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valli cogli opportuni arnesi ne furono la dote. Da queste nozze nacque Iacopo, destinato a gran fama, ma cagione in sul nascere di morte alla genitrice : avvegnachè Niecolò, riputando il parto adulterino, lei uccise, la prole adottò. Ciò fu anche motivo al Piccinino di uscire dalla compagnia di Bartolomeo da Sesto e di entrare in quella d'un Guglielmo Mecca. Alla fine, morto il Mecca per man de'nemici, prese partito con Braccio istesso, allora appunto impegnato nelle prime ostilità contro Perugia.

Quivi i progressi di Niccolò furono pari alle oceasioni. Un di Braccio, veggendolo uscire di steccato vincitore di due avversarii, gli pose in capo di sua mano una ghirlanda. Indi a non molto l'innalzò dal comando di cinque cavalli a quel di dieci, e finalmente di cento. Con questa gente Niccolò fu principale istrumento della vittoria riportata da Braccio sotto le mura di Perugia. Del resto intrepido, alacre, audacissimo, primo alle scorrerie, agli assalti, alle rapine, in breve meritò, che la sua attività e la sua prestezza passasse in proverbio. Un giorno Braccio sorpreso da' nemici dentro certo convento, stava in punto di arrendersi, quand' ecco sopraggiunge il Piccinino e il salva fuor d'ogni espettazione. Un'altra volta era egli medesimo assediato in non so qual terricciuola, quando, pervenutagli notizia di certo convoglio di panni e denari spedito agli assedianti, fece disegno d'impadronirsene. Detto fatto, esce chetamente con pochi seguaci, passa fra squadra e squadra, arriva alla preda, la piglia, la distribuisce tra' suoi, misurando il panno colle lancie, ed è pri

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ma rientrato, che agli assediatori sia pervenuto sentore dell'ardita fazione (1).

Con queste prove il Piccinino, vincendo il torto ricevuto dalla natura nella difettosa costituzione del corpo, si meritò per moglie la nipote di Braccio, e si conciliò tanta stima ed affezione presso a' compagni, che, morto Braccio, niun altro che lui stimarono degno di comandarli. Niccolò, lasciatane tutta la pompa ad Oddo figliuolo di Braccio, sottentrò di buon grado all'officio, non meno che onorevole, pericoloso, e con sessantamila fiorini ritrovati nel castello di Paganica (li aveva Firenze spediti colà a Braccio per prima presta della sua condotta stipulata nel febbraio (2)) comprava tosto da' nemici la licenza di ritirarsi in Toscana. Tali almeno furono i patti; ma questi patti non avrebbero assicurato i Braccieschi dalle insidie tese loro per via da Antonio Caldora, se Francesco Sforza con rara magnanimità non li avesse scorti in persona fin oltre l'agguato.

Altri pericoli e sventure soprastavano al Piccinino in Val di Lamone; nella quale, non ostante il verno (1) «El panno con le lancie misuraro

« Sortito con ciascuno, com' esso volse ». Spirito, Paltro Marte, l. I. c. XXX.

(2) Nel libro delle Condotte si ha:

« A. 1423 (leggi 1424) 13 febbr. —Illustr. et magnif. prin«cipem D. Braccium de Forțebracciis comitem Montonis et « Perusii dominum, in capitaneum M. lancear. trium homi«< num et equorum pro qualibet lancea, et 300 peditum balista«riorum, tamquam capitaneum generalem guerre et exercitus communis Flor. pro tempore IX mensium cum stipendio et « provisione ut in pactis et capitulis continetur ».

e il proprio di lui parere, i Fiorentini aveano voluto che incamminasse le squadre. In fatti non si tosto i villani le mirarono impacciate tra le rinvolture di que'gioghi, che insorgendo da ogni banda alle armi, con gran facilità le ruppero ed oppressero. Oddo, anzichè arrendersi, vi si fe' uccidere; il Piccinino fu menato prigione a Manfredi, signore di Faenza. Ma questa sconfitta era un nonnulla per lui. Indi a pochi giorni udivasi, aver le persua→ sioni del Piccinino operato tanto sul Manfredi da congiungerlo in lega con Firenze: e vedevasi il condottiero uscir gloriosamente di carcere, riunire le sue bande sparse e scoraggiate, e ritentare sotto Anghiari la fortuna delle battaglie (1).

