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dell'Italia, allorchè la Spagna, la Francia e la Germania, già uscite dall'anarchia del medio evo e ridotte a compatte masse, l'assaltarono colle armi in pugno. Non solo le sue politiche divisioni non le permisero di opporre agli sforzi di quei grandi popoli che gli sforzi appena di questa o di quella provincia; ma ancora questi sforzi rimasero a mezzo. Il popolo non abbracciò la causa dei governi appunto perchè i governi non avevano abbracciato la causa del popolo. Sfortunati gli uni e gli altri! chè quelli furono abbattuti, questi pagarono le spese ai vinti ed ai vincitori.

Al principio dell'anno 1492 l'aspetto degli Stati d'Italia era il seguente.

Prima per vastità di dominio, per credito, per opulenza, per potentissimo naviglio si appresentava Venezia; rispetto alla quale la pace da essa ultimamente stipulata col Turco, e la possessione dell'Illiria, della Grecia, e delle terre di fresco rapite ai signori di Padova, di Verona, di Milano e di Ferrara, avrebbero realmente proporzionato le forze al concetto che se ne aveva, se la novità degli acquisti di terraferma,

il difetto di buoni ordinamenti militari non avessero fatto ostacolo. Ciò nondimeno i Veneti patrizii, quanto più lontani dagli esercizii della milizia terrestre, tanto più ostinati a volere estendere le frontiere dello Stato oltre l'Adda ed il Po, stavano coll'occhio ognora intento sopra i principi vicini, e sopra le città marittime dell'Adriatico, per valersi del primo interno od estrinseco moto, affine di porvi le mani addosso. Così la repubblica sotto false larve di utilità e di grandezza si avviava alla propria perdita.

In dispregio al popolo, in odio alla nobiltà, regnava sopra Napoli Ferdinando di Aragona, le cui ultime proscrizioni e sevizie avevano fatto dimenticare del tutto l'antica sua riputazione di bontà e di saviezza. Nè l'universale avversione si restringeva soltanto alla persona del re: ma, da lui partendo, comprendeva tutta la schiatța dominante, e soprattutto il primogenito Alfonso duca di Calabria, principale instigatore e ministro delle passate crudeltà e della presente oppressione.. Frattanto i Sanseverini ed i Caldoresi, esuli dalla patria e dai ricchi loro dominii, andavano seminando per le città dell'Italia e della Francia sediziosi discorsi, ed ira e vilipendio grandissimo per quello stato di cose. Ad essi si univano, almeno coi desiderii, se non colle occulte intelligenze, i loro consanguinei, amici e dipendenti, che erano rimasti nel regno di Napoli; poi il popolo, straziato sempre ugualmente da Angioini e da Aragonesi, sperava pur sempre col cambiar signore di cambiar condizione.

Sedeva al pontificato il papa Innocenzo viit: ma Roma, ognora divisa fra i Colonnesi e gli Orsini, giaceva come preda apparecchiata al più audace e potente. A questa fazione stavano per capi Virginio Orsini e Niccolò conte da Pitigliano; a quella Fabrizio e Prospero Colonna, e Antonio Savelli, tutti e cinque valorosi capitani d'uomini d'arme agli stipendii ora del re di Napoli, ora del papa, ora del duca di Milano, o della repubblica di Venezia. Il resto del dominio ecclesiastico era smembrato in cento signorie o tirannidi: Guidobaldo da Montefeltro in Urbino, Giulio da Varano in Camerino, Giovanni Bentivoglio in Bolo

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gna, Caterina Sforza in Imola ed in Forli, i Manfredi in Faenza, i Baglioni in Perugia, gli Sforzeschi in Pesaro, i Malatesti in Rimini, i Vitelli, per militare perizia e tragico fine indi famosi, in Città di Castello, chi con autorità usurpata sopra gli uguali, o șopra il popolo, o sopra la Chiesa, chi con potestà carpita e poi ottenuta dal papa o dall'imperatore, quale con più, quale con meno rigore, ma tutti circondati da un gran satellizio, avvezzi alla professione del condottiero, e sempre tementi e sempre fautori di ribellioni, di agguati e di avvelenamenti, con poca forza, con nessuna quiete imperavano.

