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il re di Francia per distendere il dominio milanese agli antichi confini; Ferdinando, pronto sempre a partecipare nei guadagni, non mai nei pericoli, anelava all'acquisto delle città marittime della Puglia. Il duca di Savoia era piuttosto trascinato dall'esempio e dall'autorità della Francia, dal cui dominio si trovava allora tutto circondato. Quanto all'Estense e al Gonzaga, non mancavano loro antichi rancori e desiderii da soddisfare.

Accolse Venezia con grandezza di animo veramente italiana l'inaspettata disfida, e, quantunque sola, e privata del braccio di Renzo e di Giulio Orsini (li aveva essa assoldati con 500 lancie e 3000 fanti, ma il Papa li soprattenne a forza), si apparecchiò a resistere agli sforzi combinati di mezzo l'Europa. Riunì un esercito di 2000 uomini d'arme, 3000 tra cavalleggieri e Stradiotti, 15,000 cerne, e altrettanti soldati a piedi delle migliori fanterie d'Italia. Prepose a comandarlo Niccolò Orsini conte da Pitigliano, e Bartolomeo d'Alviano, quello col grado di capitano generale, questo di governatore. Però non mai erano state costrette a cooperare insieme due nature tanto fra loro contrarie, quanto quelle di questi due condottieri. Vecchio di età, lento, impassibile, ostinato, era il Pitigliano uno di coloro, che reputano vincere il non perdere, nè il vantaggio di una vittoria così grande da superare il pericolo di una sconfitta. Minore di età e di esperienza, tutto ira, tutto impeto, l'Alviano non aveva di comune con lui che il nome del casato, e il vessillo sotto il quale combattevano; del resto pronto a pugnare sempre ed a marciare sempre innanzi; insomma di quelli

che, vincitori, tutto conculcano nella prima foga, vinti, non sanno rimettersi che assaltando.

Consigliava il Pitigliano di raccogliere le soldatesche in un forte sito tra l'Oglio ed il Serio, e, abbandonata al nemico la Ghiaradadda, da quell' inaccessibile ricovero assecurare senz'altra fatica tutta la terraferma; partito prudente, che posto accortamente in esecuzione avrebbe salvato lo Stato. Proponeva l'Alviano di passare l'Adda, assalire inopinatamente i Francesi dentro il proprio loro confine, vincerli, e vinti che fossero ritornare addietro per respingere con uguale prontezza iTedeschi; partito audace, ma non disperato, nè privo di molti vantaggi. La signoria non ebbe coraggio di appigliarsi affatto all'una od all'altra di queste due opinioni; ma dando con infelice consiglio di mezzo ad entrambe, deliberò che l'esercito si accostasse bensi all'Adda per difendere tutto quel tratto di paese e impedirne l'entrata al nemico, ma si guardasse assolutamente di venire alle mani.

Con questa risoluzione i Veneziani si approssimarono all'Adda, ed espugnarono Treviglio: ma mentre sono intesi a metterla a ferro ed a sacco, il re Luigi xir getta tre ponti a Cassano, e traghetta senza ostacoli sull'altra sponda. Ciò fatto, il Triulzio gli gridava: Sire, oggi abbiamo vinto i nemici! (1) Nulladimeno il re, veggendo che i Veneziani non si muovevano punto dai trincieramenti presso Treviglio, avviò l'esercito verso Pandino e Vailà, affine di recidere loro le comunicazioni colle città di Crema e di Cremona, e quindi

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o snidarli dal forte sito, o trascinarli nella necessità di venire ad un fatto d'arme.

Due strade mettevano da Cassano a Vailà: l'una 14mag⚫ più bassa e lunga serpeggiava accanto al fiume, l'altra superiore e più breve passava in mezzo a collinette coperte di macchie e di vigneti, e faceva alla prima come la corda all'arco. Per quella s'incamminarono i Francesi, per questa i Veneziani risolutia prevenirli, e coll'accamparsi in luogo opportuno impedirne i divisamenti. Marciava innanzi coll'antiguardia e colla battaglia il Pitigliano; tenevagli dietro a certa distanza in forma di retroguardo con 800 lancie e col fiore della fanteria Bartolomeo d'Alviano.

