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opporsi all'opera ineluttabile dei tempi, che favorirla e giovarsene. Riuscirà forse anche la forza a rattenere l'onda alcuni anni; ma alla perfine da essa soverchiata dovrà cedere e rimanerne oppressa. Crebbe perciò di giorno in giorno, non ostante quelle crudeltà, il numero degli scoppiettieri; agli Italiani se ne aggiunsero molti fatti venire a stipendio dalla Germania (1); e bentosto, superata la prima animosità, i buoni capitani se ne valsero specialmente per rinfiancarne la cavalleria (2).

Sorgeva frattanto, insieme colla importanza delle fanterie e cóll'uso delle armi da fuoco, altresì come una tacita inclinazione verso un riordinamento delle milizie proprie e nazionali. Di già Francesco Sforza aveva fondato sulla milizia a piè il suo sistema di guerreggiare preciso e prudente (5); di già i Veneziani avevano ravvivato le antiche leggi intorno alle cerne, ai guastatori ed ai carri opportuni per gli eser- A. 1439 citi (4). Un più fiero colpo venne portato alle milizie mercenarie da Alfonso re di Napoli e di Aragona, allorchè stabilì che ogni famiglia dello Stato pagherebbe una imposta di cinque carlini, affine di mantenere continuamente in essere mille uomini d'arme e dieci galee, e ritenne le paghe delle genti d'arme al gran conestabile, e proibi di assoldare verun capitano senza riceverne malleveria, e vietò ai baroni suoi sudditi di uscire dal regno per servire altri Stati, e

(1) Crist. da Soldo, p. 850.- Joh. Simonett. 1. XIII. p. 463. (2) Quorum ope equites dimicando maxime utebantur. Joh. Simonett. 464.

(3) Joh. Simonett. VI. 324.-P. Giovio, Ist. 1. II. f. 68, (4) Statut. Paduæ, 1. VI. R. I. stát. 32 (Venetiis 1768).

procurò di scemarne la potenza e il credito col moltiplicarne il numero (1).

A non dissimile scopo teneva rivolta la mente il duca di Milano Filippo Maria Visconti, allorchè rivocava ogni diritto di sovranità ai privati signori, e vietava loro di ristaurare o costrurre, vendere o lasciare per testamento senza la permissione del principe veruna fortezza o qualsiasi terra feudale (2). Quanto a Francesco Sforza diremo, che non era egli appena divenuto principe, che metteva in opera tutti i suoi sforzi affine di precludere a ogni altro condottiero quella via per la quale egli s'era condotto a tanta altezza. Infatti nelle sue mani i suoi soldati e compagni mutaronsi in sudditi; benchè l'animo, e forse gli anni, e forse l'opportunità dei tempi non gli consentissero di cambiare i sudditi in soldati. Chè se ritrovò ritrosia in alcuni condottieri, a viva forza li disperse e abbattè, testimonio la severità da lui usata verso Carlo Gonzaga e Guglielmo di Monferrato, i due che più avevano cooperato alla sua esaltazione.

Fu accusato il primo di tradimento, l'altro di colpevole intelligenza colla duchessa Bianca; entrambi per ordine di Sforza vennero svaligiati e chiusi in prigione: ma forse più che ogni altra cosa, furono ad essi motivo di persecuzioni i ricchi possessi ottenuti in dono dal medesimo Sforza nelle sue necessità della guerra milanese. E per vero dire, non si tosto il desi

(1) A. di Costanzo, St. di Napoli, XVIII. 437. 447. e fin. Giannone, L. XXVI. c. VI e ult..

(2) Edict. AA. 1441. 1445. 1447. Statut. et Decr. Ant. Civit. Placentiæ, f. 94 (Brescia, 1560). — Antiqua duc. Mediol, decreta, p. 291. 313.

derio di libertà fortissinio in uomini di guerra, e le asprezze del carcere, e il terrore dei supplizii, indussero l'uno e l'altro a rinunziare a tutti quei vantaggi, cessò il castigo' e uscirono di prigione. Uscirono, data parola di soffermarsi parecchi mesi nel dominio del duca ma non sono appena padroni di se stessi, che per incognite vie volano a Venezia, vi disdicono pubblicamente la rinunzia fatta per forza, e con infiammatissimi discorsi stimolano il senato a rinnovare la guerra contro Sforza, dipingendolo come un traditore nuovo sopra una signoria incerta, esausta di forze e piena di mali umori (1).

