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Recaronsi preziosissimi arnesi, tappezzerie, argenti, armi, gioie, vasi, denari, infine il fiore delle ricchezze ammassate da lacopo Caldora. Stupefatta la Corte contemplò lunga pezza la ricca materia, e lo squisito artificio di tanto tesoro; e vieppiù meravigliava comparando l'alta potenza e bravura del padre, che lo aveva acquistato, colla miseria e viltà del figliuolo che lo aveva perduto. Al fine il re Alfonso, rivolgendosegli in tuono benigno: Conte, selamo, la virtù dei padri è cosa tanto bella, che debbonsene rispettare le memorie; io non solo ho determinato di donarvi tutte queste cose, tranne un vaso che mi garba ténere, ma colla libertà voglio donarvi altresì l'antico stato dei vostri genitori: i nuovi acquisti paterni non già, perche ho in pensiero di restituirli a chi mi ha fedelmente servito; e nè anche le squadre, perchè, finita la guerra, intendo che il regno respiri dagli alloggiamenti, e bastano per la pubblica sicurezza quelle che ordinariamente tiene il gran conestabile. Del resto a voi ed a tutti i vostri consorti condono ogni offesa; e siate, come valorosi, cosi fedeli e ricordevoli dei nuovi beneficii».

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A queste parole del re, il Caldora inginocchiossegli ai piedi, e dopo averglieli baciati gli rese quelle grazie che a voce poteva; e perchè sull' ultimo gli pareva essere stato da lui notato d'infedeltà, cominciò a scusarsi, e rivolgere la colpa sopra parecchi del Consiglio, da cui asseriva essere stato ammonito delle sinistre intenzioni del re contro di sè e della sua schiatta, e fecesi apportare una cassetta piena di carte, che, secondo lui, ne contenevano le prove, Ma Alfonso, fattele

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abbruciare in sua presenza, impose termine all' ignobile spettacolo. Restò il Caldora coi contadi di Palena, Piacentro, Monteriso, Archi, Aversa, Valva e Triventi; pur gli sembrava di essere precipitato dal cielo in terra, non tanto per la perdita delle molte città e provincie, quanto per quella delle squadre, che rendevano il nome del suo casato per tutta - l'Italia illustre e potentissimo (1)..

Quindi il re spogliava a suo bell'agio Francesco Sforza di Troia, di Manfredonia e delle altre possessioni della Puglia.

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Già accennammo, come questo condottiero dap- prima fosse inviato verso Napoli dal duca di Milano a soccorrervi la fazione di Angiò, quindi richiamato indietro per gli intrighi del medesimo duca: il quale, vinto dalla solita gelosia e dalle accorte supplicazioni del re Alfonso, non aveva tardato a convertire in altrettanto odio l'affezione últimamente concepita verso Sforza. Perciò riputando d'aver fatto troppo col dichiararlo suo genero e dargli tante terre, senza neanco staccarlo dall'amicizia di Venezia e Firenze, e forse anche temendo della sua ambizione, quando ritornasse da Napoli vittorioso, aveva avvisato un nuovo espediente per compiacere al re Alfonso, e disfarsi nel medesimo tempo non solamente di Sforza, ma anche del Piccinino. L'espediente adoperato fu questo che il duca Filippo Maria offerse in servigio

(1) A. di Costanzo, St. di Napoli, 1. XVII-XVIII, 414-435. Barth. Facii, cit. P. 93-107.

del papa Eugenio IV la persona e le schiere di questo último conduttiero pagate a sue proprie spese, purchè il papa se ne valesse a ricuperare la Marca, che da otto anni era posseduta da Sforza. Non è a dire se il partito proposto incontrasse aggradimento. Senza indugio venne conclusa una potentissima lega fra Eutgenio, il re Alfonso e il duca di Milano, il fine della quale in palese era di spogliare Francesco Sforza di tutte le terre che asserivansi usurpate da lui, ed in segreto era anche di abbattere i Veneziani ed i Fiorentini che lo spalleggiavano. Fu primo segno di quella confederazione un severissimo bando di papa Eugenio; nel quale dopo avere incolpato Sforza di usurpazione, di mancámento di fede e di congiura, il privava dell'ufficio di gonfaloniere della Chiesa, lo proclamava ribelle, e gli intimava la guerra. Ad amministrarla si mosse tosto il Piccinino ; ma una tregua di otto mesi concertata per opera degli oratori di Venezia e di Firenze sopravvenne a frenare il primo scoppio delle armi.

