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Renato duca di Angiò, e Alfonso re d'Aragona erano sorti a disputarsene la eredità: prestava favore all'Aragonese il principe di Taranto col nerbo della baronia: prestavanlo all'Angioino il papa Eugenio ed un condottiero, alla cui fama non il valore, non l'ingegno, ma soltanto bastante campo mancò. Dir voglio Giacomo Caldora, il vincitore di Braccio; il quale solo, colle sue vecchie bande e possessioni, resistè sovente a tutto lo sforzo degli Aragonesi, e colla intemerata fedeltà alla buona ed all'avversa fortuna di Renato compensò l'incostanza, colla quale tre lustri avanti non aveva dubitato di rivolgere le armi contro a Braccio suo amico e confederato. Erano adunque Francesco Sforza e il Caldora stati compagni nella vittoria all'Aquila: ora in diversa età, ma in non diversa fama, stavano per ritrovarsi insieme ad uguale impresa: posciachè il duca di Milano, ingelosito, dei progressi del re Alfonso e mal pago delle dimostrazioni di riverenza, che la sua vanità, simulando rifiutarle, insaziabilmente ne pretendeva, aveva inviato verso Napoli lo Sforza, affine di rilevarvi la parte Angioina.

Ma due accidenti, entrambi inaspettati, sopravvennero a deludere queste ultime speranze del buon Renato. In primo luogo quando già Francesco Sforza, dopo avere sottomesso per via Terni e Foligno, si era approssimato al fiume Pescara, le preghiere e le proteste del re d'Aragona toccavano siffattamente l'animo del Visconti, che non solo proibiva al condottiero di procedere innanzi, ma con minaccie di guerra induceva i Fiorentini a richiamarlo. S'aggiunse in secondo 189bre luogo la morte di Giacomo Caldora; che mentre pas

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seggiava tra due amici aspettando la resa di non so qual terra, côlto da subitaneo male stramazzava al suolo, e in poche ore esciva di vita. Capitano forte e magnanimo, di aspetto maestoso, di bella statura; e parlava con grazia anzi con facondia più che militare, nè mediocremente amava e professava le lettere. Signoreggiò gran parte dell'Abruzzo, della Capitanata, del contado di Molise e della terra di Bari: pur non sofferse mai, nota uno storico, « d'esser chiamato nė principe nè duca; ma gli parea che chiamandosi « Giacomo Caldora superasse ogni altro». E per verità i titoli, pareggiando chi gli porta, ingrandiscono i deboli, impiccioliscono i forti: onde il portarli è sovente modestia, e superbia il contrario; siccome il piegare un grande animo a fortuna nemica può essere magnanimità, e debolezza il disperarsi e non operare il poco bene che si può.

Del resto, sia per cagione della sua fama, sia per cagione della sua potenza, ebbe il Caldora una fiorita scuola di capitani non solo valorosi, ma nobili e potenti in denaro ed in signorie, un Antonio e un Raimondo, l'uno figliuolo, l'altro consanguineo suo, un Paolo di Sangro, un Raimondo di Anichino, un Carlo di Campobasso, e quel Nicolò di cotesto medesimo casato che portò oltre le Alpi il nome della italiana milizia. Questi tutti alla testa delle schiere accompagnarono la salma dell'estinto condottiero agli ultimi onori in Sulmona, e in pubblica assemblea giurarono unanimemente di obbedire al figliuolo colla stessa fede, colla quale fino allora avevano obbedito al padre. Nel medesimo giorno veniva quegli investito dal re

Renato di tutti gli Stati e cariche e condotte già godute

da lacopo (1).

Frattanto un nuovo e non più udito inganno aveva riunita la Romagna sotto gli artigli di Filippo Maria Visconti. Turpi cose narriamo, sperando che i posteri ne prendano motivo di compensarle con generose operazioni. Che se cotale speranza non fosse, chi s'accingerebbe a svolgere cotesta storia d'Italia, dove il lavoro è immenso, l'onore poco, e il pericolo e il danno sovente gravissimi?

