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della Lega: di maniera che ancora una volta si trovarono a fronte le due scuole di Braccio e di Sforza, alle quali fra pochi lustri ben altre squadre con ben altri ordini e linguaggi e sensi dovevano succedere. In verità, sia nel modo dello scaramucciare, sia in quello di disporre e di maneggiare le schiere, avrebbe chiunque ad una occhiata distinto la disciplina di una scuola da quella dell'altra, e veduto Alessandro e Federico proseguire in ogni fazione il combattere circospetto e sicuro della milizia sforzesca; al contrario Iacopo, non altrimenti di Braccio, provocare sempre, pugnar sempre, seguire qualsiasi vantaggio sino all'ultimo spirito, e rendere somigliante a se stesso ogni soldato.

Un dì, in una di quelle avvisaglie che la vicinanza ed, animosità dei due eserciti rendeva frequenti e ferocissime, Francesco della Carda, uno dei capisquadra di Federico d'Urbino, scontrossi in Nardo da Marsciano, famoso soldato del Piccinino, ed: « appunto con te la voleva, gli grida; e per vedere se tu sei veramente il valentuomo che ti tieni, bramerei rompere teco una lancia ». « Ed una e due a tua posta, rispose Nardo ». Sopraggiunse a queste parole Serafino da Monfalcone, uomo d'arme anch'esso di Federico, e chiese ad alta voce, se fra i Braccieschi v'era chi la volesse altresì con essolui, e se v'era, ei si facesse innanzi il gagliardo. «Non mancherà chi risponda abbondantemente a te e a cento tuoi pari, sclamò Fantaguzzo da S. Arcangelo con acerbità corrispondente al soprannome; per ora basterò io solo ». Rimasero di trovarsi il di seguente nel medesimo luogo. Per tutto il resto della giornata non fu più nei

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due campi che un affollarsi di soldati e di capitani intorno ai campioni, chi per udire i particolari della sfida, chi per ricordar loro i modi di schermirsi, let più sottili parate, i colpi più arditi e sicuri, e chi per incoraggiarli e raccomandare ad essi l'onore della propria scuola.

Il di seguente alcuni dispareri nati tra i padrini e i giostratori si infiammarono pel concorso dei riguardanti in modo da degenerare in una vera mischia. In conseguenza il combattimento fu differito all' altro giorno, ch'era domenica. Venuta la quale, prima i capitani fecero intimare a suon di tromba un ordine, pel quale veniva vietato agli spettatori di frastornare la pugna con cenni o con parole, e molto più di mettere il piede dentro la lizza; poscia, fattosi silenzio,si apri lo steccato, ed a cavallo col bastone del comando in mano v'entrarono Federico e il Piccinino, e presero posto in faccia l'un dell' altro. Allora gli araldi diedero il cenno, e incontanente vennero introdotti i combattenti. Si corsero pei primi allo incontro Francesco della Carda e Nardo da Marsciano; e questi ne restò leggermente ferito in un gallone. Nel secondo scontro Serafino e Fantaguzzo ruppersi bravamente le lancie sulle armature senz'altro accidente. Terminata cosi la tenzone, entrambi gli eserciti pacificamente si ritirarono, con molto fervore ragionando dell'abilità dei giostratori, ed altri estollendo i proprii, ed altri scusandoli, proponendo nuovi partiti ed esempi (1).

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Pochi giorni appresso un Saccagrimo caposquadra 27 lugl. del Piccinino, essendosi inoltrato ad insultare i ne(1) Baldi, Vita di Feder. d'Urbino, V. 86.

1460

mici ne' proprii alloggiamenti, fu cagione di farne uscire fuora alcune schiere, che il ributtarono addietro. Tosto di qua per ordine del Piccinino si mosse ad affrontarle Giulio Varano; di là furono inviate altre genti per sostenerle; sicchè in breve l'uno e l'altro campo si trovò tutto condotto a mescolare le mani. Le battaglie si davano allora in un piccolo giro di terreno, quasi senza disegno anteriore, ordinanza contro ordinanza; però, stante la confusione di codesti parziali combattimenti, non sia maraviglia se spesso riescano oscure le narrazioni dei contemporanei, e pei progressi dell'arte militare pochissimo fruttuose. Quanto spetta al presente fatto d'arme, sembra che la Lega, temendo di venire spuntata dai Braccieschi superiori di numero, non solo allargasse straordinariamente la propria fronte, ma, tirate alcune squadre nei fianchi, combattesse eziandio per quel verso. Con ciò rimase molto indebolito il centro, contro il quale fino dal principio si era specialmente rivolta la furia ostile. Se ne accorse il Piccinino; e subito, fatto uno squadrone quadrato dei più valorosi, urtollo con tanto impeto, che, rotta e fracassata tutta l'ordinanza, la sospinse addosso alle trinciere. Nè alcuno ostacolo avrebbe riparato, che insieme coi vinti non vi entrassero pure i vincitori, se Federico d' Urbino, levandosi dal letto, ove giaceva infermo, non fosse accorso in persona ad impedirlo. Per conseguenza di questa vittoria tutto l'Abruzzo fu conquistato da Iacopo, il quale di colà per la Sabina ed il Lazio spinse fin sotto Roma la devastazione e gli incendii (1).

