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il di seguente, e raccomandò agli abitanti, a Virginio Orsini e al conte da Pitigliano la conservazione della città, ultima speranza dello Stato. Ma non si era egli ancora discostato gran tratto da Capua, che i cittadini ed i soldati si sollevavano, ponevano a sacco il palagio e le scuderie reali, inalberavano le insegne nemiche, e inviavano al re di Francia le chiavi della città. L'Orsini e il Pitigliano sotto la fede di un salvocondotto si ritirarono a Nola: una banda di Tedeschi, la quale era sortita per respingere i Francesi, dovette implorare in ginocchio dai Capuani la grazia di essere ricevuta dentro, con patto di uscirne incontanente dalla parte opposta a dieci a dieci per volta. Usciti, scontraronsi nel re ritornante dall'avere quietato Napoli, e narrarongli quella nuova perdita: indi a pochi passi gli si affacciava il Triulzio coll'avviso di non avere potuto concludere nulla.

Tuttavia Ferdinando, deliberato ad esporsi a qualsiasi pericolo prima di restar privo di tanta città, prosegui nel cammino : ma quando scôrse sventolanti dalle torri gli stendardi della Francia, e sopra le mura l'armi preparate per respingerlo, allora convinto che non Napoli, non Gaeta avrebbero fatto migliore difesa, si rivolse addietro in silenzio, entrò in Napoli, convocò il popolo, e fra le lagrime dei molti, ai quali era nota la sua bontà e grandezza, sciolse tutti dal giuramento di fedeltà, ed esortolli a ricevere e servire onoratamente il vincitore, ed a serbare costante memoria di lui già re, fra breve esule da un regno non mai goduto; quindi non senza avere prima liberato di carcere i baroni già rinchiu

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sivi dal padre e dall'avolo, con pochi amici s'imbarcò per l'isola di Ischia (1).

1495

Il di seguente, dopo quattro mesi e diciannove 21 felib. giorni dacchè aveva superato le Alpi, entrava in Napoli trionfalmente il re Carlo vIII, e ve lo accoglievano le grida dissennate di quella plebe, che poche ore innanzi aveva pure lagrimato alla partenza del suo re, ed era per iscontare con secoli di stenti la fallace gioia di quel momento. Tale fu la conquista di un regno, a difesa del quale non virtù si dimostrò, non consiglio, non senso di onore, non potenza, non fede.

III.

Non eransi ancora i Francesi rassodati del tutto nel nuovo acquisto, che già la insolenza e l'avarizia delle soldatesche, l'ignavia del re, e l'avere distribuito tutti gli utili della vittoria negli stranieri, e mal compensato i baroni amici, e peggio corrisposto alle promesse fatte nel primo giungere, avevano risvegliato in molti petti l'antico nome della casa di Aragona, e di quel buon re Ferdinando, che dall' isoletta d'Ischia stendeva loro, per così dire, la mano benigna. Tuttodi le ultime parole di quest'ottimo principe, i moderati governi di Alfonso 1 e di Ferdinando il vecchio nello imporre, nello spendere, nello

(1) Subito dopo la partenza del re Ferdinando, il Triulzio, giusta il consiglio del medesimo, passò ai servigi di Carlo vIII, che confermollo in tutti i suoi privilegi e possessi, il creò ciambellano e consigliere, e gli affidò la condotta di una compagnia delle proprie ordinanze a cavallo. V. Rosmini, Vita del Triulzio, l. V. doc. 62.

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amministrare, l'affettuosa loro cura delle pubbliche, faccende, il costume loro d'innalzare agli uffici i nazionali, raffrontavansi con isdegno alla superbia o trascuraggine del nuovo re, inaccessibile alle udienze, incurioso degli affari, oppure all'impeto, alla tracotanza, alla rapacità dei suoi ministri; e da questo confronto sorgeva nel popolo e nei signori tal disinganno ed ira delle cose presenti, che da ogni parte in molte guise traboccava. Nè i Francesi curavansi punto o di deviare questi mali umori colla dolcezza, o di soffocarli colla viva forza: anzi, come se quella fortuna che aveva conceduto loro un regno, lo dovesse pure senz'altra fatica conservare, tra feste e ozio trastullavansi colle sostanze dei vinti.

