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Ma il Piccinino, tostochè ebbe conquistata tanta parte d'Italia, lasciovvi a guardia il figliuolo, e tornando colla solita prestezza in Lombardia, s'impadroni di Casalmaggiore, occupò tutto l'Iseo colle terre che dentro vi si specchiano, circondò Brescia di bastite, ned era affatto spuntata la primavera, che scendeva a guerreggiare Verona e Vicenza.

V.

Da gran tempo l'Italia non aveva mirato una si A. 1439 ben contrastata e varia lotta trà due più famosi capitani, quanto quella, che nel 1459 venne in Lombardia ingaggiata tra Niccolò Piccinino é Francesco Sforza (1). Era divisamento del condottiero bracciesco di impedire con una parte dell'esercito all'emulo suo di passare l'Adige, e soccorrere Brescia oramai ridotta agli estremi della fame, non ostante gli smisurati sforzi intrapresi quel verno dai Veneziani e dal Gattamelata loro capitano per liberarla (2). A tal

- Joh. Simonett. 271. segg. ·Boninc. 147. Machiav. V. 74. Ann. Foroliv. 219 (t. XXII).

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Fu in questa occasione che il duca Filippo Maria concesse per ricompensa al Piccinino il capitanato di tutte le genti d'arme, e le insegne e il nome proprio (V. Decembrio, Vita di N. Piccinino, p. 1070. t. XX).

(1) Nella nota XIX vengono riportati i nomi e le forze dei condottieri assoldati in quest'anno dai principi d'Italia.

(2) Gattamelata Stefano da Narni, d'origine fornaio e discepolo e famigliarissimo di Braccio, comandava in Brescia, quando Niccolò Piccinino vi pose l'assedio: onde temendo di morirvi di fame, per le aspre giogaie de'monti che coronano I'Italia, condusse la sua cavalleria a Verona, mediante una ritirata che in quei giorni venne riputata meravigliosa. Sorpreso

fine Niccolò Piccinino trincierossi a Soave di là dall'Adige, e ingombrò di fosse e di tagliate il paese sino alle paludi del fiume. Era Sforza già pervenuto a Ferrara, e non tanto le istanze de'cittadini di Brescia e dei Veneziani, quanto il desio d'onore spronavanlo a mettere in opera tutto il suo possibile per salvare quella città. Dispone pertanto il suo cammino più in alto verso la collina, e, mentre il nemico sulla vetta viene trattenuto da una mano di scorridori, egli a corsa passa sottovia con tutto l'esercito. Ciò astrinse il Piccinino a ritirarsi di quà dall'Adige, ed a munire di genti e di trinciere le sponde del Mincio di dove egli esce dal lago di Garda insino a Mantova. Nel mede- 26 7bre simo tempo con un'insigne vittoria dissipava il naviglio che i Veneziani tenevano sul medesimo lago. Così ogni via un po' conosciuta di soccorrere Brescia parve loro interclusa..

Rimaneva, è vero, la strada dei monti per chi si fosse avventurato a salire la nordica punta del lago. Ma enormi ostacoli si frapponevano al passaggio di un esercito: primieramente aspre balze, stretti sentieri, minacciosi torrenti: poi il paese e il lago in mano dei nemici, la difficoltà dei viveri, e la impossibilità di maneggiarvi la cavalleria. Tuttavia essi non furono bastanti a sgomentare Francesco Sforza. Mandate in Verona le salmerie, si inoltrò con grave fatica sino al lago di s. Andrea; quindi, non cessando

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nel 1440 da un accidente apopletico e trasportato a Padova vi morì tre anni poi. La Repubblica gli fece innalzare un monumento equestre. V. Jovii, Elog. viror. 1. II. p. 199. — Sanuto, Vite dei dogi, 1063. - Cristof. da Soldo, St. Bresc. 798 (t. XXI).

1439

di montare, giunse a Peneda, e finalmente piantò le tende nella valle del Sarca. Stavagli a destra Arco, a sinistra Riva di Trento e il lago, a fronte la rôcca di Tenna, tenuta dai ducali. Accostatevi le macchine, tosto sopraggiungeva a difenderla il Piccinino con gente sbarcata a Riva: perlochè, rinfiammandosi vieppiù gli sdegni tra assediati ed assediatori, un 9 9bre di venne la pugna crescendo a forma di giudicata battaglia. Già i seguaci del Piccinino, sopraffatti dal numero e dalla costanza dei nemici balenavano, quando, sforzate le trinciere, si mostravano inaspettatamente sulle creste dei monti circostanti i cittadini di Brescia. Cotal vista persuase i ducali a fuggire. Fuggirono chi alle navi, chi a Riva, chi pei dirupi, chi nella rocca di Tenna. Fu tra questi ultimi il Piccinino.

