglie.

I Milanesi, ingannati da queste fallaci dimostrazioni, quasichè la guerra fosse finita, sortirono dalla città al suono festoso di tutte le campane, rivangarono in fretta i campi desolati, e seminarono il poco frumento che tenevano in serbo nei granai per più diuturna difesa. Ciò appunto desiderava ardentemente Francesco Sforza; giusta le istruzioni del quale il fratello Alessandro, addoppiando fraudolentemente difficoltà sopra difficoltà, traeva in Venezia ogni giorno più in lungo il negoziato. Stretto alla fine dal senato a sottoscriverlo oppure ad andare in prigione, sottoscrisse e fuggi. Ma Francesco Sforza, col parere dei professori di Pavia, dichiarò nulla la sottoscrizione e trascorso il suo mandato, e senza indugio incominciò la guerra

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