Sembrava eterno quell'accordo, con tanto fervore i due capitani baciaronsi ed abbracciaronsi tra loro! Ciò non di meno pochi giorni appresso Niccolò occupava a Sforza la città di Tolentino. Rifacevasi la pace; ed alla sua volta Sforza saccheggiava al Piccinino Ri30 9hre patransona. Allora questi occupava all'altro Gualdo ed 1442 Assisi; ed una nuova lega si stringeva tra il papa, il re Alfonso ed il duca di Milano ai danni di Sforza, di Firenze e dei Veneziani (1). Era già il conte arrivato nei confini dell' Abruzzo, quando gliene giunse certo

(1) Joh. Simonett. VI. 318. segg. Ammirato, XXII. 40. In questa occasione Niccolò Piccinino veniva dal Papa, creato gonfaloniere della Chiesa, e dál re Alfonso fregiato del sopran

avviso. Voltossi perciò addietro piucchè di fretta, e; siccome era già principiata la stagione d'inverno, distribui le soldatesche tra Fermo, Ascoli, Cingoli, Fabriano, lesi, Osimo e Rocca-Contratta. Ciò fatto, considerando alla incorrotta fede di esse ed alla fortezza dei siti, si persuase di poter temporeggiare con onore sino all'arrivo delle genti promessegli dalle Repubbliche amiche.

Ma (e lo seppero molti principi!) le soldatesche sole non fanno la forza degli Stati: perchè, vinte le soldatesche, che resta egli allora? Vuolsi che la milizia sia parte dello Stato, e dallo Stato emerga, affinchè una prima sconfitta non sia irremediabile, nè lo Stato si perda o si vinca quasi a giuoco di zara. Aveva lo Sforza introdotto nella Marca un governo militare fondato sopra imposte forzate e rapine: ciò aveva generato negli animi naturalmente molto mutabili della popolazione un grave dispetto delle nuove ed un incredibile

Aggiungeyasi, e desiderio delle antiche condizioni.

pel conte non militava nè la riverenza che si concilia una lunga e regolata signoria di padre in figlio, nè l'affezione che il principe si acquista mediante la prosperità delle pubbliche cose e i buoni costumi e la continua presenza. Per la qual A.1433 cosa non cosi tosto il re Alfonso e Niccolò Piccinino entrarono nella Marca con un esercito di trenta mila armati, che Matelica, Tolentino e Macerata inalberarono la bandiera della Chiesa, Manno Barile il più antico servitore di casa Sforza ne abbandonò i servigi, e

nome di Aragona, come già dal duca di Milano era stato ornato di quello di Visconti.

Troilo Orsini, e Pietro Brunoro condottieri del conte, non solo lo abbandonarono, nia consegnarono ai confederati le città di fesi e di Fabriano. Insomma non era quasi ancora principiata la guerra, e già 2400 uomini a cavallo e 600 a piedi erano disertati. Tenner dietro a queste defezioni quelle di Cingoli, di Osimo, di Toscanella, di Acquapendente, ed infine, tranne Fermo difesa da Alessandro Sforza, di tutta la provincia.

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A tante avversità Francesco Sforza cercava qualche compenso nella vendetta. Stavagli specialmente a cuore il tradimento di Troilo Orsini e di Pietro Brunoro, né indugio a punirlo col braccio stesso del proprio nemico. A tale effetto finse certe lettere come se scritte da essi due, nelle quali questi si davano a di vedere per traditori verso il re Alfonso. Queste lettere quindi furono con molt'arte da Sforza fatte cadere nelle mani del re; il quale incontanente ordinò che i due capitani venissero arrestati, e carichi di catene chiusi in Ispagna nel fondo di una torre. Quivi rimasero per ben dieci anni a piangere il fiore della vita sfruttato per una non vera loro colpa. Ne forse quelle catene sarebbersi spezzate pur mai; se Bona, una giovinetta già tempo raccolta dal Brunoro in Valtellina e solita a seguirlo sotto spoglie maschili in ogni impresa, con costanza nata da amore e da gratitudine, non avesse dato opera a liberarlo. Tentò dapprima il core del re Alfonso, ma indarno. Fu veduta allora questa invitta donna empiere delle sue strida l'Italia, la Francia e l'Inghilterra, e a tutti i più potenti principi e illustri personaggi presentarsi, e piangente e prostrata supplicarli d'interporsi per la liberazione di Brunoro. Ne per tempo, per stenti, o per

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