afferrate in fretta le armi, escirono furiosamente di Milano. Fuora di porta Romana si posero cogli squadroni in ordinanza; marciò innanzi a tutti una schiera di giovani soprannomati i perduti, che per conseguire anticipatamente gli onori della milizia mettevansi ad ogni sbaraglio, e si distinguevano per candidi mazzi di piume innalberati sopra cappelli di feltro, le cui larghe falde si piegavano verso il suolo. In totale, dalla loro parte il numero dei combattenti fu fra i trentacinque e i trentottomila. Durante il viaggio risuonava l'aere per ogni intorno di grida, come dopo una vittoria, ed a vicenda capitani e soldati si esortavano ad affrettare il passo, a non differire l'assalto, a non interromperlo; sclamando di volere coprire il terreno dei cadaveri, ed allagarlo del sangue odiato dei Lanzi, massime di quelli, che pronosticandosi la morte vestivano a bruno. Pervennero così a veduta dei Francesi, che, avvertiti dal frequente rimbombo dei loro falconetti, li attendevano in ordine di battaglia, le artiglierie sul fronte dietro un fosso raccomandate ai Tedeschi, e innanzi al fosso 200 lancie del maresciallo di Fleuranges. Pegli Svizzeri, giungere, respingere nel primo impeto gli uomini d'arme del Fleuranges, respingere i Lanzi, che avevano passato il fosso per investirli, rovesciarne gli squadroni l'uno sovra l'altro, poi tutti insieme scagliarsi sulle artiglierie e impadronirsene, fu l'opera di poco tempo, ma di molto sangue e di straordinaria bravura. E questo è certo, che se la luce del giorno avesse conceduto loro di approfittarsi di quel vantaggio, e rivolgere i cannoni sopra i Francesi balenanti, la vittoria apparteneva agli Sviz zeri, e colla vittoria forse i destini dell'alta Italia rimanevano diversi. Ma le tenebre sopravvennero a interrompere il grande conato. Allora, non potendo più l'una parte e l'altra per istracchezza tenere l'armi in pugno, spiccaronsi senza suono di trombe, nè comandó di capi. Nel buio della notte i Francesi, invitati dai continui suoni di un trombetto, raunaronsi attorno alla persona del re, che coi suoi più cari passò la notte accanto le artiglierie. Al contrario nel campo elvetico rimbombava fra il cupo orrore delle tenebre il terribile corno di Ury e la cornetta di Unterwalden; dietro al cui suono avresti veduto le genti andarsi congregando presso le fiamme di un casale incendiato, mentre quà e là Svizzeri e Tedeschi riscontrandosi, e per la somiglianza delle vesti e delle favelle scambiandosi con opposti errori, si assaltano accanitamente, e mescolano amici e nemici in una strage. Così tra tema e speranza, tra cieche affrontate e mal concetti propositi trascorreva la notte. Allo schiarirsi del di con incredibile ardore ricominciava il conflitto. Se non che la notte aveva mutato di gran lunga le condizioni degli eserciti: posciachè i Francesi e si erano in quell'intervallo di tempo riordinati intorno la persona del loro re, ed avevano ricuperato e ridisposto le proprie artiglierie: al contrario gli Svizzeri e si trovavano ancora sparpagliati e confusi, ed avevano perduto la foga del primo assalto. Ciò non pertanto fu il secondo scontro, non meno del primo, ferocissimo; nè per quanto gli Svizzeri venissero sbattuti dalle cariche degli uomini d'arme, o percossi dalle saette dei fanti, o stracciati dai tiri delle artiglierie, accennavano punto di ritirarsi : quand'ecco alle loro spalle levarsi il grido di Marco, Marco! e nel medesimo tempo apparire la prima fronte dei cavalleggeri di Bartolomeo d'Alviano. Ciò li indusse a credere che tutto l'esercito veneto accorresse al soccorso dei Francesi. Allora solamente batterono a raccolta : e postesi sulle spalle le artiglierie leggiere, non rotti, non inseguiti, a lento passo si ritrassero verso Milano. Di quivi poi, sotto pretesto della strettezza delle paghe, si ridussero nei monti nativi, abbandonando per sempre l'Italia alla mercè del più fortunato (1). La memoria della battaglia di Marignano restò suggellata nel linguaggio della plebe, e con esso ancor dura (2). VIII. La vittoria di