(1) Baldi, cit. VI, 122. — Cron, misc. di Bologna, 734.

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V.

Aveva agevolato questi progressi del Piccinino una strepitosa vittoria riportata presso il fiume del Sarno dal duca Giovanni d'Angiò sopra il re Ferdinando. Se non che pareva destino, che la rovina degli Angioini pigliasse appunto origine dalle proprie loro vittorie. A. 1461 Infatti i baroni napoletani, che avevano abbracciato

quel partito soltanto per sottrarsi dalla supremazia del partito contrario, tosto che videro le cose del duca Giovanni inclinate a un totale trionfo, n’ebbero spavento, e, voltando faccia, mutarono da capo a fondo le sorti della guerra. Cominciò un Roberto da Sanseverino conte di Marsico a posporre il dovere e l'amicizia verso il duca di Angiò all'alta offerta fattagli dal re Ferdinando del principato di Salerno (1). Quindi ne seguitava l'esempio tutta la casata, quanto valorosa, traditrice. S'aggiunse per colmo delle av

Cron. d'Agobbio, 997. — Jov. Pontan. Hist. I. I. p. 28 (ap. Burmann. t. IX. part. III).

(1) Discendeva costui dal medesimo ceppo di quel Roberto Sanseverino conte di Caiazzo, figliuolo di una sorella di Francesco Sforza, il quale trapiantò in Lombardia la schiaṭṭa dei Sanseverini. Le condizioni chieste ed ottenute dal conte di Marsico in premio della sua defezione, furono: Che il re gli concedesse Salerno con titolo di principe: che gli passasse un' annua provvigione di 25,000 ducati come soldo di 250 lancie che gli desse il privilegio di battere moneta, purchè l'impronto portasse da una parte l'arme o la testa del re : « che << gli fosse lecito impune per ogni parte del regno far occidere «quelli di casa Capano, ch'erano stati soi vassalli del Celento; <«< che tutti li beni de'vassalli soi, e ancora in caso che fossero <«<ribelli al re, fossero devoluti non al fisco reale, mà al fisco « del principe ecc. » A. di Costanzo, 1. XIX. fin.

versità la debolezza e timidità di Gian Antonio Orsini, principe di Taranto, che per ragione delle sue ricchezze ed aderenze era rimasto capo della fazione angioina, e l'arrivo inaspettato di un celebre capitano. Era questi Giorgio Castriota detto. Scanderbeg, il quale dopo avere difeso a passo a passo col proprio sangue le eroiche provincie dell' Epiro dalle invasioni degli infedeli, era accorso con 800 cavalli a ricambiare verso il re di Napoli Ferdinando i favori, che in quella lotta gli erano stati impartiti dal morto re Alfonso.

A tanto capitano niun altro fu stimato degno di stare a fronte che lacopo Piccinino. Fu egli perciò preposto dal duca di Angiò a reggere l'esercito della Puglia; e tosto vi si condusse, seco traendo con molte onoranze una famosa matrona. Era costei Lucrezia d'Anagni, che per molti anni aveva signoreggiato il cuore del buon re Alfonso. Morto il re, s'era ella a prima giunta ritirata colle immense sue ricchezze nella città di Venosa. Ma bentosto l'avaro e geloso ,animo di Ferdinando, che era succeduto al trono, la pose in necessità di provvedere meglio a' proprii interessi. Per la qual cosa Lucrezia aveva confidato i suoi tesori e la sua persona a Iacopo Piccinino, e se gli era fatta compagna nella tenda del guerriero e nei soggiorni di pace (1).

Del resto le operazioni del Castriota nel regno di Napoli non corrisposero di gran lunga alla fama sparsa nel mondo del suo valore e della sua gene(1) Jov. Pontan. II. 36. D. Quando poi il Piccinino si fu riconciliato col re, questa donna si ridusse in Dalmazia, dove invecchiò. V. Summonte, 1. V. p. 443.

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