Mossa da queste ragioni, non meno che dalla presenza di Iacopo Piccinino, il quale era poc'anzi venuto ai servigi dei Veneziani con 3000 cavalli, la repubblica assegnò al Gonzaga ed a Guglielmo di Monferrato le condotte ed i denari che facevano ad essi d'uopo per rifare le proprie compagnie, e si accinse alla guerra. Se non che prima d'intimarla e muoverla al di fuori, determinarono di assicurarsi dentro.

Avevano eglino nominato al grado di governatore generale dell'esercito Gentile da Lionessa fratello del defunto Gattamelata. Questa preferenza indispetti di sorta Bartolomeo Colleoni, che non solo ricusò di ritrovarsi in Brescia alla festa della consegna del bastone, ma, essendo a capo della sua ferma, chiese commiato. Doleva alla Signoria di perdere a questo modo un capitano, oltrecchè suddito proprio, valoroso e potente; dall'altra parte nè essa voleva umi

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(1) Benvenuto da S. Giorgio, Cron. del Monferrato, p. 726. segg. Crist, da Soldo, 865-870.

liarsi a pregarlo, nè credeva possibile di ridurre Bartolomeo a domandare patti sopportabili di una nuova condotta. Insomma, dopo non poche negoziazioni infruttuose, venne la cosa al termine che la repubblica, anzichè vedere il Colleoni ai servigi dei proprii nemici, prese consiglio di ammazzarlo. Questo rimedio (e a tale di viltà e debolezza erano caduti gli Stati) cominciavano i principi del xv secolo ad usare contro il mutabile animo e le enormi pretensioni dei capitani di ventura.

Deliberata la cosa, ne fu commessa al Piccinino l'esecuzione. Cominciò egli dallo spargere la voce di volere passare la mostra armata di tutte le sue genti: però le abbarracca a S. Giorgio nel territorio di Brescia, 40 miglia discosto dalle stanze del Colleoni, e quivi per tutto un mese si dà a comprare armi, cavalli, pennacchi, barde, selle, ed ogni altra bisogna. Quando vide ogni cosa in assetto, e seppe di certo che il Colleoni stava affatto senza apprensione e difesa, aspetta il tramonto del sole: allora muove le squadre, e cavalcando di buon passo tutta la notte, gli arriva non aspettato addosso. Arrivare, mandare a sbaraglio nomini e salmerie, al sacco aggiungere strage, grida e percosse, tutto questo fu opera di pochi istanti. Appena il Colleoni, cacciatosi in furia a bardosso di una mula trovata a caso dinanzi alla bottega di un maniscalco, ebbe tempo di salvarsi sul Mantovano. Di colà si recò a Milano, dove il duca Francesco Sforza e lietamente lo accolse, e gli diede una onorata condotta, e gli promise di riscattargli quanto prima la moglie e le figliuole che i Veneziani avevano fatto arrestare (1). (1) Crist. da Soldo, 868. — Sanuto, 1140. — Joh. Simonett.

II.

1452

Questo accidente, e una fiera pestilenza, esib reci- aprile proco timore soprattennero l'armi fra Venezia e il duca di Milano tutto quell'anno; ma non si mostrava appena il seguente aprile, che uscivano a guerra le schiere quinci guidate da Gentile da Lionessa, quinci da Francesco Sforza in persona. Pari erano a un dipresso gli eserciti, comune il proposito di non venire a giornata che a giuoco sicuro; poichè nessuna necessità sospingeva nè gli uni nè gli altri a mettere a repentaglio quanto possedevano. Consumossi pertanto l'estate nel depredare ugualmente amici e nemici. Finalmente, essendosi i due campi posati presso Montechiaro nel Bresciano in una pianura, che dipartendosi dalle pendici boscose di certe colline si stende uniformemente da tramontana á mezzodi, Sforza risolse di invitare i nemici a battaglia. A tale effetto il 31 8bre suo araldo presentossi davanti al consesso dei capitani veneti presieduto da Gentile da Lionessa, e dopo avere con alte parole intimato la sfida, porse loro in prova del suo dire un guanto, un breve ed una lancia intrisi di sangue. Gentile da Lionessa gli fece portar tosto vino e confetti; quindi con non dissimili bravate a nome suo proprio ed a nome di Iacopo Piccinino, di Carlo Gonzaga e degli altri capitani gli consegnò due guanti sopra due aste parimenti imbrattate di sangue, e lo incaricò di riferire al duca Sforza,

XXII. 611.Spino, Vita del Colleoni, V. 154. — La preda fatta dai Veneziani in questa occasione, venne calcolata ad ottanta o cento mila ducati.

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