Ma d'improvviso interrompeva questi diletti una molto terribile novella: «i Veneziani, Ludovico il Moro duca di Milano, Massimiliano 1 re dei Romani, e Ferdinando il Cattolico re di Spagna essersi uniti in lega, apparentemente per comune difesa, in realtà per opporsi all'ambizione francese: di già i capitoli del trattato essere stati stesi a Venezia ; e nei capitoli ordinarsi che gli Spagnuoli dal Mediterraneo, i Veneziani dall'Adriatico si sforzassero a ricuperare alla Casa di Aragona il dominio perduto, mentre Ludovico il Moro chiuderebbe i tragetti delle Alpi, e Massimiliano dalla Germania e il re di Spagna dai Pirenei assalirebbero la Francia ».

Al ricevere cotesti avvisi Carlo vi passò da cieca sicurezza a cieco terrore: laonde confida in fretta le cose di Napoli al duca di Monpensieri, a Fabrizio ed a Prospero Colonna, e, lasciandosi alle spalle Roma derelitta dal suo pastore, Siena in tumulto, Pisa in

ribellione, Firenze smunta di denaro e di consiglio, accostasi a Pontremoli per superarne l'Apennino, e rifare la strada per la quale è venuto. Accompagnavano il re 800 lancie francesi, 200 gentiluomini della sua guardia, il Triulzio con 100 lancie e 3000 Svizzeri, e 1000 Francesi e 1000 Guasconi a piedi: di gente italiana erano con lui alcune squadre di uomini d'arme condotte dai tre fratelli Paolo, Camillo e Vitellozzo Vitelli, ed alquante fanterie capitanate da Francesco Secco condottiero dei Fiorentini. Seguitavano il campo francese, come prigionieri di guerra, Virginio Orsini e il Conte da Pitigliano, i quali erano stati presi a Nola, non ostante i meriti della poca fede da loro usata verso il re di Napoli, e la forza del salvocondotto ottenuto. Dall'altra falda dell'Apennino sulla destra riva del Taro già erano giunte e si afforzavano le soldatesche della Lega italiana, di molto superiori per numero di fanti e di cavalli e per qualsiasi specie di munizione.

Scorre il Taro quasi in mezzo a due catene di colline, che, spiccandosi dal fianco settentrionale dell'Apennino, ne seguitano con leggiero declivio il corso insino al Po. Al di là dell'Apennino ed ai suoi piedi sta Pontremoli. Di quinci si dipartiva una strada aspra e disagiosa, non che ad un esercito, ai viandanti; e questa, superato che aveva il sommo giogo, stendevasi fino a Parma, tenendo sempre la destra sponda del Taro. Dalla contraria sponda due altre vie salivano le spalle delle colline: la superiore, molto più dura e terribile, era appena accessibile ai muli ed ai pedoni; l'altra era più bassa e meno incomoda;

entrambe mettevano a Piacenza, verso la quale città era diretto il cammino dei Francesi.

I confederati, non avendo potuto per avventura accamparsi convenevolmente in un luogo più alto, si erano posti presso la Badia alla Ghiaruola sulla destra del fiume tre miglia più sotto di Fornuovo: e tosto si erano messi a disputare, se fosse opportuno di combattere, oppure di lasciare aperta la strada all'esercito straniero. Frattanto nè occupano colle artiglierie la sponda sinistra, cosa che atteso l'andamento di quelle colline sarebbe stata d'insuperabile intoppo al nemico; nè s'avvisano di assaltarne subito l'antiguardo comandato dal maresciallo di Gyes, cosa che avrebbe ridotto a pessimo partito il resto dell'esercito regio, il quale era rimasto addietro una giornata di marcia.

Il maresciallo, giunto a Fornuevo, mandò per un trombetto a chiedere il passo. Scoppiarono allora nel campo della Lega, per così dire, tante opinioni diverse, quanti erano i capitani; per la qual cosa il messo venne licenziato, senza decisa risposta; e ancora si stava caldamente contendendo della convenienza e dei modi di attaccare ovvero di difendersi, di far guerra o di venire ad un accordo, quando sopraggiungeva a Fornuovo il re con tutte le sue genti, e dalle vette dell'Apennino si mostravano gli Svizzeri trascinanti colle corde, colle braccia, e sopra le spalle con infinito travaglio le grosse artiglierie. Codesta vista impose fine alle ciancie dei capitani della Lega, e li trasse nella deliberazione di assaltare il nemico, tostochè si rimettesse in cammino.

Avevano i Francesi con grande confidenza varcato

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