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la superiorità delle sue artiglierie, infine la inaspettata clemenza della stagione, furono i veri mezzi che riuni Iddio per appianargli in modo straordinario la via dalle Alpi a Napoli. Dalla sua calata insino alla battaglia di Fornuovo sarebbe assurdo fare alcuna comparazione di valore fra Italiani e Francesi, non vi essendo stata di mezzo nè anco una scaramuccia; a Fornuovo non tanto la individuale bravura, quanto la disciplina e la fortuna degli invasori riportarono vittoria della sfrenatezza degli Stradiotti e del mal indirizzo degli Italiani. Pur quella era l'ultima battaglia, che il corpo degli Stati di Italia, contro a uno straniero, ingaggiasse; la qual sorte due sole volte in tanti secoli le occorse. E per vero dire, come a Legnano trionfando dell'imperatore Federico Barbarossa aveva acquistato libertà e indipendenza, a Fornuovo non vincendo il re di Francia riperdeva l'una e l'altra, per adorare sette lustri appresso nell'imperatore Carlo v l'arbitro suo.

IV.

Non piccolo lievito a nuove discordie ed invasioni e sciagure aveva lasciato in Italia Carlo vin nel suo dipartirsene. Digià Firenze, deliberata a impiegarvi tutto il suo potere, aveva cominciato guerra contro ai Pisani, i quali, come dicemmo, le si erano ribellati sotto i francesi auspicii; guerra rovinosa agli uni ed agli altri, guerra per iscopo, per mezzi, per ogni altro accidente miserabile. Combattevano per Firenze Ranuccio da Marciano, Paolo e Vitellózzo Vitelli, e Francesco Secco; militavano per Pisa, insieme cogli aiuti mandati dal duca di Milano e dai Veneziani, e

con qualche nerbo di Tedeschi, Lucio Malvezzi, Ludovico Mirandola, Gianpaolo Manfrone e Soncino Benzoni, tutti condottieri fra gli Italiani di qualche nome e potenza. Però intanto che in oscure fazioni si consumavano le loro forze e si moltiplicavano gli sdegni con pregiudizio non meno dei vincitori che dei vinti, un fiero turbine si addensava nell'Umbria sopra Firenze.

Avevano preparato questo turbine gli Stati della Lega italiana per deprimere e punire in lei la soverchia affezione verso la Francia: Piero de' Medici, già signore, ora fuoruscito della patria sua, dirigeva la trama, e ne doveva essere strumento Virginio Orsini, che, fuggitosi anch'egli durante la battaglia di Fornuovo dal campo francese, aveva molto lietamente abbracciato l'occasione di raccogliersi attorno coll'altrui pecunia gli antichi suoi soldati e partigiani. Lusingavansi poi i congiurati, che Giovanni Bentivoglio da Bologna, Caterina Sforza da Imola e da Forlì, ed i Baglioni da Perugia avrebbero mosso guerra alla repubblica al che, quando per avventura si fosse aggiunta, come credevasi, la sollevazione di Cortona, e quando Siena, giusta l'intesa, avesse pigliato le armi per riacquistare Montepulciano, e Pisa si fosse mostrata alquanto viva nella propria difesa, poca speranza di salute sarebbe rimasta ai Fiorentini. Con tutto ciò l'impresa ebbe il fine, che per solito arriva ai consigli troppo complicati. Virginio Orsini, dopo avere invano oppugnato la terra di Gualdo, e atteso nei territorii di Perugia e di Siena lo scoppiò di tutti i maneggi, con mille tra uomini d'arme e cavalleggeri si rivolse verso l'Abruzzo in servigio del re di

Francia; e tosto gli tennero dietro pel medesimo effetto colle loro genti Paolo e Camillo Vitelli (4).

Erano in questo mezzo le cose dei Francesi nel reA. 1496 gno di Napoli precipitate a manifesta rovina. Partito Carlo vin, il buon re Ferdinando era stato accolto a Napoli in trionfo, e incontanente aveva posto mano a sottomettere ad una ad una le provincie perdute. Nė fu piccolo augumento alla sua causa il ritorno di Prospero e di Fabrizio Colonna. Costoro erano stati dei primi ad entrare nel servigio dei Francesi: i soverchi premii impartiti loro dal re Carlo vin, furono a quel che parve, incentivo ad abbandonarlo, sia che eglino non sapessero più qual guiderdone aspettarne, sia che coll'unirsi al vincitore credesser di conservare meglio i doni ricevuti dal vinto. Ravvivò alquanto le cose dei Francesi l'arrivo di Virginio Orsini e dei Vitelli nella Puglia; dove entrambi gli eserciti accorsero per riscuotere la gabella dei pascoli, sicchè in pochi giorni tra una parte e l'altra distrussero con leggerissimo vantaggio proprio seicentomila capi di bestiame minuto e duecentomila di grosso. Del resto la guerra continuò senza venire segnalata da altro che dalle miserie dei popoli. Bensi stimiamo degno di particolare menzione il generoso eccidio di 700 fanti tedeschi.