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Reggevano l'esercito di Firenze, oltre Niccolò, il 9 8bre Tolentino e Bernardino della Carda degli Ubaldini; militavano sotto gli stendardi di Filippo Maria Visconti il conte Guido Torello e Francesco Sforza che, dopo avere ricuperato alla Chiesa alquante terre già usurpate da Braccio, con 4500 cavalli e 200 fanti s'era condotto a que' servigi. Fu ad Anghiari, non altrimenti che a Zagonara l'anno avanti, la vittoria favorevole a' Viscontei: per lo chè il Piccinino, mirando anche scaduta la sua ferma, s'accampa all'Orsaia, e manda a Firenze il proprio cancelliere per interrogarvi la volontà della signoria. Questa gli propose di assoldarlo nuovamente, ma col patto che obbedisse al generale capitano dell'esercito. Niccolò rifiutò: ri

(1) Cron. d'Agobbio, 962. — Ammirato, St. Fior. XIX. p. 1019.Joh. Simonett. p. 201. - Cavalcanti, St. Fiorent. Į. !!I. c. XIV. XVII,

propostogli lo stesso partito, aperse issofatto trattative di passare agli stipendii del duca di Milano, tempo tre di alla repubblica per mutar pensiero. Questo tempo venne dai Fiorentini consumato nel disputare: laonde senza indugio leva egli le tende, e si congiunge ai nemici.

Appunto in quell'istante aveva la repubblica risoluto di concedere al Piccinino autorità indipendente da qualsiasi altro: perciò quanto ne sdegnasse non è a dire. Dallo sdegno alle ingiurie, dalle ingiurie alle offese è facile il passo. Firenze fece dipingere in piazza il condottiero a guisa de' traditori impiccato per un pie; dal suo canto il Piccinino spinse il guasto e l'arsione fin sotto la città. Quindi, aequartierate le squadre nel territorio di Città di Castello, sceglie per sua dimora certa casa appartata di Lugnano, e come in paese amico, senza ombra di timore, nè scolta, nè vedette, vi sta. Il seppe Nicolò da Tolentino, ch'era alloggiato colle genti fiorentine dentro Cortona: e senza frappor tempo in mezzo, partesi di notte in gran silenzio con una eletta banda di cavalli, giunge a Lugnano, cinge d'armati la casa del Piccinino, ne ruba i cavalli dalle stalle, e quando ogni via di scampo pare interclusa, mette il fuoco alle stipe intorno intorno ammucchiate. A un tratto le grida, l'armi, il fuoco, il fumo, l'arsura avvertirono il Piccinino del supremo pericolo. Era dietro la casa un precipizio, non occupato, come inaccessibile, da' nemici. Giù da esso buttossi egli seminudo. Volle la fortuna che senz'altro male rotolasse sino al fondo. Nel sorgere all'altra riva s'avvenne in un trombetto; a costui ordina

tosto di suonar la chiamata, e con quel falso all'arme scaccia in fuga gli assalitori (1).

Di quivi Nicolò con ottanta compagni muoveva a Milano per concertare col duca Filippo Maria le future operazioni di guerra. Ma nella Lombardia un nuovo condottiero e nuovi avversarii stavano per venirgli a fronte; il qual condottiero, dopo essere stato il più fido sostegno, e l'anima, e la salvezza di Filippo Maria Visconti, ora in sembianza d'esule e di nemico accendeva delle sue furie Venezia, affine di indurla ad entrare in lega coi Fiorentini contro a quel tiranno (diceva egli), schernitore di patti, ambizioso, potentissimo, che oltre gli Apennini, oltre la Lombardia aveva disteso i suoi disegni, e colle vittorie d'Anghiari e di Zagonara, e co' recenti acquisti d'Imola, di Forli, di Lugo e di Forlimpopoli minacciava l'Italia, non che Verona e Padova, di servitù.

II.

Era questo condottiero Francesco Bussone, già ricordato altra volta, le cui vicende, per non interrompere il filo della narrazione, riassumiamo in questo luogo. Carmagnola, non dispregevole terra del Piemonte, gli diè nome e oscuri natali verso il 1590. Invogliato al mestiero del soldo dal luccicore delle armi e dalle parole d'un venturiero Tendasco, ancora imberbe lasciò di pascere le vacche, e seguitollo sotto le insegne di Facino Cane. Gagliardo animo in gagliardo corpo, costanza, ardore ad ogni pericolo, furono le doti che gli acquistarono in breve la stima del suo

(1) Spirito, L'altro Marte, c, XXXI.

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