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Non aveva ancora Francesco Sforza dato compimento all'accordo di Lucca, che Niccolò Piccinino, tutto in vista pieno di rabbia, si era partito colle sue squadre dalla Lombardia, e, traversata la Emilia, e costeggiata Bologna, si era accampato a Camurata tra 24 marzo Ravenna e Forlì, quasi in aspettativa di qualche partito. Nei fatti, nei quotidiani colloquii, nelle lettere da lui inviate specialmente al Papa, immensa appariva la sua esacerbazione verso il duca di Milano e lo Sforza. Questo essere stato, sclamava, il premio di tanti suoi sudori, di tanti pericoli, di tante vittorie: per questo avere combattuto e vinto sul Serchio, sull'Adda, sul Po, sul Tevere, e riportarne ancora nel collo e in tutta la persona moleste ferite: di tante fatiche du rate a pro del Visconti, che altro rimanergli se non di dovere stentare la vita, correndo da soldo a soldo? Ben larghe ricompense apparecchiarsi a Sforza, pur testè mortal nemico del duca: al traditore le città di Lombardia, al traditore le grasse paghe della lega e di Milano assegnarsi; anzi fra poco il seggio supremo,

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anzi il comando di tutta la milizia, e mettergli sotto i vecchi capitani, che hanno vinto più battaglie ch' egli non abbia noverato anni di vita. Quanto a sẻ, volerla finita; difenda il nuovo campione colla fede pari all'esperienza il retaggio dei Visconti: a sè invecchiato nelle guerre garbare minor lustro, ma più sicuro da vergogna ed oltraggio; offrirsi perciò ai servigi della lega; e se quelle forze, che pur l'hanno tanto travagliata, valgono ancora qualche cosa, useralle tutte, onde sradicarle dalle viscere l'infame potenza sforzesca. In sommia due beni in una impresa proponeva; cioè riacquistare al papa la Marca, e impedire a Sforza di soccorrere il duca di Milano.

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Non è a dire se la bella offerta riuscisse gradita al sommo pontefice, ed ai Veneziani amici suoi. Tosto per dar cominciamento alla grande opera vengono consegnati al condottiero cinque mila ducati, e si rimette al suo arbitrio, o di militare a certo soldo in servizio della Chiesa, o di entrare con maggiore condotta capitano generale della repubblica. Ma egli frattanto a ben diverso e impreveduto fine lavorava. Mentre Roma e Venezia addormentate sopra fallaci lusinghe trascuravano le più necessarie cautele, fidi emissari del Piccinino perlustravano sotto mille aspetti le città della Chiesa, e vi facevano ricerca dei malcontenti, e vi ravvivavano le sopite passioni di municipio o di fazione. Allora, cogliendo il destro, traevano in campo il nome del duca di Milano ed il valore delle sue squadre, e come protettore e difensore di libertà e di giustizia il mettevano in amore e maggio in desiderio. A un tratto il fiero inganno scoppiò. Spoleto e Bologna a furore di popolo si rubellarono;

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Imola, Forli, Borgo S. Sepolcro inalberarono la bandiera del Visconti, Ravenna e Bagnacavallo per repentino assalto furono prese; infine senza bombarde, senza scale, senza stimolo di fame, venti delle più forti ed illustri terre d'Italia scossero il freno del sommo pontefice.

Il Piccinino sulle prime simulò di non sapere nulla di questi tumulti, anzi comandò al figliuolo Francesco di uscire da Spoleto per non apparirne complice: poscia, come vide la rivolta, a guisa d'impetuosa fiamma, sboccare dalle nascose pratiche, levossi il velo; e quasi egli fosse l'offeso, mandò per tutta Italia significando la nuova colpa di papa Eugenio IV aver voluto il romano pontefice non solo strapparlo dai servigi dell'antico e amorevole signor suo, ma procacciargli orrenda nota di traditore col rivoltarglielo contro: nuovo genere di guerra essere cotesto, di mandare denari e di fare cortesie ai condottieri affine di infamarli e renderli rubelli! Che mai potersi sperare dai patti e dai giuramenti, ora che il capo della Chiesa ardisce tanto?» Per conseguenza di tutti questi rumori prendeva l'armi il Visconti come oltraggiato, prendevanle Venezia, Firenze e il papa come oltraggiati e derisi, e chiamavano a capitanare le loro genti Francesco Sforza. Perciò questi s'affrettò a stipulare una tregua col re Alfonso: sottoscritta la quale, si rivolse addietro, e ardendo per viaggio la terra di Sassoferrato, venne a stabilire le sue stanze invernali nella Marca (1).

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(1) Bl. Flav. Hist. dec. III. 1. VIII. 522.-M. Sanuto, 1058.

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