Conducevali un capitano Eberlino dalla città di Troia a quella di Lucera; quand'ecco a mezza via affacciarsi la schiera di Camillo Vitelli, trascorsa innanzi all'esercito francese. I Tedeschi, non potendo retrocedere, anzichè arrendersi, si ordinarono in cerchio colle picche e cogli archibusi, e si avanzarono

(1) Guicciard. I. III. p. 16–25. — Gioyio, Ist,, IV, 165.

arditamente tra squadra e squadra. Arrise da principio la fortuna al virile proposito. Era la maggior parte dei Vitelleschi a cavallo e armata di archibugi: sicchè, non potendo efficacemente nè caricare il nemico, nè colpirlo, titubano, si confondono, ed intanto lasciano che i Tedeschi senza paura procedano avanti. Finalmente si avvisarono di disporsi anch'essi in rotondo e bersagliare da lontano codesta fitta massa, che ognora acquistava terreno. Resistettero alquanto i Tedeschi senza scomporsi allo strazio dei colpi ostili: poscia, rotto improvvisamente il globo, gettaronsi, come uomini perduti, sopra i nemici. In questo mentre sopraggiunse tutto l'esercito francese, e li respinse fino al margine del fiume Chilone. Quivi si fermarono, e finchè ebbero vita la difesero. Valse questo fatto a mettere in luce e la costanza alemanna, e i primi effetti della nuova milizia degli archibugieri a cavallo stabilita da Camillo Vitelli, la quale, se per la molta lunghezza e il grave peso delle armi declinò quasi subito, servi nondimeno di onorato esempio ad altre consimili instituzioni (1),

(1) Pauli Jovii, Elogia, 1. IV. 290.- Giovio, Įst. IV. 274.— Domenichi, Vita ms. di Vitello Vitelli. Gli Arquebutes à cheval, di cui parla il Comines (Mém. 1. VIII. ch. XIV. p. 153. ap. Petitot) nel racconto della spedizione di Carlo VIII, erano archibugi da cavalletto, e non archibugieri a cavallo, come malamente tradusse Lorenzo Conti. Furono bensì scoppiettieri a cavallo quelli mandati nel 1497 dal senato di Venezia alla guerra di Pisa (P. Bembi, Hist. I. IV. f. 51. Venet. 1551). Nel 1502 tra i cavalleggieri del duca Valentino eranvi 40 scoppiettieri (Machiav. Legaz, al Valent. lett. XV. p. 613). Più tardi questa milizia fu rinnovata da Giovanni de'Medici, e quindi recata in Francia da Pietro Strozzi.

Fu questo l'ultimo vantaggio che i Francesi riportassero in quella guerra. Poco dipoi l'inopia, il malcontento dei sudditi, e le insolenze degli Svizzeri e dei Tedeschi stipendiarii condussero il duca di Monpensieri a rendere al nemico tutte le terre possedute nel regno, sotto condizione che gli fossero forniti i mezzi di ritornare in Francia. Per tale effetto si raccolsero a Baia le reliquie della famosa spedizione di Carlo yın: ma intantochè di mese in mese stanno elleno vanamente aspettando il naviglio promesso e disputando intorno ai capitoli dell'accordo concluso, la malvagità dell'aere e dei cibi seminò fra le schiere un crudelissimo morbo, che in breve le ridusse pressochè al nulla. Il papa si valse della depressione del partito francese, per fare arrestare e chiudere in prigione Paolo e Virginio Orsini, e svaligiarne le squadre guidate da Giangiordano Orsini e da Bartolomeo di Alviano (1).

Era costui nato in Todi della nobile prosapia degli 20 lugl. Atti. Dispersi i suoi congiunti da papa Paolo II, si ac1496 concio per paggio prima con Napoleone, quindi con

Virginio Orsini. Virginio, postogli amore, lo adottò nella sua famiglia, gli diede una compagnia e gli procurò i primi stipendii (2). Fin qui arrivarono i favori altrui: della restante sua fortuna fu egli medesimo proprio autore. Ora a lui parve di essere in obbligo di compensare beneficio con beneficio, ristorando la caduta fortuna di casa Orsini. Cominciò, ignorasi se per industria propria o per occulto consenso del re

(1) Giovio, IV. 188. —Guicciard. III. 76. — Comines, VIII, 21. — Guill. de Villeneuve, Mém. p. 316.

(2) Sansovino, Storia di casa Orsina, }. I. f. 10. vers. (Venezia 1565).

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