Ma non appena vi era dentro, che, pensando quanto fosse debole il sito, e con quanta cura ve lo assedierebbe Sforza, il quale pur testè gli aveva bandito sul capo una taglia di 5000 ducati, deliberò di escirne, o soccombere almeno tentando. Trovavasi per avventura nel castello un nerboruto Tedesco, suo famigliare; a costui ordinò di chiuderlo in un sacco, gettarselo in spalla, e, come se fosse una parte del bottino fatto dai vincitori, portarlo tra mezzo ad essi. Detto fatto: il corpicino magro e scrignuto del condottiero aiutò l'astuzia, gli alti e quadrati omeri del buon Tedesco fecero il resto. Così Niccolò Piccinino entrò a salvamento in Riva (1).

(1) Joh. Simonett. 280. Crist, da Soldo, 814.-Machiav. V. 77. ― Rosmini, St. di Milano, 1. IX. p. 347. — Un po' diversamente viene questo fatto raccontato in una cronichetta ms.

Ma in quel bizzarro tragitto aveva già egli mulinato i modi di rifarsi a doppio della vergogna e del danno riportato. Sapeva in Verona essere poca e mala guardia: a Peschiera, sull'altra sponda del lago, stare in pronto un fiorito esercito sotto il governo del Gonzaga; la stagione fredda prestare mano all'impresa: nelle operazioni straordinarie non di rado essere l'immaginare più che il conseguire difficile ». Concluse pertanto di assalire Verona, il cui acquisto lo avrebbe certamente compensato d'ogni male, che fosse per risultare dalla liberazione di Brescia. Nè all'audace disegno seguitò men prestamente l'esecuzione. Montato a Riva in un barchetto, traversò il lago a voga arrancata, raggiunse a Peschiera il campo ducale, il condusse di notte sotto Verona, ed appoggiate le scale al luogo indicatogli da un disertore, ne fu prima signore che i cittadini e la guarnigione lo 169bre sospettassero.

La nuova della perdita di Verona recata da un fuggitivo al campo dello Sforza sotto Tenna non trovò sulle prime credenza; bentosto accorsero a confermarla messi sopra messi. Egli allora pensò di appor

di Brescia: «Nicolò Pizinin se cazò in uno castello chiamato « Tenno, e lo magnifico Gatamelata (leggi Sforza) si gli accampò « intorno, sperando aver la persona sua, et faceali far grande << guardia, e per esser la peste in Ten, vedendo Niccolò Pizzi«nin per altra via no poter uscir dale man di Gatamelata, se « fece cazzar in uno sacco sporco e strazzato, e tolto in spalle « per un sottrador (becchino), e una zappa in man e uno «< campanelo, lo portò via, sonando lo campanelo, e visto que«<sto Gatamelata fece domandar che era quello; lui rispose « che era un morto di peste, che andava a sepelire; et altro « non gli fu dito, perchè di altri se ne portavano».

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tare con tanta celerità il rimedio, con quanta era venuta la ferita. Era notte buia, e per neve e per freddo sopra il corso ordinario delle stagioni terribilissima. Congrega nondimeno le schiere, e parte coi preghi, parte colle minaccie le persuade ad accompagnarlo. Giunse così prestamente alle Chiuse, passo angusto quanto il fronte di due cavalli. Era stato questo passo dato in custodia a un Giacomo Marancio; il quale sapendo che la propria famiglia era caduta in potere de'nemici, acciocchè l'amore del proprio sangue non lo inducesse per caso a prevaricare, aveva consegnato il sito in guardia ai paesani amantissimi della repubblica; sicchè il conte non vi rinvenne ostacoli (1). Nulla era frattanto in quella notturna marcia il travaglio della via a monta e scendi per borri e dirupi, appetto all'orribile freddo e al folto nevazio, pel quale chi perdeva la mano od il piede, chi n'aveva guasta la vista: nondimeno stimolati dall'esempio del · proprio capitano, e dal desiderio di ricuperare le bagaglie e vendicarsi, proseguivano di voglia, sinchè arrivavano sotto Verona tre notti dopo di averla perduta.

Tenevansi ancora per s. Marco la porta di Brajda, il Castel Vecchio, e la rocca di S. Felice. Per questa Francesco Sforza entrò colle sue genti, per questa sorti ad assaltare i nemici sparsi per le vie a far bottino. In breve costoro rotti e incalzati da ogni parte cominciarono a ritirarsi pel ponte detto della pietra: ma il ponte sotto al grave peso de' fuggiaschi preci

(1) Sabellici, Hist. Venet. dec. III. 1. IV. p. 618.Sismondi, Repubbl. Ital. c, LXIX.

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