Di tutti costoro varie erano le vicende. Ora per discacciare l'emulo dal seggio proponevano alla Chiesa od alla plebe larghi partiti, che poi, giunti al potere, restringevano a mano a mano, finchè la città non acclamava alla signoria un competitore, che per uguali difetti veniva alla sua volta soppiantato da un terzo : ora accordavansi tra loro, e și dividevano popoli e città; spesso il papa favoreggiava una fazione affine di deprimere la fazione opposta, e nel contrasto di entrambe dominare: talora innalzava sopra due partiti un terzo mascherato di libertà. A dir breve era un continuo vacillare tra abusi e concessioni, tra licenza e tirannide, attento il signore ad accrescere la sua autorità oltre l'onesto, pronto il popolo a diminuirla insino all'anarchia.

Siena a Pandolfo Petrucci, Genova al duca di Milano, Lucca, in apparenza all'imperatore Massimiliano 1, in fatti a se medesima obbediva. I principotti di Ferrara e di Mantova, costretti dalla loro debolezza a nascondere i proprii voleri, attendevano ansiosamente

il primo rumore di guerra per allearsi col più fortunato, e riacquistare il perduto, od occupare l'altrui, senza badare che un'altra guerra od alleanza li avrebbe per avventura spogliati di ogni cosa.

Nel ducato di Milano il supremo potere era esercitato a nome del giovane nipote Gian Galeazzo Maria da Ludovico Sforza detto il Moro. Di costui già narrammo i primi maneggi con Roberto Sanseverino, e le prime discordie colla duchessa Bona (1). Ora non gli era il trono distante più che di un passo. Allontanare sempre più l' imbelle nipote dalle faccende dello Stato, annullarne l'autorità, affrettarne il fine, impetrare dall'imperatore una occulta investitura del ducato, rendersi nelle cose d'Italia supremo oracolo, sopra la rovina della casa di Aragona fondare la propria grandezza, insomma di suddito farsi principe, di principe, arbitro supremo di ogni cosa, queste erano le brame di quell'animo vano ed ambizioso, facile nel cominciare, incerto nel proseguire, debole nel conchiudere.

Con ben altri auspizii reggeva Firenze sotto civil forma Lorenzo de' Medici, autore precipuo della lunga concordia d'Italia, e uomo alla cui felicità nulla mancò, nè anco, insieme con molta potenza, la libertà della patria. La sua morte fu come un segnale al- 7 aprile l'Italia di mortali sciagure. Pochi mesi dipoi l'esaltatazione di Alessandro vi alla sacra tiara servi di esca al funesto incendio: Ludovico Sforza vi appiccò le fiamme; nè per attizzarle dubitò di ricorrere allo straniero.

(1) V. sopra, parte IV. cap. VI.

1492

II.

Era rimasto erede delle viete ragioni degli Angioini sopra Napoli il re di Francia Carlo vin, giovane debole d'animo, brutto di corpo, avvezzo nelle cose di momento a pigliar norma dalla sorella e dai cortigiani, in quelle che di per sè poteva comprendere, dal proprio appetito; del resto principe privo d'ingegno, di studio e di esperienza, ma per giovanile baldanza pieno la mente di eroiche idee, verso le quali vieppiù il soffio degli adulatori e la natura ardente dei Francesi lo sospingevano. Pretesseva diritti sopra il regno di Napoli: conquistato il quale, riputava agevole varcare il mar Ionio e l'Egeo, espellere gli infedeli dai luoghi santi, e piantare in Bisanzio l'orifiamma. Codesti diritti, codesti sogni Ludovico il Moro gli ricordò, e, profferendogli all'uopo la sua cooperazione, eccitollo a farli vivi colla spada. A tale effetto, per mezzo d'uomini fidati, gli fece vedere, come l'Italia per tanti anni di pace si trovasse disarmata, e divisa in tanti umori quante erano le sue città, i popoli insofferenti della nuova servitù; i principi non ancora avvezzi al comando; il regno di Napoli pieno di malcontento, epperciò aperto al primo aggressore. In sostanza gli conchiudeva, dover essere più faticoso l'andarvi che il conquistarlo: oltre Napoli rimaner poi altre e veramente grandi intraprese, la sottomessione dell'Oriente, l'innalzamento della cattolica fede, il rinnuovamento dell'impero di Carlo Magno; queste gesta essere degne di un re di Francia». Carlo vi non potè ascoltare freddamente le lusinghiere parole degli ambasciatori milanesi, alle quali

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