Marignano, come ridonò ai Francesi la Lombardia, e riconciliò loro il Papa, e rimosse dall'Italia superiore gli Spagnuoli, così avrebbe rimesso (1) Mém. de la Trémouille, ch. XXV. — Giovio, XV. 424-434. Mém. de M. du Bellay, p. 265. — Guicciard. XII. 196. – Mém. de Fleuranges, ch. L. - Mém. de Bayard, ch. LX. Lettre du roi, p. 184 (ap. Petitot, t. XVII). — Prato, St. di Milano, p. 342 (Arch. Storico, t. III). (2) Il perdono è a Marignano, è un proverbio che suona ancora sulle bocche del popolo di Lombardia, e dimostra essere stata tanto più grande l'impressione di quella battaglia, quanto più la nazione, avvilita e conculcata ugualmente dai vinti e dai vincitori, doveva restare indifferente a entrambe le cause, nè aspettare dalla vittoria di questo o di quello niente altro che nuovi oltraggi ed imposte. tostamente i Veneziani al possesso di Brescia, se Bartolomeo d' Alviano dal grave travaglio sostenuto in quella battaglia sopra le forze dell'esile suo corpo non si fosse infermato di un'ernia, che prestamente il tolse dal mondo. Era egli di piccola statura, di stentata favella e d'ignobile aspetto, insomma da parere quasi generato per dispregio della umana schiatta; se i neri e vivissimi occhi non avessero in lui svélata quell'anima potentissima, secondo la quale soleva abbracciare di tutti i consigli il primo o il più pericoloso, senza indugio intraprenderlo, senza riguardo seguitarlo, con furia pari all'audacia proseguirlo sino al fine, e, vincitore, estendere la vittoria all'estremo, vinto, con più terribili intenti ritornare sul nemico, offenderlo sempre, ad ogni colpo serbare l'animo invitto, anzi crescerlo nella sventura, anzi moltiplicarlo. Niuno fu di lui più diverso dal Pitigliano, datogli sovente per correttivo: entrambi per opposti difetti autori della disfatta di Vailà. Niuno fu in cui le forze dell'animo pugnassero tanto con quelle del corpo, delle quali troppo piccol conto suolsi tenere nell'estimazione degli uomini illustri. Aggiungasi che sotto quell'orrida scorza si nascondeva bontà, schiettezza, semplicità di cuore, e integrità di vita non comuni. Nè all'arrischiato guerriero un certo amore e studio di lettere mancò; se vero fu, come sembra, che vivesse in istretta amicizia e dimestichezza con Andrea Navagero, con Girolamo Fracastoro, con Giovanni Cotta e con Girolamo Borgia, e stabilisse per così dire un'accademia a Pordenone, città a lui donata dalla repubblica; e stando prigio 8bre 4515 niero in Francia, con una cannuccia e con polvere di carbone intrisa nel vino scrivesse i commentarii della propria vita, che altri vide ed esaminò (1). Serbarono le meste soldatesche del campo veneto Per alquanti giorni la salma imbalsamata di Bartolomeo d'Alviano, facendole l'usato padiglione, e con perpetuo lume di doppieri e guardia armata rendendole, come a vivo, i supremi onori. Quando poi trattossi di trasportarla a Venezia, non comportarono che se ne chiedesse il salvocondotto ai nemici che erano in Verona; ma sclamando, che chi vivo non li aveva temuti mai, morto non doveva nemmeno far segno di temerli, a viva forza lo condussero in salvo. Solenni esequie, funebre orazione per bocca di Andrea Navagero, magnifico monumento nella chiesa di santo Stefano, annue provvigioni e comodi assegni alla vedova ed ai figliuoli rimasti in povertà, onorarono quindi per parte della repubblica la memoria di Bartolomeo d'Alviano, della cui morte tutta Venezia fu dolentissima, quantunque, stante gli ordini suoi di aristocrazia ricca ed immutabile, anzichè un animo bollente e rischioso, le sarebbe convenuto un freddo capitano, che sapesse temporeggiare la guerra, e temporeggiando vincere (2). Alle calde istanze dei Veneziani sottentrò nelle A. 1516 veci del morto Alviano Gian lacopo Triulzio; e tosto, (1) Tiraboschi, Storia della letter. ital. t. VII. p. I. l. I. c. IV. §. 23.-P. Jovii, Elogia, 1. IV. 348.-Nardi, Storie, I. III. 91. (2) Paruta, Ist. Venez. 1. III. p. 134. -Giovio, Storie, XV. 437. - Guicciard. XII. 209. —A. Mocenici, VI. y. — Mém. de M. du Bellay, 271 (t. XVII). |