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Giunto al crocicchio ove le due vie si univano, l'Alviano scoperse i Francesi al di là di un torrentello, che allora si trovava secco di acque: e, fosse necessità, fosse furore, non si potè tenere si, che piantati sei pezzi d'artiglieria sopra l'argine di quello, e mandato in fretta a pregare il Pitigliano di ritornare addietro, col solito empito non desse dentro. Piegarono al primo scontro i Francesi: riordinolli la presenza del re; finchè, essendo sopraggiunte al rumore le altre schiere, tutto il loro esercito si riversò addosso ai Veneziani. Questi tuttavia, fidando nel prossimo arrivo del Pitigliano, stettero gagliardamente al contrasto. Vana lusinga, che distrusse senza pro il fiore della italiana fanteria! Infatti il Pitigliano, sia che riputasse quella cosa di lieve momento, sia che la giudicasse impossibile a ripararsi, senza badare ad altro, attendeva a camminare innanzi. Alla fine, dopo tre ore di calda mischia, l'Alviano, mentrechè tutto

pieno di ferite stava per risalire a cavallo, fu fatto prigioniero, e la battaglia si mutò in fuga.

Fuggi la cavalleria veneta quasi intatta presso il Pitigliano; rimasero sul campo 8000 fanti, e fra essi quasi tutti quelli che Naldo e Vincenzo da Brisighella, scacciati dalla patria dal furore di parte, avevano riunito tre lustri avanti, e con gran lode guidato in molti combattimenti (1). L'Alviano fu tosto condotto dinanzi al re, il quale, siccome sapeva di certe bravate da lui fatte, così, dopo averlo benignamente ricevuto, « Capitano, gli disse, voi siete nostro prigioniero; secondo le parole che poco fa di voi ci furono riferite, voi credevate che la cosa succedesse al contrario; ma per nostra Donna, voi non ci uscirete di mano mai più ». E quanto gli disse, tanto, finchè stette nemico ai Veneziani, fedelmente gli attenne (2).

Smarriti dall'inopinata sciagura, e da' celeri progressi de' vincitori, i veneti patrizii sia per placare con pronta obbedienza la Lega, sia per levare nei sudditi il pericolo delle ribellioni, sia per salvare le private possessioni di terra ferma, 'sia per avere il

(1) È Brisighella una piccola terra in val di Lamone nel territorio Faentino. I Veneziani, allorchè diedero forma alle proprie cerne, imitarono non solo gli ordini di coteste fanterie, ma eziandio il colore delle casacche, le quali erano dimezzate a rosso e bianco. Navagero, p. 1207.-Ammirato, XXVII. 251. Machiav. Frammenti storici, p. 140. 148-150.

(2) Da Porto, Lett. istor. p. 39. — Mém. de Bayard. ch. XXIX. p. 271 (t. XV. ap. Petitot). — P. Giustiniani, Ist. Venez. 1. XI. 430 (Venezia 1671) — Mém. de la Trémouille, ch. XXI. 458. Guicciard. VHI. 330. — Bembo, VII. 90. — Nardi, Storie, IV. 206. - Fr. Belcarii, Comment. XI. 317. A. Mocenici, Bell. Cameracense, l. I. — Prato, St. di Milano, p. 274 (Archiv. stor! t. III).

vantaggio di fare volontariamente ciò che stimavano necessario e irrimediabile, sia infine per tutte queste cagioni insieme, sciolsero dal giuramento le città del dominio, e ridussero i loro sforzi alla difesa della laguna. Pure pochi mesi innanzi codesto medesimo senato aveva eccitato grave sospetto di aspirare alla signoria di tutta l'Italia!

Per gran ventura l'ignavia dei confederati permise ai Veneziani di riacquistare Padova e Treviso; e il riacquisto di queste due città risollevò i loro animi a difenderle a tutto potere. Messo perciò in Padova tutto l'esercito del Pitigliano, il doge Loredano confortò i senatori ad accorrervi a propugnarla in persona: « non essere, sclamava, deliberazione degna dell'antica fama e gloria del nome veneziano, che da noi sia commessa intieramente la salute pubblica, e l'onore, e la vita di noi stessi e delle mogli e dei figliuoli nostri alla bravura ed alla fede d'uomini forestieri a soldo, e che non corriamo noi spontaneamente e popolarmente a difenderla con i petti e con le braccia nostre. Le calde parole del magnanimo principe, sostenute dall'esempio dei due suoi figliuoli, condussero unanimemente la nobiltà veneziana alla risoluzione di recarsi all'esercito; la quale risoluzione, se fosse stata seguitata prima, avrebbe forse procurato alla repubblica, non che scampo, vittoria (1).

Adunque tutta la speranza e tutto lo sforzo dei Veneziani si ridusse nella difesa di Padova; e quivi in breve si richiusero 12,000 fanti eletti sotto il governo di Dionigi figliuolo di Naldo da Brisighella, dello Zitolo

(1) Guicciard. VIII. 376.

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